Cenni sulla metodologia dell’insegnamento che potranno essere sviluppati durante il corso.
All’età tragica e artistica che giustifica la vita umana con l'illusione della bellezza succede la civiltà socratica che ostile all’istinto, coltiva il terreno della razionalità e della conoscenza, e produce quella cultura alessandrina che ha imbrigliato il mondo da allora in avanti: “Tutto il mondo moderno è preso nella rete della cultura alessandrina e trova il suo ideale nell’uomo teoretico, che è dotato di grandissime forze conoscitive e lavora al servizio della scienza, e di cui Socrate è il prototipo e il capostipite”[1]. Una cultura, devo dire, alla quale Euripide non è organico, non quando fa cantare al coro delle Baccanti nel primo stasimo della sua ultima tragedia "to; sofo;n d j ouj sofiva" (Baccanti , vv. 395), il sapere non è sapienza.
“Le università non sono scuole di saggezza, sono scuole di sapere, ma tacitamente postulano come conosciuto ciò che esse non possono insegnare: la capacità di osservare, la stupefazione goethiana, e i loro spiriti migliori non conoscono altra finalità più nobile che costituire un altro gradino perché Goethe e altri nuovi saggi si manifestino di nuovo"[2].
Seneca sostiene che la sapienza è l’unica libertà: “Sapientia quae sola libertas est”[3].
Il maestro di Nerone probabilmente identifica il sapere quale to; sofovn euripideo con tante delle quisquilie che si insegnano a scuola, da sempre. Anche Seneca disapprova un approccio devitalizzante ai testi classici: nel De brevitate vitae[4] il filosofo sconsiglia di accorciare la vita perdendo tempo in occupazioni che non giovano allo spirito: "Graecorum iste morbus fuit quaerere quem numerum Ulixes remigum habuisset, prior scripta esset Ilias an Odyssia, praeterea an eiusdem esset auctoris, alia deinceps huius notae, quae sive contineas nihil tacitam conscientiam iuvant, sive proferas non doctior videaris sed molestior" (13) questa fu una malattia dei Greci, cercare quale numero di rematori avesse avuto Ulisse, se sia stata scritta prima l'Iliade o l'Odissea, inoltre se siano del medesimo autore, e successivamente altre notizie di questo tipo, nozioni che se le tieni per te non giovano per niente al puro fatto di saperle, se le tiri fuori, non sembri più dotto ma più pedante.
Il classicista Quintiliano vuole escludere l'ombra, la solitudine e la muffa dall'educazione del ragazzo che deve diventare un buon oratore:"Ante omnia futurus orator, cui in maxima celebritate et in media rei publicae luce vivendum est, adsuescat iam a tenero non reformidare homines neque illa solitaria et velut umbratica vita pallescere. Excitanda mens est et adtollenda semper est, quae in eiusmodi secretis aut languescit et quendam velut in opaco situm ducit, aut contra tumescit inani persuasione; necesse est enim nimium tribuat sibi, qui se nemini comparat "[5] , prima di tutto il futuro oratore che deve vivere frequentando moltissime persone, e in mezzo alla luce della politica, si abitui fin da ragazzo a non temere gli uomini e a non impallidire in quella vita solitaria e come umbratile. Va tenuta sveglia e sempre innalzata la mente che in solitudini di tal fatta o si infiacchisce, e nella tenebra prende un certo puzzo di muffa, o al contrario si gonfia di vuoti convincimenti: è infatti inevitabile che attribuisca troppo a se stesso chi non si confronta con nessuno.
Il maestro pallido, ossia tedioso, desta una diffidenza o addirittura una ripugnanza istintiva, anche fisica nel giovane discepolo.
Le Baccanti sono l’ultima tragedia di Euripide, ma la debolezza del sapere e dei progetti della ragione rispetto alla Necessità[6] viene denunciata fin dalle prime tragedie.
Non aveva tutti i torti dunque il Wilamowitz quando in Filologia dell’avvenire scrisse che la teoria di Nietzsche sui rapporti tra Euripide e Socrate era infondata, e non solo “perché Socrate aveva quattordici anni quando Euripide era nel pieno della maturità”[7].
Euripide non è il poeta del razionalismo greco.
Medea individua nel suo animo un conflitto tra la passione furente e i ragionamenti, quindi comprende che l'emotività, sebbene sia causa dei massimi mali, per gli uomini è più forte dei suoi propositi:" Kai; manqavnw me;n oi\\\a dra'n mevllw kakav,-qumo;" de; kreivsswn tw'n ejmw'n bouleumavtwn,-o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n brotoi'"" ( Medea, vv. 1078-1080), capisco quale abominio sto per compiere, ma più forte dei miei consigli è la passione, che è causa dei mali più grandi per i mortali", dirà la furente nel quinto episodio dopo avere preso la decisione folle di uccidere i figli .
Un'eco lontana di questa situazione si trova nelle Metamorfosi di Ovidio dove Medea cerca di contrastare, senza successo, la passione per Giasone " et luctata diu, postquam ratione furorem/ vincere non poterat, "Frustra, Medea, repugnas." (VII, vv. 10-11), e dopo avere combattuto a lungo, dacché non poteva vincere la follia amorosa con la ragione, si disse "ti opponi invano, Medea".
Nelle Heroides di Ovidio, Medea alla fine della sua Epistula Iasoni dichiara:"Quo feret ira sequar. Facti fortasse pigebit " (Heroides , XII, 211), andrò dove mi porterà la rabbia. Forse mi pentirò del misfatto. Un pentimento presofferto ma non evitabile dal momento che la parte emotiva prevale su quella razionale e pure su quella etica.
Un'altra confutazione della supposta sintonia e complicità tra Euripide e Socrate[8] la fornisce Fedra quando nell'Ippolito di Euripide dice:"bisogna considerare questo:/il bene lo conosciamo e riconosciamo,/ma non lo costruiamo nella fatica (oujk ejkponou'men: il bene topicamente costa povno" , fatica) , alcuni per infingardaggine (ajrgiva" u{po),/ alcuni anteponendogli qualche altro piacere./ E sono molti i piaceri della vita:/lunghe conversazioni, l'ozio, diletto cattivo[9], (scolhv, terpno;n kakovn) l'irrisolutezza (aijdwv" te, una forma brutta di aijdwv" ) "(vv.379-385).
" Conosciamo il bene, ma non lo facciamo”, diceva la Fedra di Euripide. Questa conoscenza Socrate cerca di rendere più solida, per conferirle così la forza dell'obbligatorietà"[10]. Una forza che Fedra non possiede.
"Euripide… non fu precisamente il razionalistico "poeta dell'illuminismo greco". Fu il poeta che meglio di ogni altro seppe ascoltare i moti più segreti del cuore umano e avvertì in tutta la loro gravità i conflitti che ora ne scaturivano. Il desiderio di vendetta di Medea emerge dalle insondabili profondità della sua anima, e appena arriva alla soglia della coscienza ha inizio nell'intimo del personaggio una dura, inesorabile lotta, in cui la ragione e l'amore materno soccombono alla passionalità del qumov". La vita ha insegnato ad Euripide che noi abbiamo in genere chiara coscienza del bene, ma non lo attuiamo perché gli impulsi irrazionali sono più forti"[11].
La Fedra di Seneca riprende dall'Ippolito di Euripide la coscienza della dicotomia tra il sapere e il fare:"Quae memoras, scio/vera esse, nutrix; sed furor cogit sequi peiora. Vadit animus in praeceps sciens,/remeatque, frustra sana consilia adpetens" (vv. 178-181), so che quanto mi rammenti è vero, nutrice; ma il furore mi costringe a seguire il peggio. Il mio animo si avvia al precipizio e lo sa, poi torna a cercare invano sani propositi.
Il furor è più forte della ratio: è un dio: Quid ratio possit? Vicit ac regnat furor” (Fedra, v. 184).
Nietzsche: “Tutti gli uomini grandi furono grandi per l’intensità dei loro affetti”[12].
A proposito di questa “distruzione della ragione” sentiamo Remo Bodei
“In Medea e Fedra si assiste a un suicidio della ragione che desidera soccombere sprofondando nell’abisso dei suoi stessi conflitti , a uno smarrimento e a una rivolta della vita contro se stessa[13]: un’attitudine diversa da quella del saggio stoico che si uccide per mantenere intatto il logos dinanzi alle minacce esterne alla propria indipendenza.
Seneca confonde così nuovamente (e intenzionalmente) quella linea divisoria tra filosofia e tragedia che Platone aveva tracciato nel tentativo di rendere razionalmente decidibili quei conflitti che nel dramma dovevano restare costitutivamente irrisolti. In Platone la gerarchia dell’anima e della città spezza infatti il conflitto tragico, in quanto la ragione innalza un muro invalicabile che la separa (più che dal qumoeidev" per sua natura educabile e generoso, il quale scompare peraltro nelle Leggi) dall’impulso incoercibile dell’ ejpiqumhtikovn. Una volta neutralizzato il ‘cavallo nero’, il logos-in quanto auriga- riesce a guidare l’anima verso il meglio e a sciogliere i nodi del conflitto, perché, in un’etica in cui il male si compie soltanto per ignoranza, la conoscenza del bene irrobustisce la capacità di orientarsi verso di esso e indebolisce, parallelamente, l’akrasia, l’incontinenza nei confronti dei desideri. La tragedia rende invece impotente il logos, giacché non contempla alcuna via d’uscita razionale alla lotta tra contrastanti diritti e impulsi. Forse proprio in opposizione all’intellettualismo etico di Socrate, Euripide aveva fatto dire a Medea: “Io so quanto grande è il male che sto per compiere, ma è più grande la mia passione” (Eurip. Med., 1078-1079)”[14].
Sentiamo ancora il compianto e rimpianto Remo Bodei: “L’ira sta in genere alla radice dell’accecameno tragico (come nel caso di Edipo e di Creonte in Sofocle), perché produce la distorsione e l’ignoranza della realtà. Ma Euripide, andando contro le posizioni del suo amico Socrate, che riteneva si compisse il male solo per ignoranza del bene, mostra invece come, pur conoscendo ciò che è bene, non necessariamente lo si sceglie (Ovidio nelle Metamorfosi, VII, v. 20, riassumerà efficacemente questa tesi con le parole Video meliora proboque, deteriora sequor : “Vedo il meglio e l’approvo, seguo il peggio”)”[15]. E’ Medea che parla a se stessa.
L’ umbraticus doctor di Petronio e i dotti di Nietzsche.
Petronio contrappone l' umbraticus doctor deleterio ai grandi tragici:" cum Sophocles aut Euripides invenerunt[16] verba quibus deberent loqui, nondum umbraticus doctor ingenia deleverat "[17] quando Sofocle e Euripide trovarono le parole con le quali dovevano parlare, non c'era ancora un erudito cresciuto nell'ombra a scempiare gli ingegni. Parla Encolpio.
L’umbraticus doctor è oltretutto un individuo tronfio e ottuso che non ascolta.
Non dobbiamo dimenticare che l'insegnamento e l'apprendimento sono interdipendenti: "homines, dum docent discunt "[18] mentre si insegna si impara. Dagli studenti ho imparato e imparerò sempre molto: "Quaeris quid doceam? etiam seni esse discendum"[19], vuoi sapere che cosa insegno? che anche un vecchio deve imparare.
Dobbiamo dirlo ai nostri studenti: “Si ripaga male un maestro, se si rimane sempre scolari”[20]. “Nietzsche non lo rimase con Wagner (né) con Scopenhauer), andò oltre, guardò contro e se ne allontanò, tuttavia proseguendo sulla stessa strada su cui il maestro l’aveva incamminato”[21].
Tutti gli insegnanti, anzi tutte le persone per bene, non dovrebbero mai smettere di imparare :"semper homo bonus tiro est ", l'uomo onesto fa tirocinio per tutta la vita, ha scritto Marziale[22] (12, 51, 2).
Il maestro che ha canonizzato se stesso, ha firmato il proprio atto di morte.
Dai nostri studenti noi possiamo imparare molto su noi stessi, e dobbiamo imparare su di loro, mentre “ci curano l’anima[23]”
Attraverso gli autori il giovane acquista strumenti per scandagliare le profondità della sua anima: "Scuola della scoperta di sé, in cui l'adolescente può riconoscere la sua vita soggettiva attraverso quella dei personaggi di romanzi o di film. Può scoprire la rivelazione delle proprie aspirazioni, problemi, verità, non solo un libro che espone idee, ma anche , e, talvolta più profondamente, in un poema o in un romanzo!"[24].
“Il dotto, che in fondo non fa che “compulsare” libri-circa duecento al giorno per il filologo medio-finisce col perdere completamente la capacità di pensare per conto suo. Se non compulsa non pensa…Il dotto-un décadent-. L’ho visto con i miei occhi: nature dotate, ricche e libere, già a trent’anni tutti “morti dal leggere”, ridotti come fiammiferi, che si sfregano perché facciano delle scintille- dei “pensieri”…bene, per me questo è vizioso!”[25].
“Il filologo è colui che sa leggere e scrivere, il poeta colui che…doveva “dettare”, perché non sa né leggere né scrivere. Da questa opposizione tra dotto nella letteratura e nella scrittura e poeta si possono dedurre molte cose importanti”[26].
Nel capitolo Dei dotti Zarathustra associa l’ombra alla “casa dei dotti” ai quali si contrappone: “Io sono troppo ardente e riarso dai miei stessi pensieri: spesso mi si mozza il fiato. E allora bisogna che fugga all’aperto, via dal chiuso delle stanze polverose. Loro invece siedono freddi nell’ombra fredda: in tutto non vogliono essere che spettatori e si guardano bene dal mettersi a sedere dove il sole arde i gradini. Simili a quelli che in mezzo alla strada guardano a bocca spalancata i passanti, essi pure aspettano e guardano a bocca spalancata i pensieri che altri hanno pensato”[27].
Quindi : “Guardatevi anche dai dotti! Essi vi odiano: perché sono sterili! Essi hanno occhi freddi e asciutti, davanti a loro ogni uccello giace spennato”[28].
“Di fronte al genio, cioè ad un essere che crea o che dà alla luce…il dotto, l’uomo medio della scienza, ha sempre qualcosa della vecchia zitella: in quanto, come quest’ultima, non ha la minima idea di queste due funzioni umane, che sono le più preziose…il suo occhio assomiglia allora ad un lago liscio e odioso, la cui onda non si increspa a nessun entusiasmo, a nessuna simpatia. Ma le cose peggiori di cui un dotto è capace, gli provengono dall’istinto della mediocrità, propria della sua razza; da quel gesuitismo della mediocrità che incosciamente lavora alla demolizione dell’uomo eccezionale e tende a spezzare ogni arco teso o, meglio ancora, ad allentarne la tensione.”[29].
Dotti sono i filologi: una razza disprezzata da Nietzsche: “L’antichità è stata scoperta in tutte le cose principali da artisti, uomini politici e filosofi, non da filologi, e ciò fino al giorno d’oggi”[30].
“I filologi non sono se non liceali invecchiati”[31]. A volte addirittura dei ginnasiali ammuffiti
“Il nostro assurdo mondo di educatori (dominato dallo schema regolativo di “un utile servitore dello Stato”) crede di cavarsela con l’”istruzione”, con l’ammaestramento del cervello; non gli viene neanche in mente l’idea che occorra dapprima qualcos’altro- educazione della forza di volontà; si fanno esami su tutto, ma non sull’essenziale: se si sappia volere”[32].
Bologna 7 gennaio 2022 ore 10, 47
giovanni ghiselli
Sempre1309168
[1] La nascita della tragedia, capitolo 18.
[2]H. Hesse, La bellezza della farfalla , in Hesse L'arte dell'ozio , pp. 401-402.
[3] Seneca, Ep., 37, 4.
[4] Del 49 ca d. C. La brevità della vita umana ha dato parecchio da dire agli scrittori e ai loro personaggi:"Scostatevi, vacche, che la vita è breve", gridava Aureliano secondo in Cent'anni di solitudine di G. G. Marquez (p. 202).
[5] Institutio oratoria I, 2, 18.
[6] Cfr.Alcesti, 966.
[7] S. Giametta, Op. cit., p. 81.
[8] Il quale nell'opera di Platone sostiene che facciamo il male per ignoranza del bene, e, se solo conosciamo il bene. non possiamo fare il male.
[9] Il piacere dell'ozio come sirena che distoglie dal fare cose egregie è denunciato anche da Tacito nell'Agricola:"subit quippe etiam ipsius inertiae dulcedo, et invisa primo desidia postremo amatur " (3), infatti si insinua anche il piacere della stessa passività, e alla fine si ama l'accidia dapprima odiosa.
L'ozio che fa male si trova pure nel carme 51 di Catullo:"Otium, Catulle, tibi molestum est (v.13), lo star senza far niente ti fa male, Catullo.
[10] Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo , p. 186.
[11] M. Pohlenz, L'uomo greco, p. 624.
[12] Nietzsche, Frammenti postumi 1881 (109).
[13] Alla nutrice che la supplica di moderare “l’impulso di un cuore senza freni” e l’eccesso dei suoi sentimenti (Modera, alumna, mentis effrenae impetus,/animos coerce) e ad allontanare da sé i progetti di suicidio, anche se non è facile tornare alla vita dopo simili turbamenti, Fedra replica dicendo che “non c’è modo di impedire la morte, se chi ha deciso ha il dovere di morire” (cfr. Phaedra, 255 sgg.)
[14] Remo Bodei, Geometria delle passioni, p. 231.
[15] Remo Bodei, Ira, pp. 84-85
[16] Invenerunt e il successivo deberent significano da una parte inventiva e fantasia, dall'altra la non meno necessaria disciplina che più avanti infatti viene rimpianta.
[17]Satyricon, 2.
[18] Seneca, Epist., 7, 8.
[19] Seneca, Epist., 76, 3.
[20] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Della virtù che dona, 3.
[21] S. Giametta, Introduzione a Nietzsche, p. 260.
[22] 40ca- 104 d. C.
[23] Dostoevkij, L’idiota, p. 84.
[24] E. Morin, La testa ben fatta, p. 46
[25] Ecce homo, perché sono così accorto, 8.
[26] Frammenti postumi 1876 (23).
[27] Così parlò Zarathustra II, Dei dotti .
[28] Così parlò Zarathustra IV, Dell’uomo supeiore , 8.
[29] Di là dal bene e dal male, Noi dotti, 206.
[30] Frammenti postumi ottobre 1876 (4).
[31] Op. cit (6)
[32] Frammenti postumi, autunno 1887, 165
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