Il viaggio del trasognato guidatore. Dal mare alle montagne
Correndo dunque, e facendo una strage di moscerini che avevano impiastricciato il parabrezza e il muso della Seicento, ero riuscito a precedere il buio maligno solo di pochi minuti. Quando arrivai alla periferia della cittadina universitaria, il sole si era già immerso nella selvatica landa alle mie spalle, mentre dall’altra parte, la zona boscosa della Transilvania e dei selvosi Carpazi, vedevo arrivare le tenebre lunghe di una notte inquietante, popolata di spettri che mi mettevano in cuore strane emozioni: miste di presentimenti non buoni e di indefinite speranze . Ero molto giovane allora: quanto a esperienza di uomini, per non dire di donne, insomma di rapporti umani, ero quasi un infante.
Ero partito da Pesaro la mattina del 14 luglio, da solo. Avevo costeggiato il mare Adriatico sulla strada Romea e attraversato un pezzo di pianura padana; poi erano apparse delle montagne, brutte però, spelacchiate, informi se non anche deformi; insomma molto diverse dai monti noti e cari, le Dolomiti antropomorfe che si ergono sulla valle di Fassa nell’ azzurro dell’etere. Dialogavo con loro nei mesi di agosto degli anni Cinquanta quando la zia Giulia mi portava lassù dove non avevo nessun altro amico con cui scambiare qualche parola. Parlavo con quei monti che per loro umanità, mi rispondevano sempre, quasi sempre.
Se loro tacevano osservavo e salutavo le trote guizzare sull’acqua impetuosa dell’Avisio non ancora digato a monte.
Mentre avanzavo tra catene che stringevano l’orizzonte da tutte le parti, il cielo residuo prima si incoronava di piccole nubi ricciute, poi si ingombrava di nuvolacce sempre più grosse, acquose, plumbee sui monti lividi, finché arrivarono a togliermi il conforto della luce solare.
Temevo che si apprestassero a versare oscenamente i loro liquidi, facendo scivolare la macchina vecchia e stanca fino in un profondo burrone dove avrei trovato la morte scoscesa.
Infatti cominciò a piovere sulle piante rade e scure di quei monti anonimi e brulle, simili a cani dal pelo tarlato. Non si vedeva un’Oreade che fosse una. Nemmeno una Driade si scorgeva.
Mi sembrava piuttosto di udire bestie immonde: canidi affamati, che latravano in branco, o ululavano solitari fissando il cielo già quasi ottenebrato. Ho sempre avuto paura e ripugnanza dei cani, almeno di quelli che con il loro abbaiare furioso e l’aggressività sì e no trattenuta da guinzagli malsicuri assimilavo fin da bambino a uomini rumorosi, cretini, violenti, o a donne infuriate.
Proseguivo intronato e atterrito tra quegli spazi ignoti e minacciosi. Ero un ragazzo che a tratti vedeva il male anche nel nulla.
Non sembrava nemmeno più estate. Novembre sembrava. Ero tentato di tornare a Pesaro dove almeno la spiaggia coperta di ombrelloni e capanni, e l’acqua marina ricca di raggi e di flutti, di chiarori e di guizzi che moltiplicavano la luce del sole, mi assicurava che la stagione meno dolente non era finita. Ma a Debrecen avevo un appuntamento con il destino. Un destino buono col senno del poi. Ho imparato ad amarlo. Mi avrebbe fatto incontrare l’amico Fulvio e alcuni amori importanti: li racconterò perché sono storie belle, di resurrezione e riscatto. Le auguro ai buoni, ai fortunati pochi.
Allora avevo solo speranze incerte e tante paure.
Arrivai sul Tarvisio che Zeus pioveva, tuonava e fulminava.
“Tuono e lampo btronth; kai; sevla"- pensai- sono segnali, segni alati del cielo, simili a quelli ricevuti da Edipo giunto a Colono e diretto al bosco sacro della sua redenzione”.
Avevo dato gli esami di greco: tutta l’Odissea, tre tragedie di Euripide, due di Eschilo e altre due di Sofocle. Ne avevo la testa infarcita.
Non avevo tradito me stesso fino a smettere di studiare.
Attirato da quei segni divini, decisi di proseguire. Prima però scesi dall’automobile e andai a cambiare denaro per mangiare e dormire in Austria: a Graz, se ci fossi arrivato a un’ora possibile, poiché c’erano altri duecento chilometri ignoti da percorrere, probabilmente sotto la pioggia. Avevo un forte male di gola e molti timori imprecisati. Volevo capirli, determinarli, domarli.
Per questo dovevo procedere. Fata viam invenient [1], pensai. Avevo dato anche latino con tutta l’Eneide. La via da percorrere era quella che portava alla mia identità, al diventare quello che sono, non dico chissà chi, però certa mente me stesso. Questo contava. Dovevo individuare tale ojdov~ [2] e una volta trovata, percorrerla metodicamente appunto, evitando sviamenti.
Quando fui rientrato nell’automobile, vidi un lampo che illuminava l’Oriente, la parte di Graz e “di quella terra che il Danubio riga - poi che le ripe tedesche abbandona”[3].
L’abito letterario non me lo sono mai tolto. Mi ha sempre aiutato.
Sentìi tre volte il suono di un tuono strano: aveva qualche cosa di musicale. Aderitque vocatus deus [4], completai. Femmine umane sarebbero state invero ma divine per me.
Traevo auspici. Sperare che la mia vita sarebbe cambiata in meglio era plausibile: in peggio non poteva. Guardai le creste dei monti che apparvero cosmetizzati, lisciati e imbelliti dalla pioggia intermittente, seguita da qualche sprazzo di sole , e mi sembrò di vedere, mentre saltava di vetta in vetta, una creatura numinosa, vestita di bianco. Presagio di un incontro felice?
Sì ma quando? Forse si sarebbe fatto aspettare a lungo per darmi una gioia maggiore.
Intanto i capelli rossi della creatura divina mandavano bagliori solari che mi fecero pensare al vello d’oro, e gli occhi scintillavano illuminati da un fuoco prometeico.
Un vento libertino le sollevava le gonne fino alla metà delle cosce ben tornite. Fin da bambino molto piccolo cercavo di guardare le gambe delle donne, più insù che potevo
“Benedetta sei tu” gridai!
Quindi: “Elena dissoluta, Polissena bella e fine, Ifigenia santa, Cassandra profetica invocai con tono negromantico, e aggiunsi altri nomi di donne speciali che avevo incontrato nei libri buoni e, prefiguravano le femmine umane degli incontri reali e fatali. Carnali e spirituali. Dovevano essere diverse decine per contrappesare tanto dolore.
Questa visione poteva preannunciare la creatura bella e fine che un giorno avrei incontrato e mi avrebbe amato se non mi fossi perduto d’animo e avessi ricominciato a progredire, cercandola. Avrei voluto unirmi a lei in un tripudio bacchico a suoni di evoè.
Sentivo che quell’apparizione prefigurava qualche cosa della mia esistenza.
Allora era una figura eterea, una promessa quasi ultraterrena, ora che sono prossimo ai 78 anni, iam senior, sed cruda mihi viridisque senectus " [5], posso chiamarla per nome, anzi, grazie al mio Dio generoso, con molti nomi, pollw`n ojnomavtwn morfh; miva[6], e ringraziare Zeus chiunque egli sia, di avere mantenuto la grande promessa di allora: di avermi fatto incontrare quella creatura celeste, incarnata in Helena , in Kaisa , in Päivi, le finlandesi di Debrecen, in Helena di Praga, e nelle italiane incontrate qua e là, in Gianna, in Luciana, in Ifigenia, in Carlotta, in Olga, in Magda, in Daniela, in Polina e in diverse altre. Tutte dileguate, ma non senza avere prima svolto la loro funzione storica. Sempre grazie Dio, chiunque mai egli sia, o[sti" pot j ejstivn[7].
Un poco confortato dunque, scesi dal passo Tarvisio tra i villaggi lindi dell’Austria: Villach e altri, in direzione di Klagenfurt. C’era qualche cosa di simpatico, pulito, ordinato in quei paesi, mentre le nuvole sembravano diradarsi.
Invece, quando ebbi traversato Klagenfurt e ripresi a salire tra i monti, il cielo si annerò tutto di nuovo, poi ricominciò a piovere, infine la luce scomparve in un vapore esalato dagli stessi monti bagnati. Procedevo nell’oscurità della notte deserta.
“Buio d’inferno e di notte pivata
D’ogni pianeta, sotto pover cielo,
quant’esser può di nuvol tenebrata”
recitai per dirmi che non ero solo del tutto in questo mondo, né senza aiuto: mi sostenevano i miei auctores. Allora non mi era chiaro ma oggi posso dire che mi hanno aiutato nella vita in tutto: anche a trovare l’amore, anzi gli amori.
Il momento di ottimismo però trascorse via in fretta.
La Seicento sbandò e pensai che qualcosa mi inceppava il cammino. Avevo paura. Di non arrivare alla meta. Tra quelle montagne ignote non si vedeva più niente, tranne una decina di metri davanti all’automobile che procedeva con i fari abbaglianti accesi. Ma sì, potevo anche morire. “Tanto della mia vita-pensavo- non importa niente a nessuno”.
Tranne a mia madre alle zie e ai nonni che del resto avevano tanti altri problemi loro e non potevano sobbarcarsi anche i miei. Per 19 anni, anzi, ero stato io la loro principale ragione di vita. Sentivano che erano vissuti per me. Ma da un paio di anni toglievo significati buoni alla loro esistenza mandando in malora la mia.
Però volevo reagire a tanta cupezza. Sentivo che era eccessiva e pure un poco affettata.
L’affettazione è “un asperissimo e pericoloso scoglio” ricordai e mi feci di nuovo coraggio citando.
Bologna 8 novembre 2022 ore 17, 52
giovanni ghiselli
p. s.
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[1] Virgilio, Eneide III, 395, i fati troveranno la via.
[2] Via
[3] Dante, Paradiso VIII, 66-67. Ovviamente designa l’Ungheria, la terra magiara..
[4] Eneide, III, 395, e sarà presente, invocato, un dio.
[5] Cfr. Eneide, VI, 304, già piuttosto vecchio, ma cruda e vigorosa è la vecchiaia mia
[6] Eschilo, Prometeo incatenato, 210, una sola forma di molti nomi.
[7] Cfr. Eschilo, Agamennone,
160.
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