In quei giorni di ferie, per non dimenticare le sensazioni dell’estate passata, andai a interrogare la grande facciata grigia del Budaörsi Kollegium e tutti i luoghi dove ero stato felice con Päivi. Prendevo appunti.
Meditavo di raccontare tutta la storia, ma solo dopo avere elaborato il dolore della fine. La pena doveva diventare intelligenza dei fatti, di me stesso, della donna.
Anche questo pellegrinaggio a luoghi che consideravo sacri, ebbe del resto un aspetto egoista e crudele, poiché mentre giravo devoto ed estatico, fuori di me come l’adoratore di una divinità crudele, tra i locali, per le piazze, lungo le vie, attraverso le campagne frequentate in agosto con la donna di cui ero stato innamorato, in quell’aprile lontano mi portavo dietro un’altra amante: Faina, una Ciuvassa russificata che stava facendo la tesi a Budapest.
Fu la vittima sacrificale di quella dea rossa e feroce che adoravo.
Avevo conosciuto questa ragazza mite a Debrecen nell’estate già allora lontana del ’72, quella dell’amore di Kaisa che ho già raccontato nel secondo dramma della trilogia finlandese prossima a terminare. Poi magari passerò al satiresco su Ifigenia. Scrivo queste storie perché vengono lette da tanti visitatori del blog cui forse curano l’anima, e anche con la speranza di ritardare la morte. Faccio tesoro di sentimenti forti che mantengano viva la memoria dei significati di una vita vissuta nell’amore, nella gioia e nel dolore. Senza giochi di carte dico, né visioni, tanto maschili, di partite di calcio, né droga, né fumo e simili lordure. Un po’ di vino magari sì.
Apollo, Venere e Bacco senza tabacco.
Faina dunque, la sera della sua partenza dalla cittadina universitaria ungherese, mi aveva chiesto di accompagnarla alla stazione, poi, siccome il treno per Samarcanda aveva un grosso ritardo, eravamo andati a parlare e a bere dell’Egribikavèr[1] all’Arany bika[2].
Le avevo esposto la mia visione del mondo nella lingua magiara, in breve e molto all’ingrosso.
Tuttavia da quella sera remota, Faina, da vera Ciuvassa russificata e romantica, si era creata il mito di Gianni il buono, il generoso, l’ingenuo, e lo coltivava senza ragione, come una delle creature estreme di Dostoevskij. In particolare mi associava al principe Myskin, l’idiota santo e geniale. Diceva di amarmi perché nell’anima mia vedeva la forza della bontà. Dopo il nostro incontro aveva e imparato bene la lingua italiana per comunicare con me. Mi amava e sperava di essere contraccambiata.
Tuttavia in quei giorni della primavera del 1975 non poté non accorgersi che ero innamorato di un’altra e me lo fece notare con mitezza e mestizia.
Una mattina, mentre giravamo l’Ungheria con la nera Volkswagen e io andavo a caccia di ricordi con gli occhi, con le orecchie, fiutando le tracce lasciate da Päivi con il naso e con tutto il mio ceffo davvero canino, Faina notò che avevo un grosso peso nel cuore e me lo disse.
Non la smentii, siccome sono stato qualche volta anche un po’ farabutto in questa mia vita mortale, ma bugiardo per niente. Mi piaccio abbastanza da non dovermi camuffare.
Posso capire e accettare la dissimulazione, ma non ammetto né mi permetto la simulazione dei servi.
Avuta dunque la mia tacita conferma, Faina si mise a cantare una canzone ciuvassa dalla melodia triste. Quindi me la tradusse.
Una donna dice a un uomo: “Amore mio, portami via con te: ti farò da compagna”.
L’uomo risponde: “Non ti voglio: ho già una compagna”
Lei allora gli fa: “Caro, portami via con te: ti farò da sorella”
E lui: “Non ti voglio: ho già una sorella”.
Infine la donna lo prega: “Ti prego, portami via con te, ti farò da serva straniera”.
“Non ho bisogno di una serva straniera” - risponde spietatamente l’uomo - Va’ via”.
“Tu sei quell’uomo, Gianni, io quella donna”, concluse Faina sbirciandomi malinconicamente con occhi tartari, obliqui.
Mi venne in mente: “I am your wife il you will marry me;/if not. I’ll die your maid”[3].
Invece dissi: “Faina, tu sei una cara compagna e io ti vorrò sempre bene”.
Di fatto però tale rimprovero, seppure mite, mi faceva sentire un carnefice di quella giovane donna di cui assaporava appunto le carni assai bianche. Io stavo infliggendo ingiustizia e crudeltà a quella creatura immeritevole di tale maltrattamento.
Ne imploro perdono a lei e a Dio, chiunque egli sia.
Vero è che più avanti dovrò scontare queste sofferenze arrecate a Faina con quanti dolori mi verranno inferti da Ifigenia e altre furie vendicatrici.
Poiché il male fatto si paga: prima o poi torna indietro, rimbalza sull’autore secondo il contrappasso.[4]
Tra gli altri pregi, quella ragazza ventitreenne aveva quello di essere comunista convinta. Il regime diceva, perfino al tempo di Stalin, aveva aiutato la gente e le popolazioni più povere dell’Unione Sovietica. Per questo lei aveva potuto studiare, viaggiare e fruiva ancora di borse di studio. Dall’autunno seguente avrebbe lavorato come interprete a Budapest.
Forse con lei ho perso, per mia stupidità, la donna migliore, la più buona, la più intelligente e capace che abbia mai incontrato.
Allora avevo soprattutto bisogno di un’amica buona che mi credesse tanto, tanto buono, e mi desse qualche indicazione e qualche ragione per diventarlo davvero.
Päivi mi aveva motivato allo studio intelligente e al pensiero cosciente, e io cominciavo a capire che non si può essere davvero felici se non si è profondamente morali.
Faina diceva che le facevo comunque del bene poiché la aiutavo a pensare con lucido realismo e la motivavo a studiare la mia bella lingua madre.
E mi amava perché comunque ero gentile.
A me invece in certi momenti sembrava di essere un boia perverso che strazia una vittima innocentissima con crudeltà inaudita.
Perciò, finita la breve feria d’Aprile, tornai volentieri a Bologna per terminare decentemente l’anno scolastico.
In luglio partii per la Finlandia. Dovevo parlare con Päivi, sentirmi dire almeno se aveva abortito o aveva fatto nascere la nostra bambina. Ero capace di illudermi ancora sulla cortesia di questa donna fatale.
Note
[1] Sangue di toro di Eger, un famoso vino ungherese.
[2] Toro d’oro. Albergo e ristorante storico di Debrecen. Cfr. la storia di Helena Sarjantola, quella di Kaisa e l’arrivo a Debrecen presenti nel blog.
[3]Shakespeare, The tempest, III, 1
[4] Nel doloroso canto (kommós) che precede l’epilogo dell’Agamennone (vv. 1562 - 1564), il Coro dice queste parole: “paga chi uccide”, ἐκτίνει δ’ ὁ καίνων, “rimane saldo, finché Zeus rimane sul trono, che chi ha fatto subisca: infatti è legge divina”, μίμνει δὲ μίμνοντος ἐν θρόνωι Διὸς / παθεῖν τὸν ἔρξαντα· θέσμιον γάρ. C’è una ripresa di questo nel kommós delle Coefore (vv. 313 - 314): δράσαντα παθεῖν, / τριγέρων μῦθος τάδε φωνεῖ, “subisca chi ha agito, un detto tre volte antico suona così”.
Ricordo anche l’Ercole di Euripide dove Anfitrione indirizza queste parole a Lico inconsapevolmente incamminato verso la morte (vv. 727 - 728): προσδόκα δὲ δρῶν κακῶς / κακόν τι πράξειν, “aspettati facendo del male di averne del male”.
Infine l’Oreste di Euripide. A Menelao che gli domanda τί χρῆμα πάσχεις; τίς σ’ ἀπόλλυσιν νόσος; (395) “che cosa soffri? quale malattia ti distrugge?”, il nipote risponde ἡ σύνεσις, ὅτι σύνοιδα δείν’ εἰργασμένος, 396 - “l’intelligenza, poiché sono consapevole di avere commesso cose terribili”. Oreste dunque è reso sofferente dalla propria σύνεσις . Menelao allora ricorda al matricida la legge del contrappasso per la quale deve soffrire (v. 413): οὐ δεινὰ πάσχειν δεινὰ τοὺς εἰργασμένους, “non è terribile che patiscano conseguenze tremende quelli che hanno compiuto atrocità.
Bologna 5 dicembre 2022 ore 17, 49
giovanni ghiselli
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