lunedì 30 gennaio 2023

Polibio IV Sulla superstizione dei Romani e dei Greci.

 

Polibio, Crizia, Machiavelli, Eschilo, Lucrezio, Varrone, Cicerone.

Interpretazioni di Farrington e Mazzarino. 

 

 Nel VI libro Polibio parla anche della religione dei Romani e dice che la concezione degli dèi gli sembra la maggior differenza in meglio che lo Stato romano possieda:"Megivsthn dev moi dokei' diafora;n e[cein to;   JRwmaivwn polivteuma pro;" bevltion ejn th'/ peri; qew'n dialhvyei"(VI, 56, 6). Si tratta di una deisidaimoniva (56, 7), di superstizione, che, se altrove può essere oggetto di biasimo, a me pare che a Roma tenga insieme lo Stato- moi dokei` tou`to sunevcein ta;  JRwmaivwn pravgmata.

 

Presso i Romani questa parte della cultura viene esaltata

( " ejktetragwv/dhtai", 8) e introdotta nella vita pubblica e privata tanto da non lasciarne una maggiore.

A Polibio sembra che ciò sia stato fatto "tou' plhvqou" cavrin"(9), per la massa. Se infatti fosse possibile mettere insieme uno Stato di uomini saggi, probabilmente una soluzione del genere non sarebbe necessaria, ma poiché ogni massa è leggera ("  ejlafrovn") piena di desideri sregolati ("plh're" ejpiqumiw'n paranovmwn"), di impulsi irrazionali e passioni violente, non resta che trattenerle con oscuri terrori e con tale apparato da tragedia ("leivpetai toi'" ajdhvloi" fovboi" kai; th'/ toiauvth/ tragw/diva/ ta; plhvqh sunevcein", VI, 56, 11).

Questa è la ragione per cui gli antichi ("oiJ palaioiv", 12) hanno introdotto nelle plebi le nozioni riguardo agli dèi e le credenze sull'oltretomba. Male fanno i contemporanei ("oiJ nu'n") a bandirle in maniera scriteriata e irrazionale ("eijkh'/ kai; ajlovgw"").

Per confermare  queste parole greche del tempo della repubblica romana ne cito alcune latine di Curzio Rufo, della prima età imperiale (I d. C.):" Nulla res multitudinem efficacius regit quam superstitio: alioqui impotens, saeva, mutabilis, ubi vana religione capta est, melius vatibus quam ducibus suis paret "(Historiae Alexandri Magni , IV, 1O), nessuna cosa meglio della superstizione governa la moltitudine: altrimenti sfrenata, crudele, volubile, quando è afferrata da una vana religione, obbedisce più facilmente agli indovini che ai suoi capi.   

 

C'è dunque un metodo  nella follia della superstizione se considerata dalla prospettiva di chi la diffonde.

The readiness is all, come dice Amleto a Orazio (Hamlet, V, 2), essere preparati è tutto. Quasi tutto direi

 

Il dramma satiresco Sisifo  forse di Crizia contiene la teoria razionalistica dell'utilità politica della religione la quale è un'invenzione geniale e valida a frenare i male intenzionati con la paura dei castighi:"mi sembra che prima un uomo accorto e saggio di mente, inventò per i mortali il terrore (devo") degli dei, affinché per i malvagi ci fosse uno spauracchio ("ti dei'ma") anche se fanno o parlano o pensano qualche cosa furtivamente("lavqra/")[1].

 Un argomento che in epoca moderna viene ripreso da Machiavelli i cui legami con Polibio indicheremo, precisandoli, anche più avanti. Ebbene l'XI capitolo del I libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio  verte sulla religione dei Romani: tra questi il re Numa "trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa del tutto necessaria a volere mantenere una civiltà e la constituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare...E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, ad animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni a fare vergognare i rei. Talché se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata o a Romolo o a Numa credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché dove è religione facilmente si possono introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione con difficultà si può introdurre quella...E veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio, perché altrimenti non sarebbero accettate". Quindi Machiavelli tra i legislatori che "ricorrono a Dio" ne nomina due  che conosciamo bene: Licurgo e Solone. Infine tira le somme:"Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città, perché quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è cagione della rovina di esse. Perché dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti della religione". Per quanto riguarda la considerazione del timore quale fondamento di un ordinato vivere civile, possiamo indicare un archetipo, o comunque un autore più antico di quelli considerati sopra, in Eschilo che nelle Eumenidi  fa dire al coro:"  "a volte il terrore è bene/e quale ispettore delle  anime/ deve restarvi a fare la guardia".(vv. 517-519). E, più avanti:"Io consiglio ai cittadini che hanno cura della città/di rispettare uno stato senza anarchia né dispotismo/e di non scacciare del tutto il timore fuori dalla città./Infatti quale mortale è giusto se non ha nessuna paura?"(vv. 696-699).

 

Sappiamo che ci sono voci contrarie alla religio e alla deisidaimoniva.

Teofrasto  (371-287) ridicolizza il deisidaivmwn nel XVI dei suoi Caratteri  (319) La superstizione è viltà di fronte al soprannaturale- deiliva pro;~ to; daimovnion- e il superstizioso oj deisidaivmwn è uno che per evitare ogni contaminazione si lava le mani e si spruzza di acqua santa e gira tutto il giorno davfnhn eij~ to; stoma labwvn dopo avere  ficcato  una foglia di alloro in bocca.

Se una donnola galh` gli attraversa la strada, lascia passare un altro prima di procedere oppure lancia tre sassi prima di passare.

Se stridono le  civette mentre passa kajn glau`ke~ kakkabivzwsi si turba ed esclama  jAqhna` kreivttwn, Atena è più forte. Evita il morto nekrovn, e  la puerpera- lecwv, per non contaminarsi. Dopo un sogno va dagli interpreti dei sogni-pro;~ tou;~ ojneirokrivta~ -. Ogni mese va con moglie e figli a farsi iniziare ai misteri orfici.

Se vede un pazzo o un epilettico si sputa in grembo rabbrividendo- “mainovmenon de; ijdw;n h] ejpivlhpton frivxa~ ei~ kovlpon ptuvsai

 

 Lucrezio addirittura criminalizza la religio  in quanto è stata causa di delitti orrendi ed empi come il sacrificio di Ifigenia:"Tantum religio potuit suadere malorum ", a crimini tanto grandi poté indurre la religione, è forse il verso più famoso(I, 1OI) del De rerum natura. Ora la superstizione spinge tanti affetti da questa malattia al consumo maniacale e perfino ad approvare la guerra che è una metafora del consumo poiché questo è distruttivo e la guerra distrugge i nemici e tutti sono nemici.

 

Del resto si sa che mentre condanna la superstizione, Lucrezio ne subisce il fascino, o per lo meno scrive versi pieni di fascino, come quelli sul culto della Magna Mater del secondo libro. Ne riporto alcuni che denunciano il proposito della pretaglia di terrorizzare il volgo e di estorcergli denaro:

I tamburelli tesi tuonano sotto i palmi("Tympana tenta tonant palmis " e i cembali concavi/intorno, con il rauco suono minacciano i corni,/e il cavo flauto con frigia cadenza esalta le menti,/e davanti a sé brandiscono armi, segni di furia violenta,/che possano atterrire, con lo spavento della potenza della dea/gli animi ingrati e i petti ribaldi del volgo./Perciò, appena portata in giro per le grandi città,/

fa dono muta ai mortali di ineffabile salvezza,/e lastricano tutto il percorso di bronzo e d'argento("aere atque argento sternunt iter omne viarum "/arricchendola di copiosa offerta e fanno nevicare fiori/di rosa, coprendo di ombra la madre e le orde del seguito(vv. 618-628).

 

Sentiamo Leopardi: “Gli antichi dèi della Grecia ec. erano nell’immaginazione de’ greci ec. e ne’ loro simulacri ec., di figura mostruosa e spaventevole; abbellita a poco a poco col progresso della civiltà: segno che l’origine della religione fu il timore ec…(14 Ottobre 1828)”[2].

 

 

B. Farrington in Scienza e politica nel mondo antico  contrappone Polibio con i suoi seguaci intenzionati ad incatenare il popolo, a Lucrezio che, con l'aiuto di Epicuro, invece vuole liberarlo. "Polibio...aveva intravisto che uno degli elementi perturbatori della Grecia era l'emancipazione delle masse popolari dalla superstizione e l'indifferenza con cui i capi della società greca guardavano alla decadenza della religione di Stato...nell'esilio e nella prigionia egli fu piacevolmente sorpreso di notare che i romani, col loro buon senso pratico, avevano risolto il problema del controllo delle masse con una perfetta organizzazione della superstizione. A Polibio e al suo amico Panezio parve che la saggezza politica di Roma fosse tale da farne la dominatrice del mondo. Ma, oltre che sostenitori dell'imperialismo romano, Polibio e Panezio furono anche i primi consapevoli teorici  del dominio romano del mondo...Si trattava di una riorganizzazione della società civile in tutto quanto il mondo abitato, nel senso di una restaurazione dell'oligarchia e di una giusta sottomissione dei ceti più bassi della popolazione. Polibio riconobbe che Roma aveva dato al raggiungimento di questa meta un contributo fondamentale con la sua capacità di organizzare, oltre tutto, anche il controllo di una religione di Stato. I pensatori greci potevano sperare di contribuire a una migliore soluzione del problema nelle sue dimensioni mondiali e nel suo significato filosofico. In una parola, essi potevano stabilire una religione di Stato adatta non solo alle esigenze della città di Roma ma di tutto l'impero romano. Fu questa l'opera dei teorici del periodo romano dello stoicismo. Gli stoici riconoscevano tre tipi di concezione degli dei: una mitica, una politica e una naturale. La concezione mitica era quella tramandata dai poeti, adatta alle loro opere destinate a dilettare; quella politica era considerata utile alla società civile, mentre la terza era quella elaborata dai filosofi nelle varie scuole. Gli stoici lasciavano la prima ai poeti, la seconda l'imponevano alla massa del popolo, ma attribuivano una vera validità soltanto alla terza. Fu questa la concezione sostenuta da Varrone nella sua grande opera Antiquitates rerum humanarum et divinarum , da lui composta contemporaneamente al De rerum natura  di Lucrezio; sarebbe errato non riconoscere in queste due opere la conclusione di due tradizioni contrastanti giunte al culmine...Cicerone studiava contemporaneamente Varrone e Lucrezio...Nel 53 a. C. iniziò la composizione della Repubblica  e due anni più tardi lavorava alle Leggi ...La vita, sia pubblica che privata, deve essere chiusa in una rete di obblighi religiosi; i sacerdoti devono essere tenuti sotto il controllo dell'aristocrazia; il popolo, ignaro della procedura e dei riti che si addicono a questi obblighi pubblici e privati, deve ricevere l'istruzione dai sacerdoti. La ragione di questa legislazione religiosa viene detta chiaramente:"Il costante bisogno che ha il popolo della guida e dell'autorità dell'aristocrazia mantiene saldo lo stato"[3]. Farrington dunque vede, in maniera discutibile, due linee: quella epicurea-lucreziana che vuole liberare la vita umana la quale giaceva "in terris oppressa gravi sub religione / quae caput a caeli regionibus ostendebat /horribili super aspectu mortalibus instans "[4], e quella platonica-stoica e ciceroniana che invece vuole stringere i ceppi. Polibio costituirebbe un anello forte di questa seconda catena.

 

Altra interpretazione dà Mazzarino che coglie una nota di riprovazione nelle parole di Polibio (VI, 56) a proposito della diffusione della deisidaimoniva a Roma.

 

Trovo discutibile questa parte del pur ottimo santo Mazzarino

"La tragicità dell'uomo greco è nella lotta dell'eroe aristocratico, stirpe divina, contro un destino più possente di lui. La tragicità dell'uomo romano può invece definirsi con le parole di Polibio, la cui lunga vita (82 anni) si snoda per tutto un periodo in cui furono scritte le tragedie storiche di Ennio, Pacuvio, Accio. (Polibio morì dopo il 120a. C., nacque intorno al 200; Ennio, Pacuvio, Accio nacquero rispettivamente nel 239, 220, 170.) "Il terrore degli dèi" diceva Polibio "è tragediato ed esagerato nella vita privata dei Romani, e in quella pubblica, sino al massimo"; "ne segue che la plebe viene tenuta a freno con oscuri terrori e con tale tragedia". Un'ansia tragica, dunque, che si vive giorno per giorno, nel rito più che nel mito, nella quotidiana superstizione più ancora che nella rievocazione storico-drammatica delle "preteste" di Nevio, (Ennio), Pacuvio, Accio. C'è appena bisogno di dire che in quelle parole di Polibio le espressioni "tragedia" o "tragediare" hanno un valore puramente negativo e di dispregio, come a indicare un'angoscia irrazionale ed assurda; esse sono scritte nel segno di una pragmatica avversione per il tragico, a cui si ispira anche la polemica di Polibio contro gli storici "tragici". Tuttavia, lo spostamento del tragico dal mondo mitico a quello rituale della religio  è caratteristico dei Romani"[5].

Più avanti[6] Mazzarino si domanda:"fino a che punto è Polibio un tucididèo?" Quindi dà una risposta riguardo alla deisidaimoniva :" Confrontiamo Tucidide. Secondo Tucidide, ad esempio, il sacrilegio degli Alcmeonidi, di cui gli Spartani facevano gran caso nella loro lotta contro Pericle, è in fondo un pretesto politico, velato di religiosità. O ancora: Nicia appare a Tucidide "troppo dedito al theiasmòs  e a cose del genere"; per bocca degli Ateniesi, Tucidide avverte (ma con una punta d'incertezza) che non bisogna affidarsi alle previsioni[7] e agli oracoli. Naturalmente, l'eredità tucididèa è in Polibio assai ampia: non si limita alla critica della superstizione... Ma c'è in tutta l'impostazione delle Storie  polibiane qualcosa che non c'era in Tucidide. Tra l'altro, il problema dell'intervento degli dèi nelle cose umane suscita in lui un interesse più diretto, proprio dell'età ellenistica: Filarco, che Polibio considerò uno storico "tragico" contro il quale volgeva implacabilmente i suoi strali, si domandava, anch'egli, se gli dèi intervenissero nelle cose umane".

Ma qui si entra in un altro argomento che abbiamo già trattato e tratteremo ancora. Concludo questo riquadro con una citazione e una riflessione tratta dai giornali. La prima è dal "profeta dello spirito, visionario dell'idea " F. Dostoevskij: ne I fratelli Karamazov  Ivan "vede e sente" Satana che propone un'operazione inversa rispetto a quella del tiranno Crizia:" basta distruggere nell'uomo l'idea di Dio, e proprio da questo occorerebbe cominciare!...dal momento che non esiste né Dio né l'immortalità, all'uomo nuovo è lecito diventare un uomo-dio, dovesse pure essere l'unico in tutto il mondo; e si capisce che, nel suo nuovo grado, gli è pur lecito, se appena gli occorre, scavalcare a cuor leggero ogni ostacolo della vecchia morale propria dell'uomo schiavo...Tutto è permesso"[8].

La seconda deriva dalla spiegazione che, nei quotidiani, psicologi psichiatri e psicoterapeuti vari danno dei crimini che affollano le cronache: dicono che mancano i punti di riferimento, prima di tutti la religione. Il fatto è che la superstizione vigente oggi considera sacro e obbligatorio soltanto consumare le cose e usare le persone; del resto :"Tutto è permesso!".    

        

Discutibile è pure questa che Somigliano dà di Vico    

“Giambattista Vico, al quale ci si rivolge sempre quando c’è da illustrare una situazione incongrua, era colpito da una frase del libro VI, capitolo 56, di Polibio. Polibio sostiene qui che la deisidaimonia, proprio quella cosa che presso altri popoli è oggetto di biasimo, tiene insieme lo Stato romano.. “E’ un’attitudine-aggiunge Polibio-che forse non sarebbe stata necessaria se fosse stato possibile uno Stato composto di saggi, ma la moltitudine è incostante”. Vico non capiva il greco di Polibio, non sapeva cosa voleva dire deisidaimonia, e non era attento alla traduzione latina. Egli fece dire a Polibio che se ci fossero dei filosofi a questo mondo, le religioni non sarebbero necessarie; e di questa nozione fece uno di quei ritornelli ossessivi che ricompaiono continuamente nella Scienza nuova, come dei pretesti per far risaltare i suoi propri pensieri: “E quindi incomincia a confutarsi Polibio di quel falso suo detto: che se fussero al mondo filosofi, non farebbero uopo religioni”. Non avremmo la Scienza nuova senza questo fraintendimento di Polibio: il che può cominciare a introdurci alla differenza fra una buona onte e un fantasma ispiratore”[9]. 

 

In conclusione io invece credo che la somma del pensiero di Poliobio sulla superstizione dei Romani è che questa abbia tenuto insieme lo Stato

moi dokei` tou`to sunevcein ta;  JRwmaivwn pravgmata Questo dice Polibio 8VI, 56, 7)

Io credo che anche il nostro Stato sia mantenuto da varie forme di superstizione inculcate da propagande varie, prima di tutte la pubblicità  

 

Bologna  30 gennaio 2023 giovanni ghiselli

Sempre1317662
 

 



 [1] Sono parole di un frammento  (25 D. K.) del dramma satiresco, una quarantina di versi tramandati da Sesto Empirico, filosofo scettico della seconda metà del II secolo d. C.

[2] Zibaldone, 4399.

[3]Farrington, Scienza e politica nel mondo antico , pp. 132-134. In nota l'autore cita due periodi delle Leggi di Cicerone:" Quoque haec privatim et publice modo rituque fiant, discunto ignari a publicis sacerdotibus "(II, 20, 9), in qual modo e con quale rito questo si faccia in pubblico e in privato, i profani lo apprendano dai pubblici sacerdoti. Quindi:"continet enim rem publicam consilio et auctoritate optimatium semper populum indigere "(II, 30, 5), implica infatti che lo Stato e il popolo hanno sempre bisogno del consiglio e dell'autorità degli ottimati.

[4]Lucrezio, De rerum natura , I, 63-65: schiacciata a terra sotto il peso della religione/ che mostrava il capo dalle regioni del cielo/ incombendo sui mortali con aspetto terrificante

[5]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico , II, 1, pp. 61-62.

 [6]II, 1, p. 125.

[7]II 57...VII 50, 4...V 103, 2 (Ateniesi ai Melii). Tuttavia i 27 anni: V, 26, 3.

[8]F. Dostoevkij, I fratelli Karamazov , pp. 770-771.

[9] A. Momigliano, La storiografia greca, p. 277.

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