Ci trovammo davanti alla libreria Fltrinelli sabato 28 ottobre alle tre del pomeriggio. Ifigenia aveva in mano una borsa di tela; io avevo lasciato la mia Volkswagen nera decappottabile parcheggiata lì vicino : entrambi avevamo portato le tute e le scarpe per correre, o comunque fare ginnastica. Le avevo detto che l’avrei portata “sui campi” ma poi avevo pensato che era meglio andare al campo sportivo, il campo scuola di via Michelino dove c’è una pista per la corsa. Un poco per nostalgia della pista di Debrecen, un po’ per il fatto che un campo sportivo mi sembrava meno intimo e impegnativo che una capìmpagna solitaia. Tra l’altro correndo su pista e cronometrato avrei avuto modo di fare bella figura siccome per la corsa non breve sono dotato e allora ero anche abbastanza allenato. Ora comprendo che in quei giorni pensavo soltanto a me stesso, ai problemi miei, al mio interesse, senza considerare la volontà della ragazza che con l’anima piena non solo di vanità, malizia e libidine, ma anche di amore, mito e poesia, voleva comunicare con me, ascoltarmi, imparare, e, se avesse potuto aprirmi il corpo e l’anima con fiducia, manifestarmi del tutto i suoi sentimenti.
La sconfitta sul lavoro mi aveva reso diffidente e meschino perché è proprio vero che un insuccesso ti mette in guardia da altre sventure, ti fa arretrare, mentre il successo viceversa ti spinge avanti.
Come mi fu giunta vicino, sorridente, vestita con un impermeabile beige, disse: “Ciao gianni, ascolta”.
La rimbeccai subito: “A Pesaro si dice ‘stai a sentire’, comunque ti ascolto”. Allora, si va a correre? Mi piacerebbe farlo a cronometro in una pista”
“Ieri veramente avevi parlato di campi”
“Intendevo uno dei campi sportivi. Il Baumann per esempio”.
“No, ci va troppa gente! Io voglio parlare con te, starti vicina. Noi due soli. Andiamo in campagna! Ho visto la tua automobile qui nei paraggi”.
La proposta della solitudine con lei non mi allettava: era prematura rispetto ai miei calcoli. Volevo che fosse arrivata al Minghetti la mia nomina di docente arruolato prima di fare l’amore con una collega appena supplente e giovane molto. Temevo un ulteriore insuccesso nel lavoro. Tuttavia nemmeno perdere lei volevo, rinunciando a un piacere grande e davvero consolatorio se non mi faceva perdere anche la posizione di insegnamento più bassa nel liceo di Bologna.
Mi feci coraggio e le risposi:
“Va bene: andiamo su per la Val di Zena fino al botteghino di Zocca, poi giriamo a sinistra e saliamo su un colle da dove si vede il tramonto. Carino, no?”.
“ Sì, molto”
Arrivammo su quel colle intorno alle quattro. Il debole sole in declino faceva tuttavia luccicare le zolle di terra tanto che miriadi di farfalline dalle ali dorate sembravano scorrere rapide lungo il fianco occidentale della collina. Arrivati sul culmine da dove la strada comincia a discendere sulla sinistra fermai l’automobile su una stradina laterale che si inoltra sui campi. Uscimmo dall’atomobile e ci incamminammo per un sentiero. Osservavo la terra che si indorava nella luce pur declinante: sembrava un’anziana signora protesa al ricordo, malinconico e dolce della passata bellezza. Non mi spiaceva più trovarmi solo con la bella ragazza in quel luogo rustco, vero e deserto. Glielo dissi per farle piacere e farlo anche a me stesso. Ci scostammo l’uno dall’altra per toglierci i vestiti e indossare le tute. Questo gesto da pudibondi riaccese il mio desiderio di Ifigenia.
Non mi spaventava più tanto la possibilità che lei mi proponesse di fare l’amore dal momento che mi sembrava improbabile. Potevo magari proporglielo io. Appena ci fummo cambiati e riavvicinati, vestiti con le tute che ci donavano perché lei era proprio ben fatta e nemmeno io ero fatto male, iniziammo a correre dal culmine della collina all’ingiù, verso una casa colonica che sembrava disabitata da tempo, L’erta pendenza e le zolle dell’arata discesa rendevano difficile il nostro equilibrio ma non rallentavano i balzi che facevamo scendendo a precipizio verso la casa deserta destinata a diventare uno dei monumenti di questa storia.
L’ombra della sera saliva strisciando adagio dal fondo della ripida china: la parte dell’ ampia aia più lontana dal culmine era già immersa nell’umida oscurità procedente dal basso. Noi due, arrivati sulla linea di confine tra l’ombra e la luce del sole, ci fermammo un istante per riprendere fiato e fruire dell’ultimo raggio del primo fra tutti gli dèi. Io lo pregai in silenzio. Poi procedemmo adagio fino al limite dell’aia spaziosa.
Bologna 22 gennaio 2023 giovanni ghiselli
p. s.
Sempre1314956
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