martedì 22 novembre 2022

Chi sono Optimates secondo Cicerone.


  

L’orazione Pro Sestio (56 a. C.) è una peroratio in difesa del tribuno del 57  Publio Sestio accusato de vi da M. Tullio Albinovano e T. Claudio quale subscriptor, secondo accusatore.

 Sestio opponeva le sue bande armate a quelle di Clodio il quale voleva impedire il ritorno in patria di Cicerone.

Ebbene questa orazione contiene una famosa definizione degli Optimates i quali secondo Cicerone sono tutti i cittadini benestanti e ben viventi, ossia non malviventi: “Omnes optimates sunt qui neque nocentes sunt, nec natura improbi nec furiosi, nec malis domesticis impediti. Est igitur ut ii sint, quam tu nationem  appellasti, qui et integri sunt et sani et bene de rebus domesticis costituti (97), sono ottimati tutti coloro che non sono malfattori né malvagi di natura, né furenti. Ne deriva quindi che quelli che tu hai chiamato casta sono gli irreprensibili, assennati e benestanti.

 

I governanti devono assicurare otium cun dignitate, tranquillità con prestigio  omnibus sanis set bonis et beatis a tutti i cittadini assennati, onesti e agiati (98)

In questa orazione  post reditum (57)  Cicerone fa entrare tra gli Optimates  tutti i benestanti: non solo i membri dell’ordine senatorio ed equestre, ma giù giù fino liberti. E’ una sorta di “compromesso storico” nato per contrastare Catilina e vincere le elezioni del 63. E’ l’alleanza di tutti i proprietari contro il vulgus, strumento cieco dei demagoghi eversori come Catilina e Clodio. Un programma da partito conservatore.

 

 Gadda in una delle Novelle del ducato in fiamme  (1953) mette in rilievo l’appartenenza di Cicerone al partito dei proprietari: “Così d’attorno al De Officiis (44) ferveva, in que’ mesi, e trepestava tutto il formicolante quartiere dell’anima. Ma la vita ribolle ancora , inesausta, dentro le pentole dell’indescrivibile arsenale. Così tra le dialettizzazioni storicizzanti circa il cathècon tèleion e il cathècon mèson- kaqh`kon tevleion, mevson- cioè circa l’officio pefetto e l’officio medio (è il tradurre di un cruschevole), fra Poseidonio (Posidonio 135-50) e Panezio (185-109), fra Peripatetici ed Accademici, e nel bel mezzo dell’onesto e dell’utile, della Giustizia e della Temperanza, della Prudenza e della Fortezza, salta fuori tutt’a un tratto, una rabbia pazza, da padron di casa con la museruola, contro i decreti legge del 707(decreti di Cesare del 47) che rimettevano agli inquilini …non i loro peccati , ma i fitti arretrati. Con repentini morsi di vipera il risentimento del moralista-padron di casa azzanna da morto colui “qui omnia jura divina et humana pervertit” (De officiis, I, 8, 26, sconvolse tutte le leggi divine e umane).

La stizza di aver dovuto condonare quei fitti mescolata con quella del prestito forzoso imposto dal dittatore a tutta la gente per bene, gli fa esclamare che quegli non fu un uomo , ma un mostro, un sadico folle, assetato di volontà malvagia: “tanta in eo peccandi libido fuit, ut hoc ipsum eum delectaret peccare, etiamsi causa non esset” (De officiis, II, 84)[1] in costui c’era tanta brama di fare il male che gli dava piacere questo stesso fare il male , anche se non ce n’era motivo.

Viene in mente l’Eteocle delle Fenicie di Euripide citato poco sopra (III. 82) e assimilato a Cesare come ho già detto.

 

Dagli Optimates sono esclusi i bottegai e gli operai: la piccola borghesia e il proletariato

Cicerone mette gli opifices nel catalogo di quanti traggono guadagno da mestieri illiberali e degradanti. Tali sordidi quaestus sono quelli di esattori, usurai, salariati, piccoli bottegai  (qui mercantur a mercatoribus quod statim vendant) i quali per vendere devono mentire, e in generale di tutti gli operai che esercitano una professione degradante, infatti il lavoro manuale non può avere carattere di nobiltà: “opificesque omnes in sordida arte versantur; nec enim quicquam ingenuum habere potest officina” (De officiis, I, 150).

L’Arpinate ricava questo pregiudizio antipopolare dal proprio snobismo,  di homo novus disprezzato dalla nobiltà antica che lo considerava  inquilinus civis urbis Romae[2], cittadino occasionale, locatario, della città di Roma, come poteva essere un meteco per gli Ateniesi.

 Forse Cicerone  ricorda quanto dice il personaggio  Diotima, la professoressa dell’amore, del Simposio  platonico:"kai;  oJ me;n peri; ta; toiau'ta sofo;" daimovnio" ajnhvr, oJ dev, a[llo ti sofo;" w[n, h] peri; tevcna" h] ceirourgiva" tinav", bavnauso"" (203a), chi è sapiente in tali rapporti[3] è un uomo demonico, quello invece che si intende di qualcos'altro, o di tecniche o di certi mestieri, è un facchino[4].

Nella Politica di Aristotele oJ bavnausoς dh`moς è il popolo che svolge un lavoro manuale diverso dal coltivare la terra (1289b 33).

 

Gadda dunque  non ha simpatia per Cicerone come tanti altri

Sentiamo Montaigne (1533-1592)  che dopo avere indicato tra i suoi maestri Seneca e Plusarco, scrive: “Quanto a Cicerone, le opere sue che possono servire al mio scopo sono quelle che trattano della filosofia, particolarmene morale. Ma per confessare arditamente la verità (…) il suo modo di scrivere mi sembra noioso, come ogni altro simile. Di fatto le sue prefazioni, definizioni, divisioni, etimologie occupano la maggior parte della sua opera: quello che c’è di vivo e di midollo è soffocato dalle sue lungaggini preliminari. Se ho impiegato un’ora a leggerlo, che è molto per me, e rivado con la memoria a quello che ne ho tratto di succo e di sostanza, il più delle volte non vi trovo che vento (…) io voglio ragionamenti che assalgano direttamente il nocciolo del dubbio: i suoi menano il can per l’aia. Sono buoni per la scuola, per il foro, per la predica, dove abbiamo agio di sonnecchiare e, un quarto d’ora dopo, siamo ancora in tempo per ritrovare il filo del discorso” (libro II, capitolo X).

 

Infine rivediamo Huysmans che ricorda  gli autori di Des Esseintes e i suoi gusti letterari: “Nella prosa, la verbosità, le ridondanti metafore, le gratuite digressioni del Cece, non lo allettavano di più (delle grazie elefantesche di Orazio o dell’esosa pedanteria di Virgilio di cui sopra).

La iattanza delle sue apostrofi, l’alluvione dei luoghi comuni patriottici, l’enfasi delle sue concioni, la greve compattezza del suo stile carnoso, ben nutrito ma degenerato in grasso, privo d’ossa e di midolla; le intollerabili scorie degli avverbi sesquipedali coi quali apre le frasi, l’inalterabile schema con cui sono calcati i suoi adiposi periodi, mal cuciti insieme dal filo delle congiunzioni; infine il tedioso vizio della tautologia, lo seducevano mediocremente” ( Controcorrente- del 1884- capitolo III)

Giudizi severi, anche troppo.

Bologna 22 novembre 2022 ore 11, 27

giovanni ghiselli

p. s.

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Consiglio di leggere Gli affari del signor Giulio Cesare di Bertolt Brecht

 

 



[1] Da S. Giorgio in casa Brocchi, in Le novelle del ducato in fiamme

 

[2] Sallustio, Cat., 31, 7

[3] Quelli tra gli uomini e gli dèi.

[4] Avvicino, forse arbitrariamente, quanto scrive Hegel nella Fenomenologia dello spirito: “il signore si rapporta alla cosa in guisa mediata, attraverso il servo”; il servo invece “col suo lavoro non fa che trasformarla” Fenomenologia dello spirito (del  1807) . Capitolo 4 (A)

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