sabato 12 novembre 2022

L’apprendistato di giovanni ghiselli. VIII parte. La puszta

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Lanciai la povera, stanca Seicento verso la puszta: il deserto degli Ungheresi, coltivato del resto a girasoli, verdure, grano e foraggio.

Il grano era stato già mietuto. Pensai alla morte di Adone il giovane amato da Venere, ucciso dal cinghiale, e alla rinascita di ogni vita, comprese quella del grano, e la mia[1].
 
I girasoli avevano le teste chinate a terra. Mi sembravano fanciulle timide. Mai quanto me, pensavo quel giorno. Più che timido allora ero goffo, insicuro, incapace di piacere a una donna, a chicchessia.
Ero imbruttito parecchio dagli anni buoni del liceo. Dopo l’ebbrezza dei successi, tre anni oscurati dalle lacrime.  Ero appassito anzi tempo. Ero un fiore di ieri, di ieri l’altro, un’erba falciata e già scolorita. Ero un giovane ferito, anche se non a morte come Adone, come il fiore del margine del prato , praetereunte postquam cactus aratro est,  Inoltre mi vestivo male e mi lavavo poco, e non per imitare Socrate del quale all’epoca non sapevo che non curava l’igiene poiché non avevo ancora letto Aristofane[2]. Ero sudicio di mio.
 
A metà strada fra Budapest e Debrecen, cominciò a piovere.
Avevo sonno e avevo paura di perdermi nella puszta, o quanto meno di non arrivare in tempo per inserirmi tra gli altri.
Pioveva sui girasoli reclinati, sulle oche bianche, sui maiali neri che animavano quella grande pianura semideserta.
Ero sbigottito, trasecolato e trasognato.
Per vincere almeno il sonno, mi fermai in una bettola di un paesino, Abony. Volevo  bere un caffè e domandare se procedevo sulla via giusta   Non ne ero sicuro. Tanto meno prevedevo che in quel locale avrei fatto una sosta trionfale, più volte tornando da Debrecen, e ogni volta con una donna diversa, ma sempre bella, fine e innamorata di me. Anche all’incontrario quando andai a Debrecen con Ifigenia.
 La sosta sarebbe diventato un rito celebrativo di trionfi erotici.
Sperarlo quella prima volta sarebbe stata follia.
 
Piuttosto pensavo  che potevo morire. Ebbi un fremito di raccapriccio. Poi però mi feci coraggio ricordando e citando a me stesso, anche con un po’ di ironia, una battuta della Cleopatra di Shakespeare: “the stroke of death is as a lover's pinch [3], il tocco della morte è come il pizzicotto di un amante. Se morivo dunque il pizzicotto  di un’amante spettava pure a me. Non potei non ricordare: "Bellissima fanciulla, dolce a veder" con quel che poscia è scritto.
 
Quel pomeriggio del ‘66, passate da un pezzo le cinque, avevo soprattutto il terrore di essere tagliato fuori dall’amore e dalla felicità. Troppo grasso, sfiduciato e malvestito. E  con occhiali grossi e spessi. E con diversi denti cariati. Probabilmente mi puzzava anche il fiato. E pioveva. E non era presto. Né mi sbrigavo.
Ma le mie riflessioni dolorose avevano bisogno di indugi . Volevo osservare quell’ambiente.
 In fondo al locale affumicato c’era un pianista terribile e miserando. Suonava Mezzanotte a Mosca in maniera atroce. “Potrei fare una fine del genere”, pensai. “Girare per taverne, soffrire le cimici, recitare Leopardi: “O natura, natura, perché non rendi poi…” Oppure: “non compagni, non voli, non ti cal d’allegria, schivi gli spassi…oh giorni orrendi in così verde etade!” E via lamentandomi con parole non mie. Mi sentivo come un verme calpestato che si torce nella polvere. Oppure mi davo importanza e mi facevo coraggio ricordando alcune parole dell’ Edipo di Sofocle: tajma; ga;r kaka; - oujdei;~ oi|ov~ te plh;n ejmou` fevrein brotw`n[4], i miei mali/nessuno dei mortali è capace di sopportarli tranne me" .
Mi aiutai anche con il ricordo di alcuni versi di Eschilo: "a volte il terrore (to; deinovn) è un buon ispettore  anche delle anime e deve restarci a fare la guardia: giova giungere alla saggezza sotto l’angoscia - xumfevrei - swfronei`n uJpo; stevnei "(Eumenidi, vv. 517-519). Le verità che dicevo a me stesso, anche quelle che per anni avevo vilmente taciuto e stavo tirando fuori, mi avrebbero aiutato a cambiare quella strada che portava all’inferno.
L’aiuto più grande però venne dalle persone buone. Fulvio in primis. L’avrei incontrato il giorno seguente, nel collegio universitario, e 45 anni più tardi sarei tornato in quel bar con lui e altri due amici Maddalena e Alessandro tutti in bicicletta da Bologna. Ci volevamo bene ed eravamo allegri 
 
Sentivo  comunque già allora che non ero una persona comune, uno dei tanti e speravo di risalire, una volta toccato il punto più basso dell’abisso.
In effetti questa caterva di mali mi  avrebbe fatto fuggire da una  identità non mia: degenerata, deformata, sconciata e mi avrebbe spinto a diventare uguale a me stesso, alla persona che ero.
In effetti anche quella melodia sgangherata prediceva un poco di bene: qualche giorno più tardi, a Debrecen, una ragazza russa cantò Mezzanotte a Mosca, poi, parlando, mi diede animo dicendomi parole buone, pauca sed bona dicta. Cominciai a risalire la china aggrappandomi a quelle prime frasi benevole dopo anni di maledizione. Basta poco per aiutare un disgraziato, ma a tanti anche un sorriso costa troppa fatica.
Mi rimisi in viaggio con l’animo a terra.
A cinquanta chilometri dalla meta riapparve il bellissimo volto del sole. 
Mi rianimai. Sentivo entrarmi nel  petto una forza nuova.
Nonostante la paura di fare tardi, mi fermai per chiedere aiuto al primo fra tutti gli dèi, l’occhio del cielo che tutto vede. 
“Se dopo tanta pioggia, sia pure intermittente, arrivo in un momento di cielo sereno, questo viaggio termina con un auspicio favorevole. Sono pronto a ricominciare. Aiutami Elio. Dio, non permettere che una tua creatura, più disgraziata che cattiva, soffra tanto per tutta la vita.
Stacca da me l’orribile aspetto di suino immondo, rendimi al Gianni che sono!”[5]
Dio mi ascoltò, Dio mi esaudì. Quel viaggio nella terra dei Magiari, la Magyarország,  era voluto dal Fato. Mi avrebbe emancipato e staccato dal mio passato, dai parenti disordinati, dall’ambiente meschino, conformista di Pesaro, e mi avrebbe messo in contatto con le cose belle, congeniali  alla mia natura non cattiva: con le lettere della classicità che risana l’angoscia, capite e non solo imparate, con il meglio di questo mondo, con alcuni amici, con gli allievi, e soprattutto con le donne belle e fini che mi erano predestinate. Sì, perché anche quando ero a terra le donne le pensavo al plurale[6].

 Avrei riformato il carattere, cioè l’orientamento mio.
Il carattere buono si orienta sulla stella polare del Bene, quello cattivo vede e ricorda solo il male. D’altra parte un carattere buono è una cara esca[7] che attira i buoni e pure i cattivi.
Basta non lasciarsi prendere all’amo.
Un carattere cattivo, prepotente e ingiurioso attira e cattura i deboli, come una calamita o una rete dalle maglie malvage.
“O primo fra tutti gli dèi” ripresi a pregare  “, tu ora, dopo la pioggia, mi appari fulgente e benedici il mio ingresso in questo nuovo mondo. Significhi che vuoi aiutarmi”.
Risalii nell’automobile. Il sole calava nella puszta.
Et sol crescentes decedens duplicat umbras, ricordai.
Non si vedevano uomini né alberi, ma girasoli dalle teste un poco risollevate, almeno così mi sembrò, gambi dritti di spighe,
pannocchie di granoturco che spargevano un colore caldo e vitale, 
poi foraggio, verdure, pozzi strani, muniti di antenne lunghissime e scenografiche assai, oche e maiali muniti di candide zanne.
 Nel cielo volavano grandi uccelli bianchi dalle ampie ali, forse cicogne dal becco crepitante.


Bologna 12 novembre 2022- ore 19, 29
giovanni ghiselli

p. s.
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[1] Nell’estate del 362 Giuliano Augusto si affrettava verso Antiochia orientis apicem pulchrum, culmine bello dell’oriente. In quei giorni si celebravano gli Adonēa, secondo l’antico rito in onore di questo giovane amato Veneris, apri dente ferali deleto, quod in adulto flore sectarum est indicium frugum ( Ammiano Marcellino, Storie, 22, 9). La Morte di adone è il simbolo delle messi tagliate quando sono mature. 
[2] Aristofane fa dire a Strepsiade che nessuno degli uomini del pensatoio di Socrate per economia si è mai fatto  tagliare i capelli o si è unto il corpo o è andato nel bagno a lavarsi:"oujd  j eij" balanei'on h\lqe lousovmeno"" (Nuvole , v. 837). Il Coro degli Uccelli  più specificamente qualifica Socrate come a[louto" (v. 1553), non lavato. 
[3] Antonio e Cleopatra, V, 2, 294
[4] Edipo re, vv. 1414-1415.
[5] Cfr. Apuleio, Metamorfosi , Depelle quadripedis diram faciem redde me meo Lucio (XI, 2).
[6] Cfr. il personaggio di Mefistofele nel  di Goethe: “Ich sage: Fraun! Denn ein für allemal-Denk ich die Schönen im Plural” (Faust II, 4, Alta montagna), dico donne! poiché una volta per sempre, io le belle le penso al plurale
[7] Ecuba consiglia alla nuora, vedova di Ettore,  di offrire al padrone presente fivlon devlear sw`n trovpwn (Troiane, 700) la cara esca dei tuoi costumi. Andromaca stessa aveva detto che la sua reputazione di donna per bene l’ha resa desiderabile tra gli Achei (v. 657).

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