La congiura dei Fieschi, una tragedia sottovalutata di
SchillerBusto di Schiller a Jena
di Giuseppe Moscatt
Sarà tempo di pandemia, sarà tempo di cospirazione, sarà
tempo di accordi e complotti, ci saranno forme di psicosi collettive; certo si
è che riproporre vicende storiche di congiure, politiche o personali, è una
scelta estetica tutta da riscoprire. Certo si è che a Genova il teatro
nazionale ha ha riesumato il secondo dramma di Schiller, Die Verschwörung
des Fiesko zu Genua, La congiura dei Fiesco a Genova (1783),
denso di riferimenti alla storia della città, visto che i personaggi e i
palazzi di quella città ne riflettono i protagonisti e ampie zone di
“Location”. A 22 anni, il giovane Friedrich fa suo il metodo di Shakespeare,
già adattato dal conterraneo Lessing: la scelta di riaprire pagine di storia -
al di fuori però dal suolo tedesco - condendola di una vicenda personale, di
potere e di morte. Due rischi: esondare dai limiti dell'evento; rispolverare un
mondo medievale che avrebbe fatto storcere il naso a gli storici classici che disdegnavano
quei secoli.
Ma “padre Shakespeare” lo aveva preceduto su questi terreni,
per esempio Giulietta e Romeo, già gli davano corda e poi con I
masnadieri, sua prima opera, del 1782. Il pubblico entusiasta gli dava
ragione per un ulteriore esempio di rivolta contro i tiranni di ogni tempo, di
ogni lingua, di ogni storia. Del resto, le tragedie classiche di Euripide e di
Seneca non avevano già mostrato e il dolore e la lotta senza quartiere del
“politico” e della realtà singolare nel groviglio della storia? Lo Sturm und
Drang di un certo Goethe all'epoca lo aveva già impressionato sia per i
Saggi storici, soprattutto per le odi, senza contare il fermento ideologico
nelle decrepite corti nobiliari dei tanti staterelli del suo paese che tendevano
al ritorno del modello romano repubblicano. Ma Schiller prende proprio da
Lessing una profonda variabile al modello: mentre nel Bardo il popolo sembra un
lontano spettatore - il sodale Manzoni parlava di volgo che volto non ha
nel di poco successivo Adelchi - invece Lessing aveva puntato a una
classe dirigente emergente che vede idonea a sostituire la obsoleta classe
nobiliare. Per esempio, nel notissimo dramma Nathan il saggio (1779), il
drammaturgo Sassone aveva messo in scena l'illuminismo trasversale del probo
marcante ebreo Nathan, il sovrano illuminato arabo Saladino e un Templare
borghese Cristiano, che riescono a mediare in modo avventuroso, ma eticamente
innovativo, le loro differenze fra le tre religioni monoteiste mediterranee,
l'Ebraismo, l'Islam e il Cristianesimo. La parabola dei tre anelli inaugurava
in modo clamoroso la logica etica kantiana della tolleranza.
Di qui, la nuova figura sociale della classe media che
aspira al Potere, lì dal lato religioso, qui dal lato politico. Ora, nel contesto
di una trama alquanto complessa, Friedrich rappresenta un alto borghese - il
Fiesco - che si oppone alla classe nobiliare rappresentata dai Doria e
soprattutto contro Giannettino, ultimo rampollo in odore di futuro tiranno, un
emulo di quel Catilina che Bodin aveva incoronato come il despota da uccidere.
Fiesco e i suoi epigoni si sollevano e di fronte ad un popolo imbelle che non
riesce a darsi coscienza della propria forza autonoma, ordiscono una congiura,
che però fallirà non solo per l'impreparazione dei partecipanti, non solo per i
conflitti ideologici e morali che li contrappongono, ma anche per quel silenzio
quasi approvativo del popolo, ancora un gregge privo di autocoscienza che solo
le future spinte romantiche riusciranno a rendere presenti in palcoscenico con
l'ulteriore passaggio veristico e naturalistico. Seguirà infatti la poetica di
Heine e poi Ibsen e Hauptmann, peraltro appena intravista nei primi drammi di
Pirandello.
Sull'edizione genovese che ha motivato questa nota non
entriamo nel merito perché non siamo stati per ora capaci a vederla dal vivo e
meno che mai in edizione teletrasmessa, complice la pandemia e la pochezza
intellettuale delle nostre televisioni, spesso assenti nel riprodurre oggi i
capolavori del teatro. Tuttavia, da notizie di stampa l'evento in esame appare
bene accolto dal pubblico e dalla critica: forse è mancata soltanto l'adesione
universalistica dell'opera, proiettata piuttosto alla località originale,
peraltro magnifica nella location specifica - la Cattedrale di Genova -
e nell'afflusso di popolo, tale da compensare quell'assenza attiva in
palcoscenico, che però Schiller nel proseguo della sua carriera drammaturgica,
recupererà nella Sposa di Messina del 1803, poco prima della morte
(1805). Qui, più moderatamente daremo un quadro della recezione di quest'opera
nella terra d'origine e in Italia, avvertendo che la storiografia letteraria ha
per quasi due secoli interpretato quest'opera come un semplice passaggio
intermedio, dal primo capolavoro che è I masnadieri, al successivo
impressionante dramma che è il Don Carlos, complice la mediazione di
Verdi. La storia critica di Schiller è caratterizzata da un apparente punto di
svolta: l'incontro con Goethe a Rudolstadt bel 1788 e la fruttuosissima
collaborazione fino alla fatale morte del drammaturgo. Di questa seconda vita
di Friedrich - e dell'amico Wolfgang! -
si è scritto in modo oceanico e qui lo spazio riservato per ora è
limitatissimo, onde rinviamo a successive indagini. Per ora, ci basta dire
quanto narra il consigliere d'appello Christian Körner, che lo
introdurrà in età avanzata fra i primi patrioti romantici, nonché suo
primo biografo e editore integrale (1812).
Schiller era di famiglia piccolo borghese in cui il padre da
ufficiale medico e cappellano protestante combatteva nell'esercito austriaco
durante la guerra di successione spagnola. Nato a Marbach am Neckar., allevato
da una madre di ispirazione pietista, viaggiò fra il 1717 e il 1759 fra Boemia,
Turingia e Wittemberg. Finalmente gli Schiller si fermarono a Stoccarda.
Giovane colto e gentile, fedele agli ideali religiosi materni sotto la guida
del pastore Moser; ebbe da ragazzo vocazione religiosa, ma a Salisburgo, alle
porte della locale Corte, nel 1768 fu fulminato dal Teatro e già ipotizzava
tragedie storiche. Il Duca locale peraltro istituì un'accademia giovanile per
la classe dirigente di studi militari e civili e medico-legali. E nel 1774
Friedrich vi entrò abbandonando con nostalgia gli studi ecclesiastici. Intanto,
leggeva Klopstock, Wieland e Lessing, ma la sua lettura preferita era quella di
Shakespeare, e di Calderon, che avranno come analogo tifoso von Platen negli
anni romantici a Würzburg fra il 1818 e il 1819.
Cosimo dei medici,
sarà il suo primo dramma storico (1780) e che poi riverserà nella famosissima
tragedia I masnadieri del 1782. Le storie di Plutarco, la
religione luterana e la Bibbia protestante, la filosofia di Kant e la storia
della medicina, in chiave filosofica secondo lo spirito dell'Illuminismo,
rimarranno fino alla morte sulla sua scrivania a Weimar, dove la sua casa ancora
oggi è sede di un pellegrinaggio di tutti coloro che lo ritengono il vero Padre
delle libertà per niente inferiore a Rousseau. Infatti, rispetto al ribellismo
del confratello svizzero, la sua arditezza scientifica e personale non era
minore, tanto ché nelle rigide caserme germaniche preferì la logica militarista
già maturata dal Grande Federico di Prussia. Non mancò neppure un certo
profetismo scientifico, perché la sua tesi di laurea in medicina ottenuta nel
1780 all'Accademia militare - sulla combinazione della natura animale con
quella spirituale dell'Uomo - non solo gli attirò le critiche delle scuole
illuministe che non accettavano questa equiparazione estranea alla comune
mentalità scientifica che vedeva il regno animale succube dello sperimentalismo
scientifico; ma lo si vide presto nominato medico militare in forza delle sue
brillanti capacità tecniche sanitarie che mise in atto nelle lunghe campagne
della guerra di Successione austriaca.
E proprio nel 1781 cominciò a scrivere
l'opera che lo lanciò nell'agone degli uomini liberi, uguali e fratelli, quei Masnadieri,
che il direttore del teatro di Mannheim, barone von Dalberg, lesse e fece
rappresentare con le lacrime agli occhi, apprezzando la bravura di un
giovanotto tanto esile e già malaticcio, quanto forte e sincero d'animo. Far
recitare davanti al pubblico borghese - ma anche dinanzi ai colti contadini che
avevano soltanto sentito delle imprese di Orlando e forse di Sigfrido -
un dramma di tradimenti, rapine e omicidi di banditi alla macchia, sembrò
innovativo e disdicevole ad un tempo, una rivoluzione estetica, che però gli
costò feroci sanzioni disciplinari e l'ordine del Granduca di limitarsi a fare
soltanto il medico. Poteva lo scrittore delle imprese delittuose di un Karl
Moor, poi pentito, ma dipinto come uno spregevole reo al padre dal fratello
Franz, tanto da meritare la diseredazione da tutta la successione nobiliare? L'immedesimazione
del giusto sofferente gli stava perfettamente. Di qui la fuga avventurosa
da Stoccarda, mentre il Duca riceveva Paolo di Russia e il suo rifugiarsi
presso la matura signora Wollzogen, conosciuta all'epoca dell'Accademia e forse
sua prima Musa, ma anche buona madre di famiglia, accolto come uno dei suoi
figli coetanei di Friedrich e anche loro allevati nella rigida e umana fede
pietista.
Qui scrive La congiura dei Fieschi a
Genova, dove dalla libertà morale e dal suo ravvedimento operoso molto
vicino alla morale cattolica, Schiller passò alle difficoltà machiavelliche
della libertà politica di un grande personaggio, che congiura per abbattere il
tiranno, novello Catilina diretto a ripristinare la Repubblica. Ma come Cesare,
non resiste alla tentazione del Potere e si fa tiranno per essere ucciso a sua
volta. Affabulazione che assillerà Robespierre e perfino Hitler che nel Mein
Kampf si arrovellava sul personaggio di Fiesco, temendone la medesima
sorte. E' noto che Schiller forzò la verità storica dei fatti, avvenuta nel 1547
durante la guerra fra Spagna e Francia per l'egemonia in Italia. Sulla scena,
la morte di Fiesco sarebbe stato un suicidio programmato dal tiranno Doria dopo
che fu accusato tradimento al momento delle rivolte, mentre le cronache
dell'epoca parlano di un incidente occasionale.
Malgrado Schiller e Dalberg avessero
manipolato i fatti in modo esteticamente accattivante, stavolta le contorsioni
della politica non piacquero. La fortuna iniziale del Fiesco fu inversamente
proporzionale rispetto a quella dei Masnadieri, perché a ogni pubblico
piace quello che si vuole vedere e nella lunga età del teatro borghese
illuminista tedesco i maneggi della politica non piacevano. Non solo la
Germania era ancora giovane per un dramma politico, ma anche perché il lungo
“pezzo” di Vernino, mentore di Fiesco, sulla libertà degli antichi e di quella
dei moderni - derivati dalle letture di Schiller sia di Costant che di Montesquieu
- sapeva troppo di repubblicanesimo francese, ideologia allergica al buon
borghese già inorridito dalle intemperanze giacobine ed egalitarie che facevano
capolino dalle campagne militari al oltre renane già in fermento
prerivoluzionario. L'insuccesso fu la molla che convinse Schiller ad
indugiare e a trasferire l'impulso rivoluzionario nel successivo Don Carlos
e poi a ritornare sul profilo libertario individuale, con Maria Stuarda,
salvo a continuare alla fine della sua vita con La sposa di Messina e
con l'incompleto Demetrio, opera in cui la figura del coro rappresenterà
un nuovo soggetto titolare di quelle libertà sociali che il Romanticismo politico
amerà di più. Infatti, nel secolo che iniziava si assisterà in Germania ad una
scissione estetica su Schiller fra critica e recezione dei registi più
innovatori: per buona parte del diciannovesimo e del 20° secolo, non solo il
più che amico Goethe, ma anche tutta la scuola romantica lo osannò come
campione delle libertà civili e fece dei suoi Don Carlos e Maria
Stuarda i massimi vertici del “bello” e del tragico, tanto che per esempio
fu proprio un grande regista come Jürgen Fehling a riprendere nello
Staatstheater di Berlino nel 1935 il Don Carlos, utilizzando molto
materiale dialogico del Fiesco, seguendo la volontà di Schiller che negli
appunti di scena li volle nelle prime rappresentazioni a Dresda nel 1785.
Inoltre Otto Brahm, in polemica col Nietzsche, aveva dato dei Masnadieri
un'edizione storica ricordata dal Piscator e dallo Reinhardt a Berlino durante
gli anni di Weimar. Questa classe di registi percepì il conflitto latente in
Schiller fra l'idea di libertà personale e quella di interesse collettivo che
impediva nelle forme storiche e giuridiche il suo esercizio. Vale a dire le
difficoltà della volontà umana nella lotta contro il Destino. Di qui
il legame stretto con la morale kantiana che troverebbe nell'arte il luogo
ideologico dalla mediazione fra etica ed estetica. Tale lettura volontaristica
fu però criticata da Nietzsche, che non riusciva a concepire la vitalità di
questo suo messaggio e che in “Ecce Homo” la derise, perché impossibile da
conciliare nella società materialista priva di un Dio che ci potesse salvare.
Tuttavia le critiche spiritualiste riapparse in George non scalfirono nella
Germania del primo dopoguerra la vitalità poetica ed etica di Schiller. Anzi
prima di morire nel 1955, è l'ultimo tema che trattò, Thomas Mann. Questi gli
ridiede vigore critico, quando ne sottolineò la formidabile forza creativa,
specialmente citando la più matura tragedia storica Wallenstein - un
eroe non lontano del Fiesco per la domanda di libertà personale – e che gli fa
dire sul punto di morte che il gioco con il destino non gli è riuscito
perché ha voluto superare il limite di potere che il destino non poteva
concedere: essere nella storia, ma non fare la storia, cioè partecipare
del mondo senza poterlo creare…
Tragedia che affligge pirandellianeamente la vita dell'Uomo
e che questi può sperare ma mai ottenere, come accadrà proprio a Mann nelle sue
peripezie di esule dalla sua patria. Mentre le conclusioni di Mann lasciavano
aperta la discussione sul messaggio esistenziale di Schiller; la critica di
Croce e di Mittner, sulla fortuna di Schiller in Italia, non demordeva da un
punto essenziale: partendo proprio dall'infortunio estetico che avvolse il
Fiesco subito dopo l'esordio del dramma a Mannheim. Già nell'800, Mazzini
aveva notato come il personaggio di Fiesco era ben diverso dal Karl dei Masnadieri:
il primo era un Cesare Borgia a tutti gli effetti, un adepto della prassi
machiavellica, subdolo e falso esteta e immorale. L'altro era stato un puro e
povero sfortunato, vittima del Destino.
Che forse qui tale cappa era stata perforata? La volontà
umana forse era in grado di autocorreggersi? Insomma, sembrò a Mazzini che il
secondo fosse meno onesto e magari abile politico e un feroce mostro
pericolosissimo. Rimaneva in lui una personalità bipolare che della libertà
agognata faceva mostra solo per i suoi interessi più bassi. E quando Croce
lesse il Wallenstein in parallelo ai Masnadieri - perché vederlo
dal vivo in italiano gli era impossibile perché mai rappresentato - parlò del
personaggio di Fiesco in senso amletico, dove i chiaroscuri del suo agire non
raggiungevano mai una decisione inevitabile, ma si limitavano a maneggi
politici autoreferenziali e dunque privi di ogni sua reale ricerca della
libertà . Il massimo critico letterario italiano del primo novecento vedeva
dietro a questo dramma la incapacità di una classe dirigente a regolare il
processo democratico, giacché le mancava la concreta capacità di difendere una
Costituzione e soprattutto faceva della politica una scuola per garantire il
suo costante precipitare nella corruzione e nella autocrazia. Considerazioni
che oggi ci verrebbero utili nella rilettura di questo Fiesco, ripescato
in una crisi della democrazia parlamentare come quella attuale, dove la
soluzione di ritornare allo Spirito Repubblicano del secondo dopoguerra non
appare vicina.
Giuseppe Moscatt
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