Salii sul tram numero uno, in direzione dell’Università, ma, superato il grande Tempio, le rotaie si allungavano su una strada spaventosamente nera e deserta. Scesi alla prima fermata e tornai indietro di corsa, per quanto me lo consentiva l’obesità.
Durante il viaggio avevo schiacciato qualche bestiola anche sotto le ruote, e mentre correvo su scarpe leggere, temevo il contrappasso: che dei porcospini ruzzolassero sotto i miei piedi e rizzassero i loro aculei dentro il calcagno appoggiato e oppresso dal peso della mia pancia superfetata, facendomi lanciare grida di dolore tanto forti da impietosire le stelle.
Sentivo delle cagne o dei lupi ululare nell’ombra. Altri versi simili a sghignazzate di iene digiune si aggiravano nell’aria con il canto di orrore dei gufi senza accompagnamento della cetra che non suona mai presso chi è vicino a morire . Ne ebbi paura. Mancava solo lo strazio urlato dalle stridule strigi.
Mi vennero in mente dei versi che avevo appreso da una citazione di T. S. Eliot, morto il giorno prima che dessi finalmente l’esame di letteratura inglese: “But keep the wolf far hence, that's foe to men,/For with his nails he' ll dig them up again"[1].
Per fortuna non perdevo sangue altrimenti dei canidi feroci avrebbero potuto seguire la traccia delle gocce sbranandomi come un cucciolo indifeso, un porcellotto desolato e terroizzato dalla macellazione del branco.
Dovevo allontanarmi dai mostri e dai terrori della notte, uscire dal buio, tornare nell’ambito dell’umano.
Finalmente arrivai nella luce del corso. Il suo bagliore non era sinistro.
Non avevo la forza di saltare la cena ma non volevo mangiare all’ Aranybika.
Preferii tornare all’Hungaria dove il cameriere era più rozzo del necessario, e sgarbato, ma non truffaldino e ricattatorio. Così al primo impatto il toro d’oro, mi diede un piccolo dispiacere. Provengo da gente parsimoniosa e lo sono anche io, ma, più che per i venti dollari, ero dispiaciuto per la truffa e il ricatto di quel guardiano ambiguo dal sorriso di prosseneta.
Non ero più del tutto scontento: intanto avevo trovato una camera e un letto dove passare la notte. Giunto sulla strada principale anzi mi consideravo salvo e mi sentivo quasi contento.
Il laccio della mente si stava sciogliendo. Guardavo la scritta luminosa Aranybika: mi aiutava a stenebrare le lunghe ombre dell’inquietudine.
Forse già presagivo il bene che mi avrebbe fatto quel luogo: con il passare del tempo, anni di tempo, e nel lungo progresso della mia persona, proprio lì, nel grande hotel della città universitaria, avrei vissuto diverse ore liete e importanti per la mia crescita, in compagnia di alcune delle donne belle e fini che dovevano stimolarmi a maturare, a diventare una persona non infelice, non brutta, non cattiva.
Adesso il grande albergo di Debrecen è un monumento duraturo più della sua materia, un tempio edificato dentro l’anima mia. Contiene la memoria di alcune tra le ore più intense della mia gioventù, un ricordo che nei momenti difficili in quanto deserti di affetti, mi incoraggia a procedere verso tempi migliori che, come quelli meno buoni del resto, ricorrono sempre. Rebus cunctis inest quidam velut orbis[2].
Bologna 14 novembre 2022 ore 19, 49
giovanni ghiselli
p. s.
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[1] J. Webster, Il diavolo bianco (del 1612), I, 2., ma tenete ma tenete lontano il lupo, che è nemico degli uomini, altrimenti con le sue unghie li dissotterrerà.
Avevo preparato maniacalmente questo esame, data la mia tragica insicurezza. Presi 30 e lode e il giorno dopo salìi a San Luca a piedi. Cosa di cui oggi, ciclista annoso, mi vergognerei. Quella salita piuttosto dura deve essere scalata in bicicletta, nel minor tempo possibile.
[2] E’ l’idea del ciclo che Tacito applica ai costumi
:"Nisi forte rebus cunctis inest
quidam velut orbis, ut quem ad modum temporum vices ita morum vertantur
"(Annales , III, 55), a meno che
per caso in tutte le cose ci sia una specie di ciclo, in modo che, come le stagioni,
così si volgono le vicende alterne dei costumi.
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