lunedì 21 novembre 2022

L’apprendistato di giovanni ghiselli. XXI. La passeggiata pensosa di mezzogiorno. Tacito solo e senza compagnia

“Mi piacerebbe incontrare una ragazza che come me aspira all’arte e al bello”, fantasticavo inebriato, mentre tornavo in collegio costeggiando la rete che separava la piscina dal bosco. Vedevo le gambe, i costumi,  i capelli delle ragazze agognandone i corpi come nessun’altra cosa di questo mondo. Negli ultimi tre anni di vita avevo invocato la Morte che annullasse ogni mio grande dolore, ma l’ ambiente nuovo mi spingeva a muovermi con passi lungimiranti verso suo fratello Amore da cui “nasce il piacer maggiore/che per lo mar dell’essere si trova”.
Non mi ero mai svestito dell’ abito letterario. Avevo trascurato solo lo studio senza anima che veniva imposto da molti professori. Al liceo mi ci ero sottoposto pensando che, eliminato il conteggio dei numeri e la memorizzazione di formule astratte, iscrivendomi a Lettere antiche, le  parole piene di idèe e di sentimenti avrebbero tolto di mezzo i tecnicismi fine a se stessi. Invece questi prevalevano anche all’Università.  Credevano di tirar su la verità dal pozzo, servendosi di ajnav e di katav. [1]
“Come se l’Odissea fosse un libro di cucina. Due versi all’ora, che vengono sminuzzati e rimasticati parola per parola, fino alla nausea”[2] .
Euripide aveva autorizzato il mio disgusto confermandomi che il sapere non è sapienza[3] ed ero giunto alla nausea di un nozionismo che non è cultura. Questa  potenzia la natura, rende più viva la vita, non la mortifica.
La sofferenza mi aiutava a capire sempre di più. Il tempo dei miei successi difettava di intelligenza e non dovevo rimpiangerlo.
 
Non osai entrare da solo nella piscina. Avevo bisogno di appoggi. Sicché mi diressi verso il collegio. Ma arrivato nella stanza che dividevo con Danilo, Fulvio e Luigino, non li trovai.
 
Non era ora di desinare, sicché, giunto alla mensa, procedetti dall’altra parte, sempre cercando segni  che mi indicassero la direzione da prendere per attenuare il peso dell’infelicità che mi gravava di nuovo addosso come l’Etna sul maledetto Encelado[4]  o il il mostro ejkatokevfalo", Tifone[5].
 
Anche da quella parte, l’occidentale, avrei vissuto esperienze felici senza le quali la mia vita sarebbe stata diversa e di gran lunga peggiore. Non lo sapevo ma lo auspicavo.
Chiedevo a Dio degli eventi belli che ne avrebbeo causati altri ancora più belli, poi questi altri ancora, fino a formare una serie di fatti sempre più ricchi di conoscenza e di luce, una collana di gioie che avrebbe adornato questa mia vita mortale.
Camminavo in direzione dello stadio dove avrei corso tante volte i 5000 metri perdendo un poco alla volta lo schifoso rivestimento porcino indossato negli anni del dolore cieco. Capivo già che di questo abito orrendo dovevo svestirmi. Sebbene ottenebrato, avevo  visto che con quella carne non mia addosso sarei dispiaciuto alle donne senza il cui aiuto non potevo redimermi.
Centocinquanta metri dopo il collegio, sulla destra, vidi un grande cancello chiuso, ma non a chiave. Su un cartello c’era scritto Botanikus kert.
Incuriosito e incoraggiato dalla desinenza latina, entrai per vedere se potevo trovarci qualche reliquia dell’antica Pannonia. In fondo Aquincum dista poco più di duecento chilometri da Debrecen.
Di fatto era l’orto botanico dagli alberi strani e dai fiori esotici acclimatati come certe finlandesi o svedesi sposate in Italia. Cosa da evitare tutto sommato. Come sposare chicchessia del resto.
I pretendenti alle nozze, i proci sono predestinati male. Non solo quelli di Penelope. Quasi tutti. Vanno a caccia di tristi imenei, poi se ne pentono. Questo ho visto, sempre, nella mia vita mortale.
 
L’effetto dell’alcol stava passando: rivedevo la vita attraverso una  cortina metallica sudicia, nera, bucata tipo la grata dei confessionali:  non mi lasciava vedere con chiarezza l’ordine bello del mondo con la splendida epifania della donna la cui figura talora mi era apparsa mentre danzava fra le trecce verdi della terra e i sorrisi azzurri del cielo. Bella, sensibile all’arte, generosa, colta e sportiva.  La kalokajgaqiva in persona.
Corrispondeva all’immagine ideale di me stesso, al paradigma mitico della mia vita: quello che potevo diventare se non fossi stato avversato dal destino ostile che mi inceppava il cammino.
Forse ce la facevo a restituirmi a me stesso. Era il 16 luglio del 1966:  avevo ventun anni otto mesi e due giorni. Non era troppo tardi.
La lurida grata nascondeva o stravolgeva le immagini belle. Ma non del tutto e per sempre.
 

Bologna 21 novembre 2022 ore 15, 50
giovanni ghiselli

p. s.
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[1] Cfr Nietzsche,   Sull'avvenire delle nostre scuole  , terza conferenza .
[2] H. Hesse, Sotto la ruota, del 1906, p. 90.
[3] To; sofo;n d j ouj sofiva (Baccanti , 395)
[4] Callimaco vorrebbe spogliarsi delle vecchiaia che gli pesa addosso quanto l’isola tricuspide sul maledetto Encelado (Aitia fr. 1, vv. 35-36). Nell’Eracle di Euripide i vecchi coreuti vecchi  compagni d'armi di Anfitrione biasimano la vecchiaia che grava sul  loro capo dei con un carico più pesante delle rupi dell'Etna ("to; de; gh'ra" a[cqo"-baruvteron Ai[tna" skopevlwn-ejpi; krati; kei'tai" ( vv. 638-640).
[5] Eschilo, Prometeo incatenato, 369.

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