lunedì 30 gennaio 2023

Polibio V. Sommario commentato dei libri VII- XI


 

Dei libri successivi, giunti frammentari, indico gli avvenimenti più importanti. Il VII  contiene i fatti del 216-215 con l'alleanza tra Cartagine e Siracusa e quella tra Annibale e Filippo V.

 

L'VIII libro ribadisce la necessità di una storia universale, la sola che può dare una visione d'insieme e la comprensione di come la Fortuna abbia realizzato l'opera più sorprendente dei nostri giorni, cioè avere condotto sotto un unico potere e dominio tutte le parti conosciute della terra ("tou'to d j e[sti to; pavnta ta; gnwrizovmena mevrh th'" oijkoumevnh" uJpo; mivan ajrch;n kai; dunasteivan ajgagei'n", VIII, 2, 4). Il fatto più importante è la conquista di Siracusa da parte di Marcello (212 a. C.) dopo l'assedio e la  difesa strenua ed efficace grazie alle macchine di Archimede.

Questa parte attribuisce grande importanza alla sorte che compì l’opera più imprevedibile dei nostri tempi- to; paradoxovtaton kaqj hJma`~ e[rgon suneteclese- quindi la costituzione ha contribuito ma la tuvch ha compiuto. Quanto agli eventi che si realizzano in maniera inaspettata cfr. la conclusione dell'Alcesti,  della Medea, dell'Andromaca , dell'Elena e delle Baccanti

Questi sono gli ultimi versi della Medea

Coro

Di molti casi Zeus è dispensatore in Olimpo

e molti eventi in modo insperato compiono gli dèi;

e i fatti aspettati non vennero portati a compimento,

mentre per quelli inaspettati un dio trovò la via.

Così è andata a finire questa azione  (vv. 1415-1419)

Compaiono con poche variazioni nelle altre 4 tragedie  di Euipide menzionate sopra

 

In queste Storie di Polibio, Annibale prima della battaglia di Zama (202 a. C.) parla a Scipione cercando un accordo: io ho sperimentato come la tuvch sia mutevole, gli dice, e faccia pendere la bilancia alternatamente da una parte o dall’altra kaqavper eij nhpivoi~ paisi; crwmevnh (15, 6, 8), come se trattasse con dei bambini infanti.

Nella Storia di Tito Livio, Lucio Emilio Paolo, dopo avere sconfitto Perseo, l’ultimo re di Macedonia, nella battaglia di Pidna (168 a. C.) indica il sovrano umiliato e depresso alle persone circostanti e: “Exemplum insigne cernitis”, inquit, “mutationis rerum humanarum. Vobis hoc precipue dico, iuvenes. Ideo in secundis rebus nihil in quemquam superbe ac violenter consumere decet nec presenti credere fortunae, cum, quid vesper ferat, incertum sit. Is demum vir erit, cuius animum neque prosperae res, flatu suo, efferent, nec adversae infringent” (Ab urbe condita, XLV 8, 6-7), vedete, disse un esempio evidente del mutare delle vicende umane. Lo dico soprattutto a voi, giovani. Perciò nel successo non conviene procedere con arroganza e violenza contro nessuno, né affidarsi alla fortuna del momento, poiché, non è sicuro che cosa ci porti la sera. Sarà un uomo insomma colui il cui animo non innalzerà con il suo soffio, il successo, né l’insuccesso abbatterà. 

 

 Il IX libro inizia con due capitoli metodologici: Polibio dichiara di sapere bene che la sua opera presenta una certa secchezza di stile ("aujsthrovn ti" IX, 1, 2) e potrà ottenere l'approvazione di una sola classe di lettori: non dei dilettanti che cercano storie genealogiche, nè di coloro che amano i racconti straordinari come quelli che trattano di colonie, fondazione di città e rapporti di parentela. La sua storia  invece è prammatica, ossia tratta azioni politiche, narra avvenimenti contemporanei, e mira non tanto allo svago dei lettori quanto all'utilità di quanti vogliono riflettere seriamente ("hJmei'" oujc ou{tw" th'" tevryew" stocazovmenoi tw'n ajnagnwsomevnwn wJ" th'" wjfeleiva" tw'n prosecovntwn" IX, 2, 6).

 

A proposito Canfora osserva:" Non trascura neanche la metodologia storica. Qui gli giova Tucidide, bersaglio frequente della sua imitazione: come ad esempio nel proemio al IX libro (2-7), dove riprende le parole ed i concetti con cui Tucidide 'prevedeva' (I, 22, 4) l'insuccesso nell'immediato della propria opera"[1].

 

I fatti notevoli di questo IX libro sono la marcia di Annibale su Roma e il sacco di Siracusa. Viene descritto il carattere di Annibale, che aveva fama di avaro e di crudele, ma, commenta Polibio, è difficile pronunciarsi circa la sua vera indole, perché bisogna tenere conto sia degli amici, uno dei quali lo spingeva ad abituare le sue truppe a mangiare carne umana, sia della pressione delle circostanze. Notevole è l'osservazione che fa dipendere il carattere della città da quello dei suoi capi: ai tempi di Aristide e Pericle, Atene era generosa e meritava lode, sotto il governo di Cleone e Carete era crudele e degna di biasimo: ne deriva che il comportamento della città cambia con il variare di quello dei governanti ("w{ste kai; tw'n povlewn e[qh tai'" tw'n proestwvtwn diaforai'" summetapivptein", IX, 23, 8).  Interessante è anche la descrizione della città  di Agrigento("hJ de; tw'n jAkragantivnwn povli"")  che si distingue per la posizione naturale e soprattutto la bellezza degli edifici ("kata; to; kavllo" kai; th;n kataskeuhvn", IX, 27, 1).

La Pitica XII  di Pindaro si apre come un inno cletico, con una preghiera alla città di Agrigento invocata quale filavglae, amica di splendore, kavllista brotea`n polivwn- la più bella tra le città mortali (v. 1)

 

Il X libro comprende vari avvenimenti degli anni 210-208. Interessanti sono i capitoli sul carattere di Scipione, il futuro Africano, che fu inviato in Spagna, ventiquattrenne con imperium  proconsolare. Questo comandante viene assimilato al legislatore spartano Licurgo poiché entrambi autorizzarono i propri atti con l'ispirazione divina. Ma tutti e due lo fecero nella convinzione che la maggior parte degli uomini non accetta facilmente le situazioni straordinarie né ha il coraggio di  affrontare i pericoli senza la fiducia nell'aiuto degli dèi ("oJrw'nte" eJkavteroi tou;" pollou;" tw'n ajnqrwvpwn ou[te ta; paravdoxa prosdecomevnou" rJa/divw" ou[te toi'" deinoi'" tolmw'nta" parabavllesqai cwri;" th'" ejk tw'n qew'n ejlpivdo"", X, 2, 10.

Scipione voleva rendere i soldati più coraggiosi facendo credere che i suoi piani fruissero di un'ispirazione divina, ma  dal racconto seguente, avverte Polibio, risulterà chiaro che faceva tutto con calcolo e preveggenza (" e{kasta meta; logismou' kai; pronoiva" e[pratte",  X 2, 13.

Bologna

 

 

G. De Sanctis commenta questa notizia accettandola ma non escludendo l'entusiasmo e l'ispirazione del comandante romano:"Tale fiducia, per cui si credeva e si faceva credere inviato e ispirato dalla Divinità per la salvezza di Roma, prendeva naturalmente forma d'entusiasmo religioso: un entusiasmo però frenato e diretto dal suo spirito pratico di Romano, ignaro delle alte e perigliose esperienze mistiche trascendenti gli interessi dell'ora. Ma non per questo abbiamo il diritto di dubitare della sua sincerità quand'egli, come invasato da un nume, segnava a' suoi soldati la via e profetava il successo, se pure in massima quell'indirizzo e quelle profezie, anziché parergli frutto d'ispirazione per cui si sentisse passivo, a fronte del nume presente e potente, come il vero profeta, erano in realtà resultato consapevole di meditazione. Ché per l'appunto nel tradurre in atto le sue intuizioni geniali egli credeva sentire la presenza e l'aiuto del divino".

In nota De Sanctis aggiunge che "lo spiegare con Polibio (X 3, 2) l'entusiasmo religioso o i  sogni profetici di Scipione come astuzie è certo razionalismo" ma "Scipione non s'intende senza fare una parte alla genialità della sua intuizione e un'altra al furore divino che lo invasava e da cui si sentiva trascinato nell'attuarla: degno d'essere paragonato in ciò ad un altro generale di genio: Olivier Cromwell"[2].

 

 

 

L'XI libro racconta gli anni 208-206 con la sconfitta e la morte di Asdrubale al Metauro e un elogio di Annibale che combatté in Italia ininterrottamente per sedici anni (218-203) tenendo uniti sotto il proprio comando, come un bravo timoniere ("w{sper ajgaqo;" kubernhvth", XI 19, 3) una massa eterogenea di uomini (Libici, Iberi, Liguri, Celti, Fenici, Italici, Greci) i quali non avevano in comune né leggi né costumi né linguaggio. Il comandante punico del resto non ebbe la fortuna sempre favorevole e non avrebbe fallito se avesse affrontato i Romani per ultimi invece che per primi. Annibale dunque, il quale, se pure fallì, fu il più nobile fallito dell'antichità, può entrare nel novero dei nostri eroi.

 

Bologna 30 gennaio 2022 ore 17, 16

Giovanni ghiselli

 

 



[1] Canfora , Storia Della Letteratura Greca , p. 523.

[2]G. De Sanctis, Storia Dei Romani , vol. III, parte seconda, p. 438 e n. 16.

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