venerdì 13 gennaio 2023

Nietzsche 55. L’estasi dionisiaca e il dialogo apollineo. Leopardi sottovaluta il dramma.

Capitolo VIII  (pp. 56-63)

Procediamo con questa “stravaganza geniale” come Friedrich Wilhelm Ritschl, maestro di Nietzsche definì La nascita della tragedia.

 

Il Greco vede nel Satiro la natura non ancora indebolita dalla civiltà e  ne ha nostalgia; l’uomo moderno per questa stessa nostalgia si trastulla però con la carezzevole immagine di un pastore tenero, effeminato, che suona il flauto.

Il satiro per il Greco significa invece l’uomo primigenio nelle sue espressioni più alte e più forti; il satiro è il simbolo dell’onnipotenza sessuale della natura.

Il pastore falso e agghindato (cfr. gli Idilli di Teocrito e le Bucoliche di Virgilio) avrebbe offeso l’uomo dionisiaco. Davanti al satiro barbuto l’uomo civile si raggrinzisce in una bugiarda caricatura.

Dunque Schiller ha ragione: il Coro è un muro vivo contro l’assalto della realtà perché il Coro dei satiri riflette l’esistenza in modo più verace reale e completo rispetto all’uomo civile.

La poesia butta via da sé l’ornamento menzognero della presunta realtà dell’uomo civile. La tragedia con la sua consolazione metafisica indica la vita eterna; il greco dionisiaco vuole la natura e la verità nella loro forza massima. Il pubblico poteva identificarsi con i coreuti. Il pubblico vede i Satiri nel coro e il coro vede Dioniso nell’attore. La forma del teatro greco ricorda una valle di montagna. Il poeta è poeta solo in quanto si vede attorniato da figure che vivono e agiscono davanti a lui. Per il poeta la metafora non è una figura retorica ma un’immagine che sostituisce un concetto. Per il poeta  un carattere è una figura insistentemente viva davanti ai suoi occhi. Omero descrive con maggiore evidenza perché intuisce di più. Il fenomeno estetico è semplice: sta nel vivere attorniati da schiere di spiriti: se possiamo parlare immedesimati in altre persone, siamo drammaturghi (p. 59)-

.

Il rapsodo non si fonde con le sue immagini, ma, come il pittore, le vede fuori di sé; il drammaturgo si annulla per entrare in una natura estranea.

Proprio per questo motivo Leopardi non amava il genere drammatico

Leopardi dunque svaluta il dramma.

Il Recanatese  sostiene che il genere drammatico, rispetto alla poesia lirica e a quella  epica, “è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà. Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà, non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più che per la essenza sua… Il dramma non è proprio delle nazioni incolte. Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio, un trovato di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell’ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall’ingegno dell’uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciare sollazzo a sé e agli altri, e onor sociale e utilità a se medesimo. Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote"(Zibaldone, 4235-4236).

Ancora: “Essa[1] è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, né le danno natura poetica.Il poeta è spinto a poetare dall’intimo sentim. suo proprio, non dagli altrui. Il fingere di avere una passione, un caratt. ch’ei non ha (cosa necess. al drammat.) è cosa alienis. dal poeta…Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de’ sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona d’altrui, d’imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico” (Zibaldone, 4357). 

E più avanti: “Il romanzo, la novella ec. sono all’uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è più alieno di tutti i generi di letteratura, perché è quello che esige la maggior prossimità d’imitazione, la maggior trasformazione dell’autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l’uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro” (4367).

La stessa cultura ateniese viene considerata manchevole poiché non ci furono poeti lirici ateniesi.

 

Io dico perché la letteratura ateniese fu politica, mentre la lirica è il genere meno politico.

 

Ma sentiamo ancora Leopardi: “Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriam. poeti, ma come, al più, intermedii fra’ poeti e’ prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica (22. sett. 1828). Però, chi dice che la lett. gr. fiorì principalm. in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. Ec. (22. Sett. 1828)”[2].


Cerchiamo di perdonare Leopardi e torniamo a Nietzsche.

Dunque “Il coro ditirambico è un coro di trasformati : dimenticano il loro passato civile e la posizione sociale: essi sono diventati i servitori senza tempo del loro dio, viventi al di fuori dI ogni sfera sociale (…) In questo incantesimo chi é esaltato da Dioniso vede se stesso come satiro e come satiro guarda il dio (…)  Con questa visione il dramma è completo (…) il coro dionisiaco si scarica in un mondo apollineo di immagini” (p. 61)

Le parti corali allora sono la matrice del dialogo. Il dramma è la rappresentazione apollinea di moti dionisiaci. E’ il coro che produce la visione e se è servile verso il dio, siccome è partecipe della sua sofferenza, è anche il saggio che annuncia la verità dal cuore del mondo. Il coro ditirambico deve eccitare dionisiacamente gli spettatori in modo che quando entra in scena l’attore grottescamente mascherato questi vedano il dio partorito dalla loro stessa estasi. Come Admeto che vede la donna velata, lo spettatore entra nell’inquietudine. Poi trasferisce nella figura mascherata l’immagine del dio che magicamente trema davanti alla sua anima. Così viene dissolta la realtà dell’attore.

Questo è lo stato apollineo del sogno. Le apparenze apollinèe in cui si vede Dioniso non sono più un mare eterno, un mutevole agitarsi, una vita ardente come la musica del coro, “ora parla dalla scena la chiarezza e la saldezza della raffigurazione epica, ora Dioniso parla come eroe epico, quasi con il linguaggio di Omero”.

 

Questa parte è piuttosto astrusa. Volendo semplificare, direi che

gli spettatori eccitati dalla musica del  coro vedono nell’attore il dio Dioniso in un’immagine simile a quelle dei sogni. Immagini apollinèe dunque che parlano un linguaggio chiaro cioè apollineo.

Ma l’estasi che ha prodotto queste visioni apollinèe è dionisiaca. Questa dunque deve condurre lo spettatore a vedere il dio ma poi a sentirlo parlare con epica chiarezza.

Le persone che dicono di essere dionisiache per nobilitare la loro stravaganza dovrebbero compiere  questo passaggio  dall’estasi, dal fuori da sé e dalle convenzioni, alla chiarezza di un metodo creatore di chiarezza, bellezza e progresso.  

Il dialogo è dunque la parte apollinea, trasparente e bella.

 

Bologna 13 gennaio 2022 ore 17, 54

giovanni ghiselli

 

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[1] La poesia drammatica.

[2] Zibaldone, p. 4389.

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