sabato 14 gennaio 2023

Nietzsche 58. Euripide, la morte della tragedia e il suo seguito nella forma degenerata della Commedia nuova.

 

 

Capitolo XI  (pp. 75-82)

La tragedia greca morì suicida e alla sua morte si produsse un enorme vuoto. Per il mondo ellenico risuonò il lamento sulla morte della tragedia. Aristofane, nelle Rane del 405,  fa scendere Dioniso nell’Ade per riportare sulla terra uno dei tre grandi. Alla tragedia succedette la commedia attica nuova  che aveva i lineamenti della madre nel momento della sua lotta con la morte. La commedia di Filemone, Difilo e Menandro è la forma degenerata della tragedia. Gli autori di questa commedia veneravano Euripide al punto che Filemone (360-265) si sarebbe impiccato subito per poter visitare Euripide agli Inferi. Euripide insegnò a questi suoi epigoni a portare lo spettatore sulla scena, a mostrare con realismo la maschera fedele della realtà. Euripide porta sul palcoscenico l’uomo della vita quotidiana; lo specchio che prima mostrava solo i tratti grandi e arditi faceva ora vedere anche le linee non riuscite della natura. Odisseo, il tipico greco dell’arte antica, si abbassò nella figura del greculo che poi divenne nella commedia latina lo schiavo bonario e scaltro.

Leopardi nello Zibaldone  (pp. 41-42) indica, insieme con altri testi, un frammento di Filemone come esempio del fatto che "il ridicolo degli antichi comici...consistea principalmente nelle cose, e il moderno nelle parole...quello degli antichi era veramente sostanzioso, esprimeva sempre e mettea sotto gli occhi per dir così un corpo di ridicolo, e i moderni mettono un'ombra uno spirito un vento un soffio un fumo. Quello empieva di riso, questo appena lo fa gustare e sorridere, quello era solido, questo fugace...quel de' greci e latini è solido, stabile, sodo, consiste in cose meno sfuggevoli, vane, aeriformi, come quando Luciano nel Zeu;" ejlegcovmeno" paragona gli Dei sospesi al fuso della Parca ai pesciolini sospesi alla canna del pescatore. Ed erano i gr. e lat. inventori acerrimi e solertissimi di queste immagini, di queste fonti di ridicolo e ne trovavano delle così recondite, e nel tempo stesso così feconde di riso ch'è incredibile come in quel frammento di Filemone comico".

Leopardi si riferisce al fr. 79 Kock, vv. 10-16 dello Stratiwvth", dove Filemone stabilisce un paragone tra un convitato che scappa inseguito dagli altri dopo avere arraffato un boccone ghiotto, e una gallina che fugge tenendo nel becco qualche cosa di troppo grande per essere inghiottita, e viene incalzata da un'altra che vuole strapparle il cibo. Insomma "quel motteggiare era più consistente più corputo, e con più cose che non il moderno".


 

 

 Euripide nelle Rane di Aristofane  ascrive a proprio merito il fatto di avere liberato l’arte tragica dalla sua pomposa corpulenza.

Il personaggio Euripide battibecca con il personaggio Eschilo e dice di avere ricevuto da lui th;n tevcnhn l’arte tragica oijdou`san gonfiata dalle vanterie e da parole pesanti (uJpo; kompasmavtwn kai; rJhmavtwn ejpacqw`n, 940) e di averla snellita e di averle tolto il peso (i[scnana me;n prwvtiston aujth;n kai; to; bavro~ ajfei`lon, 941) con parolette e discussioni (ejpullivoi~ kai; peripavtoi~, 941)

Inoltre Euripide si vanta di avere insegnato alla gente a chiacchierare (lalei`n ejdivdaxa, 954) poi rivendica l’introduzione di regole sottili leptw`n te kanovnwn eijsbolav~ e la rifinitura di parole (ejpw`n te gwniasmouv~. 956), poi ha insegnato a pensare (noei`n), vedere (oJra`n) capire (xunivenai) meditare (strevfein) amare (ejra`n),  ordire (tevcnazein), sospettare male (kavc j uJpotopei`sqai), considerare tutto (perinoei`n a[panta) 957-958

Insomma, continua Euripide, portavo sulla scena cose di casa (oijkei`a pravgmat j , quelle che usiano oi|~ crwvmeq j, 959).

Cicerone nelle Tusculanae Disputationes scrive che ab antiqua philosophia numeri motusque tractabantur,  e l’origine e la dissoluzione delle cose e grandezze, distanze, orbite delle stelle et cuncta caelestia,  tutti i fenomeni celesti. Questo usque ad Socratem.

  Socrates autem primus philosophiam devocavit e caelo et in urbibus collocavit et
in domus etiam introduxit et coegit de vita et moribus rebusque bonis et malis quaerere
 (V, 4, 10).

 

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A. W. Schlegel come Aristofane incolpa Euripide per questo realismo che considera corruttore. Gli sviamenti di Euripide sono analoghi a quelli del nostro secolo: le tragedie di Euripide”ammolliscono gli animi per via di  nozioni dolci e tenere in apparenza, ma in realtà corruttrici, e tendono in realtà a produrre degli increduli nel fatto della morale” (p. 100)

Schlegel pensa che Platone criticando i poeti formulasse accuse che devono applicarsi soprattutto a Euripide i cui versi “ abbandonano gli uomini all’impero delle passioni e li ammolliscono facendo prorompere gli eroi in lamenti smoderati” (p. 101 trad. it il Melangolo. Giovanni Gherardini)

“Egli volle gratificare i suoi contemporanei trasportando nei secoli eroici gli usi popolareschi più moderni (p. 104)…Si rese familiari i sofismi delle passioni, per mezzo dei quali si riesce a far comparire bella ogni cosa.

 Si è più volte citato questo verso di Euripide, in cui pare sia stata espressa la restrizione mentale (direzione dell’intenzione, equivocazione) de’ Gesuiti: “Giurava il labro ma taceva il core” (p. 195). E’ Ippolito che dice alla nutrice di Fedra hj glw`ss j ojmwvmoc  j, hJ de; frh;n ajnwvmoto~ (Ippolito. 612)

 

Torniamo a Nietzsche.

“In sostanza lo spettatore vedeva e sentiva ora sulla scena euripidea il suo sosia” (p. 77). Euripide, quale personaggio delle Rane, si compiace di avere insegnato allo spettatore a discutere “con le più furbe sofistificazioni”.

Con questo repentino capovolgimento del linguaggio pubblico egli rese possibile la commedia nuova.

Dalla scena parlava ora la mediocrità cittadina. L’aristofanesco Euripide arriva a vantarsene. Se tutta la massa filosofava era merito suo. Euripide era diventato il maestro e il regista della commedia nuova che è uno spettacolo di tipo scacchistico con il suo continuo trionfo della furberia e della scaltrezza (p. 78).

 

A proposito di “spettacolo di tipo scacchistico” cfr. A game of chess, la seconda  parte di The waste land di Eliot dove il canto dell’usignolo non evoca più il mito della metamorfosi di Filomela by the barbarous king-so rudely forced, e sebbene quel canto continui a risuonare, a riempire i deserti, il mondo sente solo jug jug con dirty ears (vv. 99-103).

 

I poeti tragici erano morti e con loro la tragedia.

Per la tarda antichità vale il noto epitaffio: “in vecchiaia frivolo e capriccioso”.

 Predomina ora il quinto stato: quello dello schiavo e la serenità greca è la serenità dello schiavo che non sa aspirare a nulla di grande. Al primo cristianesimo questo vile appagarsi del comodo godimento parve spregevole e sembrò il vero e proprio sentimento anticristiano.

 Questa serenità dell’ellenismo è una serenità da vecchi e da schiavi (cfr. la scelta di Odisseo nel mito di Er della Repubblica platonica).

 Ma Euripide in vita non ebbe successo, diversamente da Eschilo e soprattutto da Sofocle. Euripide non rispettò il pubblico ateniese, a parte due spettatori quali giudici competenti e maestri di tutta la sua arte.

 Uno di questi è Euripide stesso, Euripide quale pensatore , non come poeta. Egli come critico trovava in ogni verso di Eschilo qualcosa di incommensurabile, una infinità dello sfondo. Le figure avevano dietro di sé come una coda di cometa. Nel linguaggio eschilèo egli trovava troppa pompa per situazioni semplici, troppe metafore[1] e forzature rispetto alla semplicità dei caratteri. Da spettatore confessò a se stesso di non capire i suoi grandi predecessori. Guardandosi intorno Euripide vide l’altro spettatore che non capiva la tragedia, Socrate, e in lega con costui iniziò l’immane opera contro l’arte di Eschilo e Sofocle.

Bologna 14 gennaio 2022

giovanni ghiselli

 

Sempre1311795



[1] Nei Sette contro Tebe il coro è formato da ragazze tebane che nella Parodo lanciano grida di spavento, non prive del resto di immagini poetiche:

"attraverso le mascelle equine/le briglie arpeggiano strage"(vv.122-123).

 

1 commento:

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