domenica 13 novembre 2022

L’apprendistato di giovanni ghiselli. IX parte. Il vagabondaggio al tramonto

Un neologismo bizzarro:  la “pentecontaerotìa”
 
Arrivai a Hajdúszoboszló, “un paese dal nome lungo e difficile”, pensai come lo vidi scritto. Un nome che per tanto tempo non seppi imparare e continuai a indicarlo come “quel paese dal nome lungo alle porte di Debrecen”. Avrei vissuto un amore allegro, spensierato nella grande piscina termale di quel paese nel 1970, poi, nel 2011, ci  sarei tornato in bicicletta con Maddalena Fulvio e Alessandro amici speciali, della mia specie, la specie umana.
Allora dimenticai il costume da bagno in una di quelle cabine. Probabilmente speravo di tornarci. Finita la pioggia verso sera arrivammo a Debrecen. E’ stata l’ultima volta questa del 2011.
Non ci sono più tornato perché avevo visto dei Macdonald al posto dei locali magiari. Mi sono dato alla Grecia.
 
Ma torniamo alla prima volta, quella del 1966. Erano le sette passate. Il sole si era già posato sulla pianura come un uccello stanco del volo. L’aria ferma era inebriata dall’odore di miele dei tigli.  
Grazie a Dio mancavano solo una ventina di chilometri.
 Feci un’ultima corsa e giunsi alla periferia della città quando Elio auriga aveva già scolto i cavalli, ma solo da pochi minuti. Ci si vedeva ancora abbastanza. Entrai nella via principale: una strada larga e battuta dal vento che sollevava la polvere. Vi camminava gente malvestita. Anche gli edifici erano tenuti male. Il luogo mi si addiceva, messo male com’ero anche io.
Eppure c’era qualche cosa di antico nel luogo, quindi di nobile e forse anche in me.
Mi guardai intorno, chiedendomi dove avrei potuto informarmi sull’ubicazione dell’Università. Vidi un locale con una scritta comprensibile: Hungaria. Avrei preferito il nome latino Pannonia, ma entrai lo stesso. Aperta la porta, mi affacciai su una grande sala piena di tavoli, quasi tutti occupati. Rumoreggiava un’orchestra piuttosto chiassosa che musicale. Le pareti erano parzialmente coperte di tende bianche e gialle tra le quali apparivano stucchi pompieristici, carta da parati pretenziosa di raffigurare la puszta, colonne corinzie e pilastri.
Mi avvicinai a un cameriere e gli domandai dove fosse l’Università che credevo parola internazionale. Loro invece dicono egyetem. Io non lo sapevo, sicché non ci capimmo. Quel tipo per giunta era assai affaccendato: nemmeno mi guardava mentre cercavo di farmi comprendere, invano. Quando vide entrare un folto gruppo di anziani allegri e ciarlieri, si allontanò senza avermi risposto. Ci rimasi male assai, mi sentii umiliato dall’inserviente, ma gli andai dietro ripetendo la domanda in inglese e in italiano. L’insolente, seccato, gridò: “Budapest!” accrescendo il mio sconforto. Lo lasciai andare dietro lo sciame fitto di vecchi simili a fuchi privi di pungiglione. Ebbi paura che nell’immensa barbarie di quella landa remota non ci fosse alcuna università. Come a Pesaro. Forse c’era stato un equivoco colossale. Uscii con l’animo a terra. Oltretutto da Oriente arrivava la notte.
Nella via principale si vedevano, confuse tra loro, le ultime luci del giorno che regredivano e le prime artificiali del paese assediato dal buio che avanzava. Camminai nella direzione del cielo ancora rosso. Se avessi seguito la traccia lasciata dal sole, le sue palpitanti vestigia per tre chilometri, sarei arrivato  alla Nyári egyetem, l’Università estiva.
 
“Tu scaldi il mondo, tu sovresso luci:/s’altra ragione in contrario non pronta,/esser dien sempre li tuoi raggi duci”[1].
Questi versi però allora non mi vennero in mente. Poi ho imparato la lezione e ho sempre seguito i segni mandati dal dio Sole nella sua grande sapienza e bontà.
Con il viso volto a terra cercavo una traccia difficile da rintracciare nel suolo- i[cno~ dustevkmarton[2] mentre il cielo mi indicava la via vera. Guardare il cielo è sempre una buona visione, preziosa, funzionale  a correggere le circolazioni cattive del nostro cervello turbato.
In fondo alla strada principale si trova il grande tempio della città, una chiesa calvinista, come seppi più tardi. Era giallo. Mi avrebbero detto che era il simbolo di Debrecen, chiamata “la Roma calvinista”.
“Il cuore della città e, per quanto mi riguardava, del mondo intero, era il tempio grande. Il tempio grande era talmente grande che non riuscivo a misurarlo con il metro della realtà (…) La sua facciata gialla terminava in un triangolo, le torri erano munite di occhi e bocca con i volti umani, non ho più visto in vita mia un edificio che palpitasse di tutta quella vita, sembrava persino che respirasse” avrei letto queste parole cinquanta anni più tardi.[3]
Quella notte vidi solo che la chiesa era gialla e turrita.
Mi fermai un momento.
 Lì sembrava finire, anzi finiva, il centro di Debrecen: al di là del Grande  Tempio si vedeva una via deserta, alberata, buia oramai.
Mi ci incamminai.
Un cane nero si confondeva e mimetizzava con l’oscurità. Non senza abbaiare però. Mi fece paura quando si avvicinò. Come mi vide, fu quella bestia a spaventarsi: tossì e vomitò.
Mi sentivo più o meno come Riccardo III: “so lamely and unfashionable that dogs bark at me, as I halt by them[4]  così claudicante e goffo che i cani mi abbaiano contro quando arranco vicino a loro.
“Cani senza razza”, mi consolai.
Nel crepuscolo della sera la luce era passiva, mentre l’oscurità attiva mi invadeva.
La tenebra mi fissava con mille occhi non buoni, occhi da satanasso. Dovevo inserire i mostri della notte in un progetto di ordine: armonizzare e cosmizzare il caos: lo sentivo dentro di me e temevo quello di fuori.
Tornai nel corso illuminato
Sulla sinistra, rispetto a chi guarda il tempio, c’era un altro edificio grande, e pure animato.
Un palazzo di sei o sette piani, sormontato da lunghi pinnacoli pseudogotici, quasi un castello, vagamente sul tipo di quelli fatti costruire in Baviera da Ludwig II, il lunatico re di Baviera.
Sarei andato in pellegrinaggio fino a quei manieri teatraliquindici anni più tardi con Ifigenia in un estremo e vano tentativo di riconciliazione. Tutto è collegato con tutto, ogni esperienza interferisce con le altre.
Non trovavo l’Università di Debrecen nel 1966: sarei entrato da incaricato nell’alma mater di Bologna solo nel 2000, a 55 anni suonati. Poi avrei avuto incarichi a Bressanone e Urbino, da studioso annoso finalmente apprezzato e approvato. Ma dopo quanto e quale tirocinio! Ho sempre presofferto tutto. Anche pregoduto del resto. Senza essere un profeta però.   
 
Sopra il portone dell’ingresso formicolante, nereggiava un’insegna fatta di pezzi disposti a formare un cerchio. Mi avvicinai. La semicirconferenza superiore era costituita dalle lettere H O T E L, l’inferiore da quelle più piccole e fitte di una parola lunga e illeggibile. Mentre cercavo di chiarirmi la scritta, questa si accese  con un’esplosione di luce. La parola strana era Aranybika,  la figura  interna al cerchio quella di un toro. Significa “toro d’oro” come seppi più avanti.  Mi venne in mente la maxima victima di Virgilio[5]. Era un segno di sacrificio. Dovevo ammazzare la bestia dentro di me, spacciarla, se no, l’animale trionfava sulla mia umanità.
Entrai nell’atrio che brulicava di gente diretta al ristorante con pista da ballo.
Andai dall’altra parte dove c’era il portiere, un uomo d’aspetto civile. Gli domandai se parlasse italiano. Con mia sorpresa rispose di sì. Contento di tale successo, gli chiesi dove fosse l’università. Io era uno studente dell’Università di Bologna e avevo una borsa di studio per quella di Debrecen.
 
Non sapevo ancora, ma lo speravo, che le vere borse di studio sarebbero state le donne che avrei amato in quella università estiva[6].
Mi dissi: devo arrivare almeno a cinquanta: la pentecontaerotìa.
Allora era follia sperare tanto.
 Il portiere mi rispose che di notte il collegio era chiuso: potevo andarci la mattina seguente; lui mi avrebbe indicato la strada. Intanto potevo dormire nell’hotel, per venti dollari.
“Con quell’ ambiguo sorriso da prosseneta, tira a fregare” pensai. “Un collegio universitario dove gli studenti mangiano e dormono, non può essere chiuso alle otto e mezzo. Però non ho scelta: in questo paese da solo, di notte, non me la cavo”.
“Va bene”, dissi, “prendo una camera”.
Gli diedi il passaporto e il denaro. Poi gli chiesi di spiegarmi comunque, subito, dove fosse l’Università. Mi allungò la chiave, e, con riluttanza, disse che dovevo prendere il tram numero uno nella direzione del grande tempio. Cercai la camera per posarvi il bagaglio ma non la trovavo. Mi sentivo incluso in un labirinto di nuovo genere[7].
Dovetti tornare indietro per farmi indicare la stanza una seconda volta, Dopo l’estorsione dei dollari, quel  losco portiere notturno mi era diventato antipatico. Anzi, tutto l’ambiente di quell’hotel pretenzioso e pitocco mi era poco simpatico. Mi sarebbe diventato simpaticissimo dopo le cene di corteggiamento con Helena nel ’71 e Kaisa nel ’72.
Ora è il tempio di  ricordi assai belli. Le persone e anche le cose con il tempo possono capovolgere i loro primi significati.


Bologna 13 novembre 2022 ore 19, 09
giovanni ghiselli

p. s
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[1] Dante, Purgatorio. 13, 19-21
[2] Cfr. Sofocle, Edipo re, 109.
[3] Parole di  Magda Szabó, la scrittrice di Debrecen cui è ora intitolato il caffè dell’Arany bika. Non ricordo però da quale dei suoi romanzi abbia tratto questa citazione.
[4] Shakespeare,  Riccardo III,  I, 1
[5]  Georgiche, II,146-147:"et maxima taurus/victima " .
[6] Cfr. Tess of the D'Ubervilles di T. Hardy, dove Angel Clare si rivolge a Tess dicendole: " darling, the great prize of my life-my Fellowship" (XXXII), cara, il più grande premio della mia vita, la mia borsa di studio.  
[7] Cfr il timore di Encolpio:"quid faciamus homines miserrimi et novi generis labyrintho inclusi, quibus lavari iam coeperant votum esse? " ( Satyricon, 73), cosa possiamo fare uomini disgraziatissimi e rinchiusi in un labirinto di nuovo tipo, per i quali lavarsi già cominciava ad essere un miracolo ?

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