mercoledì 16 novembre 2022

L’apprendistato di giovanni ghiselli. XII parte. L’ospedale di Debrecen. Il segno purgatoriale

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La mattina mi alzai e uscii dall’albergo per tempo. C’era il sole e il corso brulicava di gente.

 Con l’automobile mi avviai nella direzione indicata seguendo i binari del tram numero uno, l’unico invero dell’unica linea tranviaria, che, girando ellitticamente, collega la stazione all’università e viceversa: Egyetem-Pályaudvar-Egyetem: i due fuochi dell’ellisse di ferro.
La luce mi confortò.     jAnovrqwson seautovn”sussurrai, “raddrizza te stesso: ‘adesso mi chiama il destino’, direbbe un personaggio della tue tragedie”.
 
Drammatizzarmi mitizzandomi è sempre stata una mia tendenza, ereditata o presa per mimesi da mamma, nonna e zie. Le seduttrici mentali.
Anche da Eschilo, Sofocle, Euripide e Shakespeare a dire il vero.
Per giunta Leopardi e tanti altri. Parenti spirituali questi.
 
Al di là del tempio cristiano la strada entra nell’ombra di grandi alberi che via via si infittiscono fino a formare la foresta nel cui centro c’è il collegio dove avrei passato il mese seguente cercando di restaurare la  mia vita in rovina. Sarei andato spesso a camminare nel bosco fitto- frequens lucus-  di alberi antichi che circonda il complesso universitario.
 Il  secretum loci, la solitudine del luogo arcano, mi avrebbe aiutato a riflettere sugli errori fatti terminato il liceo, a correggerli, a risollevarmi. Dopo circa tre chilometri, la mia scassata Seicento  sbucò in una radura  assolata dove vidi un grande edificio di stle neoclassico con la scritta sesquipedale e incomprensibile Orvostudomáyegyetem.
Sorgeva in una piazza vasta dove il tram numero 1 era in sosta, non sapevo se voluta, o dovuta a una qualche paralisi.
 Pensai di essere arrivato all’Università estiva della mia borsa di studio. Parcheggiai l’automobile, attraversai un portone monumentale, entrai nell’atrio e proseguìi verso il giardino dove si affacciavano porte e finestre. Cercavo una plausibile segreteria per presentarmi e ricevere  l’alloggio  che mi spettava. Ma tra i fiori e le erbe camminavano a stento, o sedevano sulle panchine, diverse persone per lo più anziane e malandate. In pigiama per giunta. Altri, meno vecchi e malmessi, giravano affaccendati, vestiti con camici bianchi. Capìi che ero finito nell’ospedale di Debrecen, forse il nosocomio di tutta la puszta.

 “Buon segno o presagio sinistramente ominoso, preludio allo sfacelo definitivo, magari al mio ricovero in un manicomio?” mi domandai.
 
“Debrecen dove senza volere mi sono ospedalizzato, sarà il luogo della mia guarigione, o la mia decadenza è irredimibile, la caduta precipitosa, a testa in giù, è irreversibile, e la puszta sarà la meta dell’ultimo viaggio? Ho percorso 1200 chilometri così laboriosi per arrivare a una tomba sperduta?
Et mihi  tantum de funere iter?[1]    
 
Chiuso in una nicchia anonima del colombario più tetro e periferico,  chi  mi dirà”Vale, passando, e ti sia lieve il suol?”. Aggiunsi altre domande del genere con un pizzico di ironia per non scivolare nell’eccesso plebeo della posa tragica che rischia di assumere maschere così deformate da apparire ridicola.
Ricordando tali quesiti, ora sorrido di quella infelicità attenuata da un barlume di intelligenza e dalla volontà di capire. Con il tempo e la visione d’insieme, con il panorama vasto e vario presentato dagli anni passati vivendo intensamente e riflettendo, ho capito che i presagi sono sempre buoni per le persone buone e intelligenti, basta capirne il significato e notarne i nessi. Nulla avviene per caso.  I fatti interferiscono insieme.  C’è una series causarum,  una concatenazione di cause, eiJrmo;" aijtiw'n.  Tutto è causato e accade necessariamente, nulla è casuale. Quello che appare eventum , elemento accidentale, è di fatto coniunctum, è una conseguenza necessaria anche se lì per lì sfugge alla comprensione ed è una nuova causa di un’altra conseguenza. Lo capisce  la  suvnesi" , l’intelligenza appunto, che è capacità di mettere insieme cose anche lontane. Tutta la natura è congeniale a se stessa,  come mi ha suggerito Platone[2] e ho verificato con una lunga esperienza delle cose moderne.
Ricordai la preghiera di Ecuba nelle Troiane di Euripide portate all’esame di maturità tre anni prima e la contaminai con un’espressione dell’Agamennone di Eschilo.
 Alzai gli occhi al cielo  e mormorai:” Dio , chiunque tu sia[3], difficile da conoscere, sia necessità di natura, sia intelligenza dei mortali [4], aiutami”.  Un uccello dalle ampie ali attirò la mia vista: pensai che fosse una risposta, un o{rni" profetico, e chissà,  forse pure ai[sio"[5].
Volatus avium dirigit deus[6] ricordai.
I libri mi hanno aiutato. Anche con le donne, fin da bambino: in casa le zie, la mamma la nonna disprezzavano e maltrattavano  i maschi adulti , ma tenevano in pregio me perché ero bravo a scuola.
Poi altre donne via via: grazie ai libri letti sapevo parlare, ascoltare, comprendere molte cose.
 Cinque anni più tardi, nel 1971, in quell’ospedale avrei accompagnato Elena  che aveva bisogno del mio aiuto e me ne fu molto grata favorendo il mio definitivo riscatto dall’infelicità. Ora comprendo che essere entrato nel nosocomio per sbaglio non fu un fatto casuale ma un presagio di felicità.
 
Ma torniamo al 1966. A uno dei biancovestiti domandai dell’Università, in inglese. L’ospedaliero con il dosso della mano destra mi fece segno di uscire e di girare a destra.
“Segno purgatoriale” [7] pensai.
Ero sulla strada buona: quella di intendere i segni.
 

Bologna 16 settembre 2022 ore 19, 50. E’ ora di andare a correre perché l’appetito del cibo non sia disonesto. Oggi ho lavorato, non ho niente da rimproverarmi. Però ho fatto solo un’ora e un quarto di bicicletta in pianura. Adesso è necessario correre per tre quarti d’ora.

p. s
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[1] Cfr. Lucano, Pharsalia V, 811
[2] Th'" fuvsew" aJpavsh" suggenou'" ou[sh",  Menone, 81d.
[3] Cfr. Eschilo, Agamennone 160. E’ il canto del pavqei mavqo~ (v. 177)
[4] Cfr. Euripide, Troiane, 886-887
[5] Favorevole . cfr. Sofocle, Edipo re, v. 52
[6] Ammiano Marcellino, XXI, 1, 9.
[7] Cfr. Dante, Purgatorio, III, 100- 102: “Così il maestro; e quella gente degna/ ‘Tornate’ disse; ‘intrate innanzi dunque”/coi dossi delle man faccendo insegna”

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