mercoledì 23 novembre 2022

Il compromesso storico di Cicerone e la Costituzione mista.


 

 Cicerone De re publica 55-51

La res publica che è  populi res consilio quodam regenda est, ut diuturna sit (De Repubblica, I, 41) deve essere guidata tenuta dritta con ponderazione, con un potere ragionato, perché sia duratura.

 Tale consilium deve sempre essere applicato ad eam causam quae genuit civitatem.

 

La ricerca della causa più vera secondo Tucidide è indispensabile anche per capire la genesi reale delle guerre:" Io considero la causa più vera-ajlhqestavthn provfasin- ma meno dichiarata a parole- ajfanestavthn de; logw/- il fatto che gli Ateniesi, divenendo potenti e incutendo timore agli Spartani, li costrinsero a combattere. Ma i motivi- ai[tiai- di entrambe le parti, quelli dichiarati apertamente, per cui, rotta la tregua, si disposero alla guerra, furono i seguenti" (Storie, XXII, 6).

 

Deinde aut uni tribuendum est (il consilium- il poterepotere deliberante con ponderazione) aut delectis quibusdam  aut suscipiendum est moltitudini atque omnibus- (42) : il potere da attribuire a uno solo, o ad alcuni prescelti, o che deve essere assunto dalla moltitudine intera.

Ecco la monarchia-tirannide, l’aristocrazia-oligarchia e la democrazia-oclocrazia presenti di Polibio.

 

Quare cum penes unum est omnium summa rerum, per cui quando uno solo assomma tutti i poteri, regem illum vocamus, quello chiamiamo re, et regnum eius rei publicae statum e regno la costituzione di quello Stato.

Cum autem est penes delectos, tum illa civitas optimatium arbitrio regi dicitur, quando invece (il potere) è nelle mani di alcuni prescelti, allora si dice che quella città è retta dal volere degli ottimati.

 

 

 

Chi sono Optimates secondo Cicerone.

 

L’orazione Pro Sestio (56 a. C.) è una peroratio in difesa del tribuno del 57  Publio Sestio che fu  accusato de vi da M. Tullio Albinovano e T. Claudio quale subscriptor, secondo accusatore.

 Sestio opponeva le sue bande armate a quelle di Clodio il quale voleva impedire il ritorno in patria di Cicerone mandato in esilio nel 58 per avere fatto strangolare in carcere senza processo  i Catilinari.

Cicerone potè tornare a Roma nel 57. Clodio verrà ucciso da Milone nel 52 e Milone sarà difeso da Cicerone,

Ebbene la Pro Sestio  contiene una famosa definizione degli Optimates i quali secondo Cicerone sono tutti i cittadini benestanti e ben viventi, ossia non malviventi: “Omnes optimates sunt qui neque nocentes sunt, nec natura improbi nec furiosi, nec malis domesticis impediti. Est igitur ut ii sint, quam tu nationem  appellasti, qui et integri sunt et sani et bene de rebus domesticis costituti (97), sono ottimati tutti coloro che non sono malfattori né malvagi di natura, né furenti. Ne deriva quindi che quelli che tu hai chiamato casta sono gli irreprensibili, assennati e benestanti.

 

I governanti devono assicurare otium cun dignitate, tranquillità con prestigio  omnibus sanis set bonis et beatis a tutti i cittadini assennati, onesti e agiati (98)

In questa orazione  post reditum (57)  Cicerone fa entrare tra gli Optimates  tutti i benestanti: non solo i membri dell’ordine senatorio ed equestre, ma giù giù fino liberti. E’ una sorta di “compromesso storico” nato per contrastare Catilina e vincere le elezioni del 63. E’ l’alleanza di tutti i proprietari contro il vulgus, strumento cieco dei demagoghi eversori come Catilina e Clodio. Un programma da partito conservatore.

 

 Gadda in una delle Novelle del ducato in fiamme  (1953) mette in rilievo l’appartenenza di Cicerone al partito dei proprietari: “Così d’attorno al De Officiis (44) ferveva, in que’ mesi, e trepestava tutto il formicolante quartiere dell’anima. Ma la vita ribolle ancora , inesausta, dentro le pentole dell’indescrivibile arsenale. Così tra le dialettizzazioni storicizzanti circa il cathècon tèleion e il cathècon mèson- kaqh`kon tevleion, mevson- cioè circa l’officio pefetto e l’officio medio (è il tradurre di un cruschevole), fra Poseidonio (Posidonio 135-50) e Panezio (185-109), fra Peripatetici ed Accademici, e nel bel mezzo dell’onesto e dell’utile, della Giustizia e della Temperanza, della Prudenza e della Fortezza, salta fuori tutt’a un tratto, una rabbia pazza, da padron di casa con la museruola, contro i decreti legge del 707(decreti di Cesare del 47) che rimettevano agli inquilini …non i loro peccati , ma i fitti arretrati. Con repentini morsi di vipera il risentimento del moralista-padron di casa azzanna da morto colui “qui omnia jura divina et humana pervertit” (De officiis, I, 8, 26, sconvolse tutte le leggi divine e umane).

La stizza di aver dovuto condonare quei fitti mescolata con quella del prestito forzoso imposto dal dittatore a tutta la gente per bene, gli fa esclamare che quegli non fu un uomo , ma un mostro, un sadico folle, assetato di volontà malvagia: “tanta in eo peccandi libido fuit, ut hoc ipsum eum delectaret peccare, etiamsi causa non esset” (De officiis, II, 84)[1] in costui c’era tanta brama di fare il male che gli dava piacere questo stesso fare il male , anche se non ce n’era motivo.

Viene in mente l’Eteocle delle Fenicie di Euripide citato poco sopra e assimilato a Cesare come ho già detto.

 

Dagli Optimates sono esclusi i bottegai e gli operai: la piccola borghesia e il proletariato

Cicerone mette gli opifices nel catalogo di quanti traggono guadagno da mestieri illiberali e degradanti. Tali sordidi quaestus sono quelli di esattori, usurai, salariati, piccoli bottegai  (qui mercantur a mercatoribus quod statim vendant) i quali per vendere devono mentire, e in generale di tutti gli operai che esercitano una professione degradante, infatti il lavoro manuale non può avere carattere di nobiltà: “opificesque omnes in sordida arte versantur; nec enim quicquam ingenuum habere potest officina” (De officiis, I, 150).

L’Arpinate ricava questo pregiudizio antipopolare dal proprio snobismo,  di homo novus disprezzato dalla nobiltà antica che lo considerava  inquilinus civis urbis Romae[2], cittadino occasionale, locatario, della città di Roma, come poteva essere un meteco per gli Ateniesi.

 Forse Cicerone  ricorda quanto dice il personaggio  Diotima, la professoressa dell’amore, del Simposio  platonico:"kai;  oJ me;n peri; ta; toiau'ta sofo;" daimovnio" ajnhvr, oJ dev, a[llo ti sofo;" w[n, h] peri; tevcna" h] ceirourgiva" tinav", bavnauso"" (203a), chi è sapiente in tali rapporti[3] è un uomo demonico, quello invece che si intende di qualcos'altro, o di tecniche o di certi mestieri, è un facchino[4].

Nella Politica di Aristotele oJ bavnausoς dh`moς è il popolo che svolge un lavoro manuale diverso dal coltivare la terra (1289b 33).

 

Torniamo al De re publica. Cicerone attraverso Scipione Emiliano sostiene che gli ottimi non sono necessariamente i più forniti di mezzi materiali né gli aristocratici(I, 51). Questa è una prava opinio, un pregiudizio sbagliato degli uomini, un error vulgi che ignora la virtù. Quanti condividono tale pregiudizio errato esse  optimos putant gli opulentos e quelli genere nobili natos-.

 Da quando non è la virtù bensì il potere di pochi a governare lo Stato nomen illi principes optimatium mordicus tenent, re autem carent nomine, quei capi trattengono con i denti il nome di ottimati ma di fatto ne sono privi. Infatti il potere non deve basarsi sulla ricchezza, sul nome, e sui mezzi materiali che spesso sono associati alla superbia, nec ulla deformior species est civitatis quam illa, in qua opulentissimi optimi putantur, e non c’è alcun aspetto più di Stato più brutto di quello in cui i più forniti di mezzi materiali sono stimati i migliori.

Lo Stato migliore è quello retto dalla virtù Virtute autem gubernante rem publicam quid potest esse praeclarius? (I, 52).

La Virtus sta nel non obbedire alla cupidigia- l’ejpiqumhtikovn di Platone, il cavallo nero, e poter presentare ai cittadini la propria vita come paradigma, esempio da imitare.

Così tra la debolezza di uno solo (cfr. il tiranno di Platone nella Repubblica) e la temerarietà di molti (nella democrazia radicale di Polibio e Platone) medium optimates possederunt locum, quo nihil potest esse moderatius, gli ottimati tengono il mezzo che rappresenta il massimo della moderazione, e quando lo Stato sia tutelato da questi, i popoli sono felicissimi poiché hanno affidato la propria tranquillità ad altri che se ne prendono cura con la loro virtus, che è la capacità politica ma non solo machiavellica, bensì pure etica.

 

A questa idea della misura è collegabile  la teoria della classe media.  La troviamo già nelle Supplici  di Euripide (422)

Qui Teseo non è il vile seduttore di Arianna[5], ma l'eroe patrio di Atene garante dei valori della povli", il fondatore della democrazia e la prefigurazione di Pericle. I fautori della tirannide invece sono personaggi negativi.

Teseo si oppone all'araldo tebano il quale sostiene il vantaggio di una città governata da un solo uomo ( che poi è Creonte) ponendo, tra l'altro, una domanda retorica:" Come potrebbe il popolo, che non ragiona rettamente, reggere uno Stato?" (vv. 417-418).

Il capo degli Ateniesi "non controbatte  l'araldo per quel che riguarda la critica ai demagoghi"[6], ma propugna  la teoria della classe media.

Tre sono le classi dei cittadini: i ricchi sono inutili e desiderano avere sempre di più, quelli che non hanno mezzi di sussistenza sono temibili ("deinoiv", v. 241) poiché si lasciano prendere dall'invidia e, ingannati dalle lingue dei capi malvagi, lanciano strali contro i possidenti.

In conclusione:"Triw'n de; moirw'n hJ  jn mevsw/ sw/zei povlei"-kovsmon fulavssous j o{ntin j  a]n tavxh/ povli"",  ( Supplici, vv. 244-245), delle tre parti quella che sta in mezzo salva le città, custodendo l'ordine che essa dispone.

 

C’è una satira (la IV) di Vittorio Alfieri contro il ceto medio che merita di essere letta. E’ l’antitesi della teoria della classe media di Euripide.

    

  La satira è preceduta da un’epigrafe tratta dal Persa di Plauto: si tratta di una sequela di insulti lanciati dallo schiavo Tossilo contro il lenone Dordalo: “pecuniae accipiter avide atque invide,/procax, rapax, trahax-trecentis versibus/tuas inpuritias transloqui nemo potest” (vv. 409-411), avvoltoio avido di denaro e invido, sfacciato, ladrone, rapace, nessuno potrebbe raccontare le tue impudicizie nemmeno in trecento versi.

Alfieri li traduce così: “Aurivoro avvoltoio, invido ed avido/di te audace furace rapace/annoverar le porcherie, né il ponno carmi trecento.

  LA SESQUI-PLEBE

       1       Avvocati, e Mercanti, e Scribi, e tutti

       2   Voi, che appellarvi osate il Ceto-medio,

       3   Proverò siete il Ceto de' più Brutti.

       4      Nè con lunghe parole accrescer tedio

       5   Al buon Lettor per dimostrarlo è d'uopo;

       6   Che in sì schifoso tema anch'io mi tedio. -

       7      È ver, che molti prima, e alquanti dopo

       8   Di voi, nel gregge social, si stanno:

       9   Ma definisco io l'uom dal di lui scopo.

      10      Certo è, che il vostro è di camparvi l'anno;

      11   E d'impinguarvi inoltre a più non posso,

      12   Di chi v'è innanzi, e di chi dietro, a danno.

      13      Il Contadin, che d'ogni Stato è l'osso,

      14   Con la innocente industre man si adopra

      15   In lavori, che il volto non fan rosso.

      16      Il Grande, e il Ricco, la cui man null'opra,

      17   Spende il suo; quindi agli altri egli non nuoce,

      18   Ed è men sozzo perch'ei già sta sopra.

      19      Ma voi, cui l'esser poveri pur cuoce,

      20   E l'aratro sdegnate, o ch'ei vi sdegna,

      21   Bandita avete in su l'altrui la croce.

      22      Onde voi primi, alta ragion m'insegna,

      23   Ch'esser dobbiate infra le classi umane,

      24   Qualor sen fa patibolar rassegna.

      25      Le cittadine infamie e le villane

      26   Veggo in voi germoglianti in fido innesto,

      27   E in un de' Grandi le rie voglie insane.

      28      De' ceti tutti, i vizi tutti; è questo

      29   Il patrimonio eccelso di vostr'arte;

      30   Ma non di alcun de' ceti aver l'onesto.

      31      D'ogni Città voi la più prava parte,

      32   Rei disertor delle paterne glebe,

      33   Vi appello io dunque in mie veraci carte,

      34      Non Medio-ceto, no, ma Sesqui-plebe.

 

Gadda   non ha simpatia per Cicerone come tanti altri

Sentiamo Montaigne (1533-1592)  che dopo avere indicato tra i suoi maestri Seneca e Plutarco, scrive: “Quanto a Cicerone, le opere sue che possono servire al mio scopo sono quelle che trattano della filosofia, particolarmene morale. Ma per confessare arditamente la verità (…) il suo modo di scrivere mi sembra noioso, come ogni altro simile. Di fatto le sue prefazioni, definizioni, divisioni, etimologie occupano la maggior parte della sua opera: quello che c’è di vivo e di midollo è soffocato dalle sue lungaggini preliminari. Se ho impiegato un’ora a leggerlo, che è molto per me, e rivado con la memoria a quello che ne ho tratto di succo e di sostanza, il più delle volte non vi trovo che vento (…) io voglio ragionamenti che assalgano direttamente il nocciolo del dubbio: i suoi menano il can per l’aia. Sono buoni per la scuola, per il foro, per la predica, dove abbiamo agio di sonnecchiare e, un quarto d’ora dopo, siamo ancora in tempo per ritrovare il filo del discorso” (libro II, capitolo X).

 

Infine rivediamo Huysmans che ricorda  gli autori di Des Esseintes e i suoi gusti letterari: “Nella prosa, la verbosità, le ridondanti metafore, le gratuite digressioni del Cece, non lo allettavano di più (delle grazie elefantesche di Orazio o dell’esosa pedanteria di Virgilio di cui sopra).

La iattanza delle sue apostrofi, l’alluvione dei luoghi comuni patriottici, l’enfasi delle sue concioni, la greve compattezza del suo stile carnoso, ben nutrito ma degenerato in grasso, privo d’ossa e di midolla; le intollerabili scorie degli avverbi sesquipedali coi quali apre le frasi, l’inalterabile schema con cui sono calcati i suoi adiposi periodi, mal cuciti insieme dal filo delle congiunzioni; infine il tedioso vizio della tautologia, lo seducevano mediocremente” ( Controcorrente- del 1884- capitolo III)

Giudizi severi, anche troppo.

 

Consiglio di leggere Gli affari del signor Giulio Cesare di Bertolt Brecht

 

 

 

Torniamo al De Repubblica di Cicerone I, 42

Illa autem est civitas popularis (sic enim appellant), in qua in populo sunt omnia, è invece “popolare” infatti la chiamano così, quella città nella quale tutti i poteri stanno nel popolo.

Nessuno di questi tre ordinamenti è perfetto, né ottimo a mio parere  tuttavia tollerabile tolerabile tamen. 

Comunque Cicerone non si trattiene dallo scrivere che il potere in mano al popolo è il minime probandum. Avrà in mente la tradizione contraria alla democrazia radicale che va da Tucidide a Platone, Aristotele e  Polibio .

 

Cicerone procede con la critica ai tre regimi: nel regno che sembra identificato con la tirannide o almeno con la monarchia di Erodoto e di Polibio (vedi sopra)  solo pochissimi  hanno parte del diritto comune e del governo, o addirittura uni solo,  expertes sunt ceteri communis iuris et consilii (I, 43); sotto gli ottimati vix particeps libertatis potest esse multitudo, la moltitudine può essere partecipe della libertà a stento;  del resto quando tutto il potere viene gestito dal popolo, tamen ipsa aequalitas est iniqua, cum habet nullos gradus dignitatis , la stessa uguaglianza è ingiusta, disuguale, siccome non ha gradazioni di potere e prestigio. Insomma non ci sarebbe la meritocrazia.

 

Seguono tre esempi. Sotto Ciro il Vecchio che pure fu re saggissimo e giustissimo, il potere era tutto concentrato nelle mani di uno solo e il popolo era escluso- un monarca tiranno dunque come quello descritto e rifiutato da Otane nel dibattito costituzionale del terzo libro di Erodoto.

Per Ciro il Vecchio cfr. quanto scrive Platone nelle Leggi.

 

 a Marsiglia i Massilienses nostri clientes erano retti con somma giustizia per delectos ac principes cives ma il popolo viveva in una condizione simile alla servitù. C’era dunque una oligarchia.

Aggiungo che se i capi di Marsiglia erano clienti dei capi Romani i cittadini marsigliesi erano clienti dei clienti. Un poco come noi Italiani di oggi.

 

Per quanto riguarda la democrazia Ateniese, questa, sublato Areopago, legiferava attraverso decreti del popolo dal momento che non avevano gradi di potere –quoniam distinctos dignitatis gradus non habebant-  e la città non manteneva il proprio decoro (I, 43).

 

Nelle Eumenidi di Eschilo (458) tanto le Erinni quanto Atena raccomandano agli Ateniesi di non esautorare del tutto l’Areopago. Avevano iniziato a farlo Efialte e Pericle dopo la caduta di Cimone (461).

 

Il re pur buono dunque può degenerare in un tiranno come Falaride ( famigerato tiranno di Agrigento dal 570 al 555).

Un governo aristocratico prima diventa oligarchico poi si stabilisce un accordo fazioso consensus et factio tipo quello dei trenta tiranni di Atene. (I, 44)

Quindi ci fu la reazione delle plebi di Atene che presero il potere capovolto in licenza pestifera.

 

 –Manca un foglio con due pagine- Desideratur quaternionis IX folium septimum

 

Poi il testo dice che si passa da un potere a un altro: mirique sunt orbes et quasi circuitus in rebus publicis commutationum et vicissitudinum, impressionanti sono i ritorni e quasi i cicli dei mutamenti e delle vicissitudini negli ordinamenti politici e conoscerli è proprio del filosofo, mentre prevederli se incombono quando si è al  governo-prospicere inpendentis in gubernanda re publica- e controllarli è pregio di un grande cittadino e uomo quasi divino.

 

La conclusione è questa: “Itaque quartum quoddam genus rei publicae maximum probandum esse sentio, quod est ex his, quae prima dixi , moderatum et permixtum tribus- (I, 45), pertanto sono dell’opinione che è sopra tutti da approvare un quarto tipo di ordinamento statale quello moderato e misto di cui ho detto prima.

E’ la costituzione mista di Polibio: la mikth; politeiva di Polibio che nella costituzione romana  riunisce in sè le caratteristiche delle tre forme sane di governo: quello monarchico rappresentato dai consoli, quello aristocratico dal senato, quello democratico dai comitia  e dai tribuni della plebe.

Polibio individua la prima Costituzione mista (mikth; politeiva) nella rJhvtra di Licurgo (VI, 3, 8): a Sparta c’erano i re, la gerousiva, l’Apella e gli Efori che sindacavano l’operato dei potenti.

La considerazione successiva ci porta nell'ambito semantico e filosofico dell' ajnakuvklwsi" di Polibio (VI, 9, 10), dell'orbis  di Tacito [7] , del "cerchio" di Machiavelli[8], dell'"eterno ritorno" di Nietzsche[9].

Leopardi lo chiama "circuito".

 

 

 

Tacito afferma che una costituzione mista non può durare a lungo: cunctas nationes et urbes populus aut primores aut singuli regunt : delecta ex iis et consociata rei publicae forma laudari facilius quam evenire, vel si evenit, haud diuturna esse potest (Ann. IV, 33).

 

 

Riferisco qualche parola dallo Zibaldone  di Leopardi il quale sostiene che la monarchia è il governo sia della società primitiva sia di quella "pienamente corrotta", mentre "una società capace di repubblica durevole, non può essere che leggermente o mezzanamente corrotta (come la moderna)". Così "apparentemente, si avvicinano i due estremi, di società primitiva, di cui non è proprio altro stato che la monarchia; e di società totalmente guasta, di cui non è propria che l'assoluta monarchia". Apparentemente, poiché la società primitiva non ammette la monarchia dispotica, mentre in quella guasta "non può durar che una monarchia assoluta cioè dispotica"(3517) (…)

“Del resto s'egli è proprio carattere sì della società primitiva come della più corrotta l'essere ambedue per natura monarchiche di governo, non è questo il solo capo in cui si veda che le cose umane ritornano dopo lungo circuito e dopo diversissimo errore ai loro principii, e giunte (come or pare che siano) al termine di lor carriera, o tanto più quanto a questo termine più s'avvicinano, si trovano di nuovo in gran parte cogli effetti medesimi, e nel medesimo luogo, stato ed essere che nel cominciar d'essa carriera" (Zibaldone, 3518) .

Bologna 22 novembre 2022 ore 17, 19

giovanni ghiselli

p. s

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[1] Da S. Giorgio in casa Brocchi, in Le novelle del ducato in fiamme

 

[2] Sallustio, Cat., 31, 7

[3] Quelli tra gli uomini e gli dèi.

[4] Avvicino, forse arbitrariamente, quanto scrive Hegel nella Fenomenologia dello spirito: “il signore si rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo”; il servo invece “col suo lavoro non fa che trasformarla” Fenomenologia dello spirito (del  1807) . Capitolo 4 (A)

[5] Alcuni personaggi del mito, come Teseo appunto, o Eracle, possiedono una pluralità di significati. Più avanti vedremo lo stesso di Orfeo.

[6]V. Di Benedetto, Euripide: teatro e società , p. 180.

[7]Annales , III, 55.

[8]Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio , I, 2.

[9]Crepuscolo degli idoli , p. 128.

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