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Tucidide, uno dei massimi autori dell'età classica e della cultura europea, nacque ad Atene poco prima della metà del V secolo da una famiglia aristocratica e ricca che gli fece avere un' ottima educazione. Egli stesso ci informa (IV 105, 1) che possedeva diritti di sfruttamento su alcune miniere d'oro in Tracia e che ne ricavava anche grande influenza sulle autorità della regione. Certamente di là traeva origine lo storiografo: il padre, Oloro, infatti era omonimo e parente del re tracio la cui figlia intorno al 515 aveva sposato Milziade, il vincitore di Maratona, generandogli Cimone.
Della grande guerra che narrò, lo storiografo fu non solo acuto osservatore e attento raccoglitore di documenti, ma anche protagonista sfortunato, come stratego, nel 424, quando subì l'insuccesso di Anfiboli e non riuscì a impedirne la conquista da parte dello spartano Brasida.
L'autore ci racconta ( V, 26) che in seguito alla strategia di Anfipoli gli toccarono venti anni di esilio i quali però non andarono perduti, anzi, simili a una "provvida sventura", gli procurarono una tranquillità utile al reperimento dei documenti funzionali alla composizione dell'opera.
Tucidide afferma di essersi trovato da entrambe le parti, e non meno presso quella dei Peloponnesiaci a causa dell’esilio (par j ajmfotevroi~, kai; oujc h|sson toi'~ Peloponnhsivwn dia; th;n fughvn, V, 26, 5) e di aver potuto conoscere i fatti kaq j hJsucivan, con tranquillità.
Questo capitolo del resto , il cosiddetto "secondo proemio" viene giudicato di "discussa autenticità e di controversa interpretazione" da Canfora[1] il quale sostiene che Tucidide continuò "a seguire le vicende della guerra stando in Atene o comunque nel campo ateniese" deducendolo "dalla natura del suo racconto della partenza dell'armata ateniese alla volta della Sicilia, nel 415 a. C., o dall'affresco penetrante della psicologia di massa in Atene di fronte al colpo di Stato oligarchico del 411, ma anche da una esplicita testimonianza di Aristotele (Fr. 137 Rose), secondo cui Tucidide assistette, in Atene, al processo contro Antifonte, celebratosi pochi mesi dopo la caduta dell'oligarchia del 411".
La tradizione biografica antica comunque fa dimorare Tucidide per lungo tempo in Tracia, a Skaptesyle (o Skapth; u[lh, foresta delle miniere), ossia nella regione dove la sua famiglia aveva l'appalto delle miniere d'oro del Pangeo, conquistate da Cimone.
Plutarco nello scritto Peri; fugh'" ( 605C) considera questo esilio (come quello di Senofonte e alcuni altri) alleato delle Muse poiché contribuì alla composizione di opere belle e famose, e nella Vita di Cimone (4, 3) racconta che Tucidide morì assassinato a Skaptè yle: “"kai; teleuth'sai me;n ejn th'/ Skapth'/ u{lh/ (tou'to d j e[sti th'" Qrav/kh" cwrivon) levgetai foneuqei;" ejkei'"; i suoi resti però, aggiunge, furono traslati in Attica e la sua sepoltura è visibile tra quelli della famiglia di Cimone.
Secondo altri[2] invece lo storiografo sarebbe morto ad Atene di morte violenta. Comunque egli non sopravvisse a lungo alla tirannide dei Trenta della quale non si trovano tracce nella sua opera. Non è impossibile che sia finito assassinato da quel regime che tendeva a colpire i personaggi facoltosi e moderati.
Le sue Storie dunque raccontano parte della guerra del Peloponneso che insanguinò la Grecia dal 431 al 404.
La composizione dell'opera, al pari delle campagne militari, segue il ritmo annuale delle stagioni, ma ci è giunta divisa, dagli alessandrini, in otto libri, l'ultimo dei quali è incompleto e si arresta all'inizio dell'autunno del 411, poco prima che si compia il ventunesimo anno di guerra. Il resto del conflitto è narrato dalle Elleniche di Senofonte, probabilmente su carte tucididee.
Caratteri dell'opera.
Il primo libro inizia con un proemio nel quale l'autore si presenta e dichiara che si accinge a narrare la guerra più grande che abbia mai sconvolto la Grecia (I, 1). Segue una sezione (2-19) comunemente chiamata Archeologia, uno schizzo della storia della Grecia antica, che si conclude con quattro capitoli detti metodologici (20-23). Tutta questa parte (1-23) che forma nell'insieme un preludio, contiene i motivi principali dell'opera, e narra gli antefatti remoti e recenti, esponendo i criteri seguiti nella scelta degli avvenimenti raccontati, nell'indagine delle cause, e infine ribadisce che la guerra del Peloponneso fu la più importante di tutte le precedenti per la potenza economica e per le forze militari impiegate dai contendenti.
Vediamo subito dunque due tendenze tucididee le quali , anche per impulso dello storiografo ateniese apparterranno ad alcuni suoi successori: la scelta di fatti recenti come più degni di racconto, e l'analisi di una grande guerra "come evento epocale... Dopo Tucidide non ci fu più alcun dubbio che le guerre rappresentassero il più evidente fattore di mutamento"- afferma Arnaldo Somigliano-Nell’ottica degli storici greci, subito dopo le guerre venivano le rivoluzioni; per questo aspetto il modello era costituito dall’ottavo libro di Tucidide. Guerre e rivoluzioni difficilmente avrebbero potuto essere separate dagli storici del quarto e del terzo secolo a. C.”[3].
“Nel delimitare una guerra come evento epocale, Erodoto aveva naturalmente un predecessore illustre, Omero. Ma fu di Erodoto la decisione di trasferire la guerra dall’epica alla storia. Tucidide potè obiettare a molte idee di Erodoto, ma non a questa decisione. Anch’egli scelse una guerra-una guerra recente-come evento epocale”[4].
Tacito non condivide l’idea che gli eventi più grandi siano i più recenti
Tacito negli Annales ( IV, 32) antepone la storia e la storiografia antica, quella della repubblica, ricca di grandi personaggi e grandi avvenimenti, alla recente, di minor levatura:" Pleraque eorum quae rettuli quaeque referam parva forsitan et levia memoratu videri non nescius sum ", mi rendo conto che gran parte degli avvenimenti che ho riferito e riferirò appaiono forse piccoli e indegni di ricordo; mentre chi espose il passato narrò: “ingentia bella...expugnationes urbium, fusos captosque reges”, grandi guerre, città espugnate, re sbaragliati e fatti prigionieri, per quanto riguarda la politica estera; e nell'interna: “discordias consulum adversum tribunos, agrarias frumentariasque leges, plebis et optimatium certamina libero egressu memorabant”, raccontavano conflitti tra consoli e tribuni, leggi agrarie e frumentarie, lotte tra plebei e patrizi, spaziando liberamente. Quindi la fatica dei contemporanei si occupa di un campo ristretto ed è senza gloria: “nobis in arto et inglorius labor”.
Il criterio secondo il quale Tucidide decide di raccontare la guerra del Peloponneso privilegia la vicinanza nel tempo poiché l'esperienza diretta era secondo l’autore il primo requisito di una storiografia seria.
Sull’ argomento sentiamo Gaetano De Sanctis: “Queste vicende presenti avevano in confronto con le più antiche anche un altro vantaggio: che a molti fatti decisivi l’autore stesso poteva assistere, che su tutti era in grado di procurarsi relazioni da chi aveva assistito e confrontarle e compierle tra loro. E dall’uno e dall’altro ordine di osservazioni scendeva per lui la opportunità e quasi la necessità che la storia fosse appunto storia del presente e dall’ultimo anche la condanna di ogni storia del passato, perché il presente, oltre a superare il passato nell’importanza degli eventi, era, solo, veramente conoscibile come materia della diretta esperienza, mentre il passato era a rigore inconoscibile, non potendo alla mancanza dell’esperienza diretta supplire le tradizioni malsicure, contraddittorie, incompiute e però non suscettibili d’analisi rigorosa. Sicché non si era in grado se non di tracciare congetturalmente le linee generali del suo sviluppo argomentando sulla base d’indizî (tekmhvria)”[5].
Proemio
Vi si legge il nome dell'autore, della sua città, e l'argomento dell'opera, la grande guerra del Peloponneso, scelta per l'importanza capitale che ebbe, considerando la potenza dei contendenti principali e la sua estensione alla maggior parte degli uomini. Gli avvenimenti precedenti non è possibile conoscerli con esattezza, ma, facendo una proiezione all'indietro, si può congetturare che non furono tanto grandi né per la guerra né per il resto.
Traduzione letterale del testo greco
1”Tucidide Ateniese descrisse la guerra tra i Peloponnesiaci e gli Ateniesi, come combatterono tra loro, cominciando subito al suo scoppiare e aspettandosi che sarebbe stata grande e la più degna di racconto tra quelle accadute prima.
2Questo sconvolgimento infatti fu il più grande per i Greci e per una parte dei barbari, e, per così dire, anche per la maggior parte degli uomini.
3Infatti gli avvenimenti precedenti e quelli ancora più antichi, era impossibile trovarli con certezza per la mole del tempo, ma dagli indizi che, esaminando il più lontano possibile, mi accade di considerare credibili, non penso che siano stati grandi, né per le guerre, né per il resto.
Bologna 3 novembre 2022 ore 18, 42 giovanni ghiselli
p. s
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Dovrò presentare Tucidide sabato 3 dicembre a Cento
Se vi interessa metterò altri scampoli del materiale molto abbondante che ho
Adesso però vado a correre o pedalare. Decido dopo avere fiutato l’aria
Saluti
gianni
[1]Storia Della Letteratura Greca , p. 259.
[2]"così Didimo", Canfora, op. e p. citata nella nota precedente
[3] A. Momigliano, Tradition and the Classical Historian , trad. di M. De Nonno in La storiografia greca a cura di D. Musti p. 56.
[4] A. Momigliano, La storiografia greca, p. 47.
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