Secondo Nietzsche all’età tragica e artistica che giustifica la vita umana con l'illusione della bellezza, succede la civiltà socratica che, ostile all’istinto, coltiva il terreno della razionalità e della conoscenza, e produce quella cultura alessandrina che ha imbrigliato il mondo da allora in avanti: “Tutto il mondo moderno è preso nella rete della cultura alessandrina e trova il suo ideale nell’ uomo teoretico, che è dotato di grandissime forze conoscitive e lavora al servizio della scienza, e di cui Socrate è il prototipo e il capostipite”[1].
Una cultura, devo dire, alla quale Euripide non è organico, non quando fa cantare al coro delle Baccanti nel primo Stasimo della sua ultima tragedia "to; sofo;n d j ouj sofiva" (Baccanti , vv. 395), il sapere non è sapienza.
“Voglio, una volta per tutte, non sapere molto. La saggezza pone dei limiti anche alla conoscenza”[2].
“Essere uomo significa avere un logos. Ma la tragedia più tarda presenta un movimento inverso. All’Agamennone del principio dell’Ifigenia in Aulide la riflessione ha tolto la sicurezza dell’agire, ed Euripide dice spesso che qualcuno è troppo sapiente”[3].
E non abbastanza saggio.
Insomma: la sapienza deve avere il sapore della vita.
Questa idea si trova anche nel discorso finale del film di Chaplin The great dictator (1940): il barbiere, sosia di Hynkel-Hitler, scambiato per il grande dittatore deve fare un discorso che legittimi e anzi esalti la prepotenza del tiranno, presentato alla folla come il futuro imperatore del mondo dal ministro della propaganda Garlitsch-Goebbels. Si noti che hinken significa “zoppicare” e che il tiranno, da Edipo, a Periandro, a Riccardo III, ha spesso a che vedere con la zoppia. La tirannide è una monarchia claudicante.
Ebbene il piccolo grande uomo non rispetta la parte che gli hanno assegnato e dice di non volere comandare su nessuno, ma aiutare tutti. Poi continua dicendo: “Our knowledge has made us cynical, our cleverness hard and unkind. We think to much and feel to little. More than machinery we need humanity. More than cleverness we need kindness and gentleness”, la nostra conoscenza ci ha resi cinici, la nostra intelligenza duri e scortesi. Noi pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchinari abbiamo bisogno di umanità. Più che di intelligenza abbiamo bisogno di bontà gentilezza.
La sofiva è lo scopo di quella cultura che Nietzsche chiama tragica: "la sua principale caratteristica consiste nell'elevare a meta suprema, in luogo della scienza, la sapienza". La sapienza (sofiva) si tuffa nel fiume della vita. La scienza (to; sofovn, il sapere) al contrario è il fine dell'uomo teoretico il quale "non osa più affidarsi al terribile fiume dell'esistenza: angosciosamente egli corre su e giù lungo la riva”[4] .
“L’artista tragico non è pessimista-dice appunto sì a ogni cosa problematica e anche terribile, è dionisiaco”[5].
Da Socrate a Faust: “A un vero Greco come dovrebbe apparire incomprensibile Faust…che si precipita insoddisfatto attraverso tutte le discipline, dedito alla magia e al diavolo per brama di sapere, che ci basta mettere a confronto con Socrate per vedere come l’uomo moderno cominci ad avere sentore dei limiti di quel piacere socratico per la conoscenza, e come dal vasto e deserto mare del sapere aneli a una costa!”[6].
Faust, insoddisfatto della sua vita, dice a Mefistofele: “invano ho avidamente ammucchiato tutti i tesori dello spirito umano: quando alla fine mi seggo, non sgorga dal mio intimo nessuna forza nuova; io non son cresciuto di un capello, non mi trovo più vicino all’infinito”. Al che Mefistofele risponde: “Lasciatelo dire: chi se ne sta a speculare è come una bestia che uno spirito maligno fa girare in tondo sopra un’arida landa, mentre tutto all’intorno ci sono dei bei pascoli[7] verdi”. Quindi invita Faust tentato: “Intanto, andiamo via. Che è questo luogo di martirio? E che vita è questa che consiste nell'annoiare sè e i giovani?” [8]
Vale la pena di riferire anche il commento di T. Mann: "A questa tragica saggezza, che benedice la vita in tutta la sua falsità, durezza e crudeltà, Nietzsche ha dato il nome di Dioniso. Il nome del dio ebbro appare per la prima volta in quell’opera estetico-mistica della sua giovinezza che s’intitola La nascita della tragedia dallo spirito della musica in cui l’elemento dionisiaco come disposizione artistico-psichica è contrapposto al principio artistico del’apollineo…in modo molto simile a quello in cui Schiller nel famoso saggio[9] contrappone “l’ingenuo”[10] al “sentimentale”[11]. “Qui ricorre l’espressione “uomo teorico” e viene assunta la posizione polemica contro Socrate, il prototipo di quest’uomo teorico: contro Socrate, lo spregiatore dell’istinto, l’esaltatore della coscienza, colui che insegnava essere bene soltanto ciò che è cosciente, il nemico di Dioniso e il distruttore della tragedia. Da lui deriva, secondo Nietzsche, una cultura scientifica alessandrina, pallida, dottorale[12], estranea al mito, estranea alla vita, una cultura in cui hanno vinto l’ottimismo e la fede nella ragione, l’utilitarismo pratico e teorico che, come la democrazia stessa, è un sintomo della stanchezza psicologica e del decadere della forza. L’uomo di questa cultura socratica, antitragica, l’uomo teorico non vuol possedere più nulla nella sua interezza, con tutta la naturale crudeltà delle cose. Il suo atteggiamento ottimistico lo ha svigorito "[13].
Le Baccanti hanno avuto interpretazioni contrastanti: secondo alcuni sono la palinodia dell'autore che torna alla religione dopo il razionalismo e la stanchezza postfilosofica; secondo altri costituiscono un'ulteriore condanna della religione.
La prima lettura si fonda in buona parte sui versi del primo Stasimo (vv. 370-432). Sembra una scelta delle credenze popolari, contro il reo dolor che pensa, i sofismi e il pretenzioso sapere degli intellettuali.
Primo Stasimo vv. 370-432
Str. a Santità signora tra gli dèi
Santità che attraverso la terra
porti l’ala d’oro,
odi queste bestemmie di Penteo?
Odi l’empia
violenza a Bromio, il figlio 375
di Semele, il primo dio
tra i beati, durante le gioiose feste
dalle belle corone? Il quale ha queste prerogative,
di prendere parte alle danze del tiaso
e al suono del flauto scoppiare a ridere 380
e far cessare gli affanni,
quando lo splendente succo del grappolo
giunga nei banchetti degli dèi,
e nelle feste incoronate di edera
il cratere abbraccia gli uomini 385
con il sonno.
Ant. a Di bocche senza freno
di empia stoltezza
il termine è sventura;
mentre la vita
della tranquillità e il comprendere 390
rimangono al riparo dai flutti
e tengono unite le case: da lontano infatti i celesti,
pur abitando l’etere,
vedono comunque i fatti dei mortali.
Il sapere non è sapienza 395
e avere la pretesa di comprendere fatti non mortali.
Breve è la vita: per questo
uno che insegue grandi fantasie
non può conseguire quello che c’è. Questa 400
è l’attitudine secondo me di uomini
dissennati e sconsigliati.
Str. b Potessi io giungere a Cipro,
l’isola di Afrodite,
dove dimorano gli Amori
che affascinano gli animi ai mortali, 405
in particolare a Pafo che correnti
dalle cento bocche di un fiume barbaro
rendono fertile senza pioggia.
E dove c’è la Pieria
bellissima sede delle Muse, 410
sacra pendice dell’Olimpo,
là conducimi, Bromio, Bromio,
dio evio guida delle Baccanti.
Là ci sono le Grazie,
là il Desiderio, là è lecito
alle baccanti celebrare l’orgia. 415
Ant. b Il demone figlio di Zeus
gioisce delle feste,
e ama Irene che dona benessere,
dea nutrice di figli. 420
Uguale al ricco e a quello di rango inferiore
concede di avere la
gioia del vino che toglie gli affanni;
e porta odio a chi queste cose non stanno a cuore:
durante la luce e le amabili notti 425
passare una vita felice,
e saggia tenere la mente e l’anima lontane
dagli uomini straordinari;
ciò che la massa 430
più semplice crede e pratica,
questo io vorrei accettare.
Sentiamo l’interpretazione di E. R. Dodds il quale assimila questo Dioniso alla Afrodite dell’Ippolito, presentata con i versi 447 ss.
Vediamone alcuni: “Si muove per l’etere ed è nel flutto marino Cipride, tutto nasce da lei (pavnta d’ ejk tauvth~ e[fu): è lei che semina e dona l’amore, da cui tutti sulla terra siamo nati” (447-450)
“To ask whether Euripides ‘believed in’ this Aphrodite is a meaningless as to ask whether he ‘believed’ in sex. It is not otherwise with Dionysus. As the “moral” of the Hippolytus is that sex is a thing about which you cannot afford to make mistakes, so the ‘moral’ of the Bacchae is that we ignore at our peril the demand of the human spirit for Dionysiac experience. For those who do not close their minds against it, such experience can be a deep source of spiritual power and eujdaimoniva. But those who repress the demand in themselves or refuse their satisfaction to others, transform it, by their act, into a power of disintegration and destruction, a blind natural force that sweeps away the innocent with the guilty. When that has happened, it is too late to reason or to plead: in man’ s justice there is room for pity, but there is none in the justice of Nature…If this, or something like it, is the thought underlying the play, it follows that the flat-footed question posed by the nineteenth-century critics-was Euripides ‘for’ Dionysus or ‘against’ him?-admits no answer in those therms. In himself, Dionysus is beyond good and evil; for us, as Teiresias says (314-318), he is what we make of him…His favourite method is to take a one-sided point of view, a noble half-truth, to exhibit its nobility, and then to exhibit the disaster to which it leads its blind adherents because it is after all only part of the truth[14].. It is thus that he shows us in the Hippolytus the beauty and the narrow insufficiency of the ascetic ideal, in the Heracles the splendour of bodily strength and courage and its toppling over into megalomania an ruin; it is thus that in his revenge plays-Medea, Hecuba, Electra –the spectator’ s sympathy is first enlisted for the avenger and then made to extend to the avenger’s victims.
The Bacchae is constructed on the same principle: the poet has neither belittled the joyful release of vitality which Dionysiac experience brings nor softened the animal horror of ‘black’ maenadism; deliberatly he leads his audience through the whole gamut of emotions, from sympathy with the persecuted god, trough the excitement of the palace miracles and the gruesome tragi-comedy of the toilet scene, to share in the end the revulsion of Cadmus against this inhuman jiustice. It is a mistake to ask what he is trying to ‘prove’: his concern in this as in all his major plays is not to prove anything but to enlarge our sensibility-which is, as Dr. Johnson said, the proper concern of a poet” [15], chiedere se Euripide ‘credeva in’ questa Afrodite è una domanda senza senso, come chiedere se egli ‘credeva nel’ sesso. Non è diverso con Dioniso. Come la ‘morale’ dell’Ippolito è che il sesso è una cosa sulla quale non ci si può permettere di fare errori, così la ‘morale’ delle Baccanti è che noi ignoriamo a nostro pericolo l’esigenza dello spirito umano di esperienza dionisiaca[16]. Per quelli che non le oppongono una barriera mentale, tale esperienza può essere una sorgente profonda di potenza spirituale e di felicità. Ma quelli che reprimono l’esigenza in se stessi o ne rifiutano l’appagamento in altri, la trasformano con il loro atto in una potenza che disintegra e distrugge, una forza cieca e naturale che spazza via l’innocente con il colpevole. Quando questo è accaduto, è troppo tardi per ragionare o perorare: nella giustizia dell’uomo c’è spazio per la pietà, ma non ce n’è nella giustizia di Natura[17]….Se questo pensiero, o uno del genere, è quello che si trova alla base del dramma, ne consegue che la questione di lana caprina-Euripide stava ‘per’ Dioniso o era ‘contro’ di lui? -non ammette risposta in questi termini. In sé Dioniso è al di là del bene e del male; per noi, come dice Tiresia (314-318[18]), egli è quello che noi facciamo di lui…Il metodo favorito di Euripide è prendere un punto di vista unilaterale, una nobile mezza-verità, mettere in mostra la sua nobiltà, poi mettere in mostra il disastro al quale essa conduce i suoi ciechi seguaci- poiché è dopo tutto solo una parte della verità[19]. E’ così che egli ci mostra nell’Ippolito la bellezza e la stretta insufficienza dell’ideale ascetico, nell’Eracle lo splendore della forza corporea e del coraggio e il suo inciampare nella megalomania e rovina; ed è così che nei suoi drammi della vendetta- Medea, Ecuba, Elettra- la simpatia dello spettatore è prima abbracciata al vendicatore, poi fatta passare alle vittime del vendicatore.
Le Baccanti sono costruite sullo stesso principio: il poeta non ha né sminuito la gioiosa liberazione di vitalità che l’esperienza dionisiaca comporta, né attenuato l’orrore bestiale del menadismo ‘nero’; deliberatamente egli conduce il suo pubblico attraverso tutta la gamma di emozioni, dalla simpatia con il dio perseguitato, attraverso l’agitazione dei miracoli del palazzo e la spaventosa tragicommedia della scena del travestimento, per condividere alla fine la reazione di Cadmo contro la non umana giustizia. E’ un errore chiedersi che cosa egli stia tentandi di ‘provare’: il suo interesse in questo come in tutte le sue tragedie maggiori non è provare qualcosa ma allargare la nostra sensibilità-che è, come ha detto il Dottor Johnson[20], l’interesse proprio del poeta.
La repressione dei riti bacchici a Roma nel 186 a. C.
Secondo Tito Livio la religio seguita da Camillo era santa, mentre sono turpi i Baccanali venuti a Roma dall’Etruria attraverso la mediazione di un Graecus ignobilis (39, 8). “Huius mali labes ex Etruria Romam veluti contagione morbi penetravit.” (39, 9), la vergogna di questo male penetrò a Roma dall’Etruria come per il contagio di un morbo. Nel 186 a. C. il console Postumio fece un’indagine e la schiava Ispala rivelò che si trattava di riunioni notturne promiscue: “nihil ibi facinoris, nihil flagitii praetermissum. Plura virorum inter sese quam feminarum esse stupra. Si qui minus patientes dedecoris sint et pigriores ad facinus pro victimis immolari. Nihil nefas ducere, hanc summam inter eos religionem esse” (39, 13), nessun misfatto, nessuna turpitudine lì erano omessi. I connubi vergognosi tra maschi erano più frequenti che con le donne. Se alcuni erano meno meno disposti a subire il disonore ed erano troppo restii ai misfatti venivano sacrificati come vittime. La perfetta iniziazione era non considerare nulla come illecito.
Postumio riferì in senato, ed esso affidò ai consoli “quaestionem deinde de Bacchanalibus sacrisque nocturnis extra ordinem” (39, 14), l’inchiesta sui Baccanali e i riti notturni con mandato straordinario.
Quindi Postumio convocò l’assemblea popolare e, salito sulla tribuna (rostrum) informò il popolo. Disse che le grida primordiali e gli ululati notturni avevano già fatto avvertire il fenomeno diffuso in tutta Italia[21] ma ancora non ne era conosciuta la turpitudine: “Primum igitur mulierum magna pars est, et is fons mali huiusce fuit; deinde simillimi feminis mares stuprati et constupratores fanatici, vigiliis, vino, strepitibus clamoribusque nocturnis attoniti” (39, 15), dapprima dunque la parte grande la fanno le donne, e tale è la fonte di questo male; poi maschi del tutto simili alla femmine, violentati e violentatori invasati, intontiti dalle veglie, dal vino, dalle urla e dai clamori notturni.
Anche in questo caso fa parte dell’ u{bri" la negazione del principium individuationis: i maschi non si distinguono più dalle femmine.
La setta non ha ancora grandi forze ma le acquisterà “quod in dies plures fiunt”, poiché aumentano di giorno in giorno. I ragazzi vengono iniziati giovanissimi e da tale gioventù non si possono ricavare dei soldati. La forza dell’esercito, la sua disciplina, altro valore che entra nella sfera del fas, spariranno dunque con la santità della pudicitia: “Hi cooperti stupris suis alienisque pro pudicitia coniugum ac liberorum vestrorum ferro decernent?” (39, 15), questi coperti delle vergogne sessuali proprie e altrui, combatteranno per la pudicizia delle mogli e dei figli vostri?
Ecco che le orge bacchiche mettono in crisi alcuni valori forti della repubblica. Il contagio di tali turpitudini è pericoloso: “Nihil enim in speciem fallacius est quam prava religio. Ubi deorum numen praetenditur sceleribus, subit animum timor ne fraudibus humanis vindicandis divini iuris aliquid immixtum violemus (39, 16), niente infatti è più ingannevole per l’immaginario di una religione depravata. Quando la potenza degli dèi diviene pretesto di delitti[22], subentra nell’animo il timore che nel reprimere le colpe umane si violi qualche cosa del diritto divino confuso con esse.
I culti stranieri sono stati tradizionalmente proibiti poiché niente dissolve la vera religio “quam ubi non patrio sed externo ritu sacrificaretur”, tanto quanto laddove si sacrifica non secondo i riti tradizionali ma quelli stranieri.
Si pensi alla posizione dei leghisti padani nei confronti della religione musulmana. Si pensi viceversa al relativismo erodoteo.
Bisogna dunque abbattere le sedi dei Baccanali, disperdere i “nefarios coetus”, le nefaste congreghe. Dopo questa assemblea si diffuse il panico tra i seguaci della nuova religione. Molti tentarono di fuggire, ma furono arrestati dalle guardie poste alle porte, alcuni si uccisero. “Coniurasse supra septem milia virorum ac mulierum dicebantur” (39, 17), si diceva che i congiurati fossero più di sette mila. Si trattava dunque di una vera e propria congiura contro la civiltà.
Quindi i consoli furono incaricati della demolizione dei locali “In reliquum deinde senatus consulto cautum est ne qua Bacchanalia Romae neve in Italia essent ” (39, 18), per il futuro quindi con un decreto del senato si provvide che né a Roma né in Italia ci fossero i Baccanali.
Nella Casina di Plauto si trova un’eco di questa vicenda: quando Mirrina, amica di Cleostrata sbugiarda il vecchio Lisidamo che giurava di essere stato depredato di un mantello dalle Baccanti: “Nugatur sciens. Nam ecastor nunc Bacchae nullae ludunt ” (v. 980), vuole dartela a intendere e lo sa. Infatti i giochi delle Baccanti si sono chiusi.
Bologna 28 novembre 2022 ore 11
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[1] La nascita della tragedia, capitolo 18.
[2] Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Detti e frecce, 5.
[3] B. Snell, Poesia e società, p. 151.
[4] Nietzsche, La nascita della tragedia , capitolo 18
[5]Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, La “Ragione” nella filosofia, 6
[6] La nascita della tragedia , p. 120.
[7] Cfr. Baccanti, vv. 152-167
"O andate Baccanti,
andate Baccanti,
con lo splendore dello Tmolo aurifluente,
cantate Dioniso 155
al suono dei timpani dal cupo tuono,
celebrando con urla di evoè il dio dell'evoè
tra clamori e gridi frigi
quando il sacro flauto melodioso 160
freme sacri ludi, che si accordano
alle erranti al monte, al monte: felice 165
allora, come puledra con la madre
al pascolo, muove il piede rapido, a balzi, la baccante.
[8] Goethe, Faust , Prima parte (del 1808), Studio II, vv. 1835-1837.
[9] Della poesia ingenua e sentimentale, 1808. Ndr.
[10] Il poeta ingenuo è natura, la poesia ingenua è natura (ndr.)
[11] Il poeta sentimentale cerca la natura (ndr).
[12] Cfr. “cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui,nondum umbraticus doctor ingenia deleverat…(Satyricon 2)ndr
[13] T. Mann, La filosofia di Nietzsche (del 1948), in Nobiltà dello Spirito, pp. 814-815.
[14] Cf. Murray, Euripides and His Age, 187.
[15] E. R. Dodds, Euripides Bacchae, Oxford University Press, 1960, pp. xlv-xlvii.
[16] La componente istintiva, prima repressa, poi scatenata verso la distruzione, mai applicata all'incremento della vita, porta Gustav Aschenbach alla morte, preannunciata da una fantasia onirica memore dei riti orgiastici delle Baccanti:" Al ritmo dei timpani si squassava il suo cuore, il cervello vorticava; ira accecamento, stordimento voluttuoso invadevano la sua anima, smaniosa di accordarsi al tripudio del dio. Ed ecco, enorme, ligneo, scoprirsi e innalzarsi l'osceno simbolo; a quella vista tra sfrenati clamori, tutti gridarono la formula rituale e con la schiuma alle labbra si precipitarono in un'orgia pazzesca. Ridenti, singhiozzanti, si eccitavano a vicenda con gesti sconci e carezze lubriche, e si cacciavano l'un l'altro i pungoli nelle carni, leccando il sangue che colava sulle membra". T. Mann, La morte a Venezia (del 1913) p. 139. Ndr.
[17]" La natura è aristocratica, più aristocratica di qualsiasi società feudale basata sulle caste" Schopenhauer, Parerga e paralipomena (del 1851), Tomo I, p. 275.
[18] Non sarà Dioniso a costringere le donne a essere/caste nei confronti di Cipride, ma nel temperamento/(sta sempre l'essere casto in tutte le occasioni sempre)/a questo bisogna pensare: e infatti anche nei baccanali/quella che è casta non si guasterà (Baccanti, 314 318) ndr.
[19] Cf. Murray, Euripide e i suoi tempi,, trad. it. Laterza, Bari, 1932. Dodds indica la p. 187 da noi citata . Ndr
[20] Ben Jonson, 1572ca-1637.
[21] Quelli di piazza Verdi di Bologna sono per ora più contenuti.
[22] Si pensi ai crimini del terrorismo.
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