La tragedia dell'isola di Melo.
Prima parte
Nel V libro Tucidide racconta che gli Ateniesi presentarono agli abitanti di Melo, una piccola isola delle Sporadi, rimasta neutrale, la richiesta imperiosa di sottomettersi alla loro potenza.
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Siamo nell'estate del 416, quando i dominatori del mare fecero una spedizione contro l'isoletta con circa trentotto navi e tremila opliti. I Meli erano legati ai Lacedemoni, (Lakedaimonivwn (...) a[poikoi, V, 84, 2) parlavano lo stesso dialetto dorico, avevano un regime oligarchico, e non volevano sottomettersi all'impero marittimo come gli altri isolani:"tw'n d j jAqhnaivwn oujk h[qelon uJpakouvein w{sper oiJ a[lloi nhsiw'tai".
In un primo tempo erano rimasti tranquilli senza schierarsi, ma poi, siccome gli Ateniesi li costringevano ( e[peita wJ" aujtou;" hjnavgkazon oiJ jAqhnai'oi) devastando il loro territorio, scesero in guerra. Prima di aprire le ostilità però gli strateghi Cleomede e Tisia mandarono ambasciatori per trattare.
Stratego quell'anno era anche Alcibiade che nel frattempo operava ad Argo, sempre in favore della ripresa della guerra.
I Meli non introdussero gli ambasciatori ateniesi in presenza dell'assemblea, ma li fecero parlare davanti ai magistrati e ai maggiorenti ( "ejn de; tai'" ajrcai'" kai; toi'" ojlivgoi"", V, 84, 3), secondo l'uso oligarchico della non trasparenza garantita da quell'opacità nebbiosa interposta tra il palazzo e la piazza di cui parla Guicciardini.
Gli ambasciatori Ateniesi dunque proposero che si parlasse non con un discorso continuato (" eJni; lovgw/", V, 85) ma che si potesse intervenire e interrompere davanti ad affermazioni non adeguate. Come nella tragedia il coro fa risaltare il significato dell'azione, così nella storia di Tucidide i discorsi, e soprattutto questo drammatizzato, servono a chiarificare la prassi traducendola in espressione verbale dell'intelligenza.
I consiglieri (xuvnedroi) dei Meli risposero che le proposte di pace erano in contrasto con i preparativi di guerra già effettuati dagli Ateniesi ("ta; de; tou' polevmou parovnta h[dh", V, 86) e che, quindi, l'esito della discussione probabilmente era scontato.
Seguono ventisei interventi ( da V, 85-a V, 111) senza didascalie, come se si trattasse di una composizione drammatica in prosa.
Gli Ateniesi dunque affermano che la discussione deve riguardare la salvezza della città ("peri; swthriva"", V, 87). A questa condizione, dicono allora i Meli:"oJ lovgo" w/| prokalei'sqe trovpw/, eij dokei', gignevsqw"(V, 88) il dibattito si svolga, se vi pare, nel modo che proponete voi.
Gli Ateniesi quindi affermano il principio che il giusto nel linguaggio umano si giudica partendo da una pari necessità ("divkaia me;n ejn tw'/ ajnqrwpeivw/ lovgw/ ajpo; th'" i[sh" ajnavgkh" krivnetai"), altrimenti i più forti fanno quanto possono e i deboli cedono ("oiJ ajsqenei'" xugcwrou'sin", V, 89).
Nietzsche ribadisce questo concetto con altre parole:"Laddove domina il diritto, è mantenuto in piedi un certo stato e grado di potenza, e sono impediti una diminuzione e un accrescimento. Il diritto di altri è la concessione che il nostro sentimento di potenza fa al sentimento di potenza di questi altri. Se il nostro potere si mostra profondamente scosso e infranto, cessano i nostri diritti: al contrario, se noi siamo divenuti molto più potenti, cessano i diritti degli altri nei nostri riguardi, come glieli avevamo riconosciuti fino a questo momento".[1]
Cassio Dione racconta che dopo la morte di Claudio (54 d. C.), i Romani capirono a chi dovevano obbedire: “pa'~ ga;r oJ dunavmei prou[cwn dikaiovtera ajei; kai; levgein kai; pravttein dokei' ” (61, 1, 2), infatti chiunque è superiore nella forza sembra sempre dire e fare le cose più giuste.
Cfr. Leopardi, Zibaldone, 1641: “Ma la morale non è altro che convenienza”.
I Meli dunque rispondono: voi Ateniesi, al di là del giusto ("para; to; divkaion", V, 90) avete posto il conveniente (to; xumfevron) alla base del discorso; ebbene noi pensiamo che distruggere il bene comune (to; koino;n ajgaqovn) non sia neppure utile (crhvsimon).
La distruzione di Melo infatti potrebbe diventare un esempio (paravdeigma) per i nemici di Atene se questa venisse sconfitta.
E' la linea di Esiodo ("oi| g j aujtw'/ kaka; teuvcei ajnh;r a[llw/ kaka; teuvcwn", Opere , 265, l'uomo che prepara i mali per un altro li prepara a se stesso), di Solone, di Erodoto, dei tragici, di Platone. La conclusione della guerra del Peloponneso con la sconfitta di Atene farà temere agli Ateniesi il contrappasso del massacro inflitto ai Meli.
Gli Ateniesi ribattono che i pericoli per i vinti vengono dai sudditi (oiJ uJphvkooi V 91, 1) ribelli. Noi comunque siamo qui, affermano in conclusione di un turno oratorio, non solo per l'utilità del nostro impero ( ejp j wjfeliva/...th'" hJmetevra" ajrch'") ma anche per la salvezza della vostra città ( jepi; swthriva/...th'" uJmetevra" povlew") poiché vogliamo comandarvi senza fatica e che vi salviate in maniera utile per entrambi:"boulovmenoi ajpovnw" me;n uJmw'n a[rxai, crhsivmw" d j uJma'" ajmfotevroi" swqh'nai" (V 91, 2).
I Meli allora chiedono dove sta l'utile ("crhvsimon", V, 92) della schiavitù per loro e del dominare per gli Ateniesi, i quali rispondono: noi ci guadagneremmo (hJmei'"...kerdaivnomen a[n, V, 93) a non distruggervi e voi a sottomettervi invece di subire le estreme conseguenze (pro; tou' ta; deinovtata paqei'n).
I Meli quindi domandano ai padroni del mare se potevano accettare la loro amichevole neutralità, ma gli irriducibili antagonisti rispondono “no”, poiché l'amicizia dei Meli significherebbe un esempio manifesto di debolezza per i loro sudditi, mentre l'odio uno di potenza:"hJ filiva me;n ajsqeneiva", to; de; mi'so" dunavmew~ paravdeigma toi'" ajrcomevnoi" dhlouvmenon"(V, 95).
La politica era già allora un grande spettacolo e una rappresentazione dove ciascuno deve recitare una parte, e nessuno dei civilissimi Ateniesi ha la levatura morale dell'Anfiarao di Eschilo: un eroe che all'apparenza e alla scena da teatro anteponeva la sostanza. Un politico di tale tempra era Aristide, secondo Plutarco il quale racconta che al sentire i versi della tragedia di Eschilo relativi alla virtù dell'indovino argivo Anfiarao, tutto l'uditorio si voltò a guardare l'uomo politico seduto nel teatro (Vita di Aristide , 3).
Ecco i versi di Eschilo che indussero il pubblico a volgersi verso ArISTIDE
Il suo scudo è privo di insegne sh'ma d’ oujk ejph'n kuvklw/ (591). Infatti non vuole apparire ottimo ma esserlo ( ouj ga;r dokei'n a[ristoς ajll j ei\nai qevlei, 592). Egli raccoglie frutti dal solco profondo della mente da dove germogliano saggi consigli (Eschilo, I Sette a tebe, 591-592)
Ad altre obiezioni dei Meli, gli Ateniesi replicano che la sicurezza ("to; ajsfale;" ", V, 97) di Atene riceverebbe incremento dalla sottomissione della piccola isola. Gli isolani cercano ancora di spiegare che quanto è utile (crhvsimon, V, 98) per loro, lo è anche per gli Ateniesi i quali attaccandoli si renderebbero nemiche altre città neutrali.
La violenza insomma non può mai essere utile. Cicerone nel De officiis (III, 78) scriverà, come morale della favola di Gige:"quod honestum non est, id utile ut sit effici non potest, adversante et repugnante natura ", ciò che non è onesto, non può essere reso utile, poiché la natura si oppone ed è contraria.
Ma gli Ateniesi ribattono che loro considerano più pericolosi gli isolani non soggetti in qualche modo all’impero (tou;" nhsiwvta" tev pou ajnavrktou", V, 99) e i sottoposti esasperati dalla costrizione imposta dall’egemonia di Atene.
Infatti costoro affidandosi all'irrazionale ("tw/' ajlogivstw/ ejpitrevyante"", V, 99) potrebbero esporsi ad un pericolo manifesto facendolo correre anche alla potenza egemone.
L'imperialismo si presenta con una veste di razionalità che tuttavia non riesce a nascondere l’ingiustizia e il sadismo.
A tale sbandierata intelligenza utilitaristica i Meli rispondono con il linguaggio, forse irrazionale, ma nobile, dell'eroismo: per noi che siamo ancora liberi sarebbe una grande miseria e viltà ("pollh; kakovth" kai; deiliva", V, 100) non tentare di tutto prima di accettare la schiavitù.
Potremmo commentare questo limite della ragione denunciato dagli Ateniesi con alcune parole dell'Ortis di Foscolo:"Cos'è l'uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice? scellerato e scellerato bassamente"[2].
Ma gli Ateniesi non subiscono il fascino dell'irrazionale e replicano ribadendo la necessità, se si vuole la salvezza, di non opporsi a chi è molto più forte ("pro;" tou;" kreivssona" pollw'/ mh; ajnqivstasqai", V, 101).
I Meli rispondono con un "non cederemo" degno di Achille: infatti il cedere subito toglie ogni speranza ("to; me;n ei\xai eujqu;" ajnevlpiston", V, 102), mentre con l'agire rimane qualche possibilità di restare in piedi.
La speranza però, obiettano gli Ateniesi, è per natura prodiga (davpano" fuvsei, V, 103, 1) e può trarre in inganno. Insomma può costare assai cara. A molti abitanti di Melo costò la morte o la schiavitù.
Assistiamo dunque allo scontro di due logiche contrapposte.
Mazzarino riconosce alla cultura dei Greci una maggiore disponibilità a considerare e accettare punti di vista diversi tra loro :"La nostra logica è rettilinea, astratta: quella dei Greci è sempre aperta al contrasto. Nell'Oresteia di Eschilo Divka Divkai (xymbaleî ) "Dika si scontrerà con Dika"[3]: ci possono essere due Dikai, due Giustizie nel caso dell'Oresteia , quella "matriarcale" di Clitennestra ( e delle Erinni, a cui il ghénos di Eschilo non può sacrificare) contro quella "patrilinea" di Oreste (e di Apollo, il dio degli Alcmeonidi legati al ghénos Eupatrida di Eschilo). Così in Erodoto: c'è la "tirannide" dei Greci nemica di Dike; ma c'è anche la "tirannide" di Deioce[4] per cui i Medi hanno kòsmos ed eunomìa , e la "tirannide" di Ciro, dalla quale i Persiani ricevono "libertà", eleutherìa "[5].
Questa logica aperta al contrasto divenne metodica con i Dissòi lògoi [6] impiegato pure nelle Antilogie perdute di Protagora[7] il quale "fu il primo a sostenere che intorno ad ogni argomento ci sono due asserzioni contrapposte tra loro" come ricorda Diogene Laerzio (9, 51).
Le lezioni dei sofisti “erano particolarmente adatte a esercitare la riflessione, la capacità di osservazione e l’attitudine all’analisi, ossia a sviluppare quella libera vivacità di spirito che è ancora oggi il fine dell’istruzione. I sofisti insegnavano a parlare pro e contro ogni causa, mostrando che solo la chiara intelligenza delle ragioni favorevoli e contrarie assicurava la massima libertà di decisione contro le pretese di un sentimento immediato e inconsapevole. E’ quel che distingue anche oggi la persona colta da quella incolta, la capacità di non rimanere in balìa delle impressioni e di momentanei impulsi arbitrari, bensì di acquistare padronanza di sé e dei propri affari grazie a un’intelligenza lucida e a un esame spregiudicato delle cose”[8].
continua
Bologna 10 novembre 2022- ore 19, 51
giovanni ghiselli
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[1]Aurora , libro secondo, 112
[2] 28 ottobre 1797.
[3]Coefore 461:" [Arh" [Arei xumbalei', Divkai Divka/".
[4] Il quale ridusse a unità il popolo dei Medi e lo governò. (Erodoto, Storie, I, 101). Venne scelto come re dotato di potere assoluto poiché era stato capace di porre termine alle ruberie e ai disordini con i suoi giudizi (Erodoto, I, 96 ss.) (ndr)
[5]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico , I, p. 175.
[6] " Un testo che può definirsi la formulazione "relativistica" del pensiero dei sofisti…Gli "agoni di discorsi" tucididei echeggiano questa problematica, pur a mezzo secolo di distanza dai Dissoì lògoi… uno scritto sofistico redatto verso il 450 o al più tardi 440" (S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 1 pp. 258 ss.
[7] Nato nella ionica Abdera intorno al 485 a. C., all'incirca coetaneo di Euripide dunque.
[8] J. G. Droysen, Aristofane, p. 194.
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