Nietzsche sostiene che Euripide era meno gradito di Sofocle al pubblico ateniese siccome non spronava la massa con il superiore punto di vista dell'eroismo, ma portava sulla scena lo spettatore, l'uomo medio, i tratti non riusciti della natura, il grechetto scaltro e la mediocrità, facendo trionfare la scaltrezza, rendendo paradigmatico il calcolo e l'intrallazzo dello schiavo immerso nella materia
“è sufficiente dire che lo spettatore fu portato da Euripide sulla scena” [1].
Questa critica, unilaterale e malevola, parte da Aristofane che accusa Euripide di mettere in scena pezzenti e malriusciti, personaggi in vario modo presi di mira dagli uomini o dalla natura. Possiamo ancora fare l’esempio degli Acarnesi , quando Diceopoli si reca da Euripide farsi prestare gli stracci [2] con i quali copriva i suoi personaggi "cwlouv~” (v. 411), zoppi, e “ptwcouv~ ” (v. 413), pitocchi.
Nelle Troiane Andromaca dice che non lasciava entrare in casa scaltre chiacchiere di femmine: e[sw te melavqrwn komya; qhleiw`n e[ph-oujk eijsefrouvmhn (Troiane, vv. 651-652) e allo sposo offriva silenzio di lingua e volto calmo (glwvssh" te sigh;n o[mma q j h{sucon, Troiane, 654), mentre Aristofane rappresenta il personaggio Euripide che rivendica il merito di avere insegnato la chiacchiera e l’insubordinazione un poco a tutti, comprese le donne: “ lalei'n ejdivdaxa…noei'n oJra'n xunivenai strevfein ejra'n tevcnazein, kavc j uJpotopei'sqai, perinoei'n a{panta”, a chiacchierare ho insegnato, a pensare, a vedere, a capire, a stravolgere, amare, a macchinare, a sospettare il male, a soppesare ogni cosa (Rane, vv. 954 sgg.)
Su Euripide dunque grava una tradizione di critica malevola, e pure pettegola, che risale alla commedia antica e arriva a Nietzsche il quale nell’opera giovanile La nascita della tragedia accusa il drammaturgo di avere commesso un sacrilegio imborghesendo il mito, storpiandone i protagonisti e uccidendo, con lo spirito eroico, quello religioso, musicale e artistico, fiorito nell'età tragica dei Greci. Lo scadimento della tragedia del resto, secondo il filosofo tedesco, inizia già con Sofocle: Euripide porta avanti il processo degenerativo che troverà il suo compimento nella commedia nuova attica “quel genere di spettacolo di tipo scacchistico, la commedia nuova, col suo continuo spettacolo della furberia e della scaltrezza”[3]
“Questa agonia della tragedia si chiama Euripide, e il più tardo genere artistico è noto come commedia attica nuova. In essa sopravvive la forma degenerata della tragedia…Si sa di quale straordinaria venerazione Euripide godesse presso i poeti della nuova commedia attica. Uno dei più rinomati, Filemone, dichiarò che si sarebbe immediatamente fatto impiccare, pur di vedere Euripide negli inferi, qualora si fosse potuto convincere che il defunto aveva ancora vita e intelletto. Ma ciò che Euripide aveva in comune con Menandro e con Filemone e ciò che per costoro valeva come modello, si lascia in breve riassumere nella formula secondo cui essi portarono lo spettatore sulla scena. Prima di Euripide, si aveva a che fare con uomini eroicamente stilizzati, dei quali subito si riconosceva l’origine dagli dèi e dai semidei della tragedia più antica…Con Euripide balza sulla scena lo spettatore, l’uomo nella realtà della vita di ogni giorno. Lo specchio, che in precedenza aveva riflesso solo i caratteri grandi e nobili, si fece più realistico e perciò più volgare…Quella figura assolutamente tipica dell’uomo greco, la figura di Odisseo, Eschilo l’aveva innalzata al livello d’un Prometeo magnanimo, astuto e nobile; tra le mani dei nuovi poeti decadde al ruolo dello schiavo domestico bonario e scaltro che così spesso sta al centro del dramma come grande intrigante. Ciò che Euripide nelle Rane di Aristofane si attribuisce a merito, cioè d’aver svuotato l’arte tragica e la sua gravità attraverso una cura termale, vale anzitutto per la figura degli eroi; in sostanza, lo spettatore, sulla scena euripidea vedeva e ascoltava il suo doppio, sia pur coperto dell’abbigliamento sfarzoso della rteorica”[4].
Filemone voleva morire per incontrare Euripide, ma non è necessario: basta leggerlo con attenzione rinunciando ad altri paceri.
Il quinto stato, quello degli schiavi, invade la scena della commedia nuova.
Il personaggio Euripide nelle Rane si vanta di avere insegnato a chiacchierare e macchinare. “E fu da una massa preparata e addestrata in tal modo che nacque la commedia nuova, questo drammatico gioco di scacchi tutto basato sul piacere di colpi astuti…il quinto stato, quello degli schiavi, domina la scena, almeno relativamente al modo di sentire”[5].
Vediamo altre espressioni di questa critica demolitrice cui non mancano formule schopenhaueriane come lo stesso Nietzsche denuncerà più avanti[6]: "La musica veramente dionisiaca si presenta come un tale specchio universale della volontà del mondo…ora la musica è diventata una meschina immagine dell’apparenza, e per questo è infinitamente più povera dell’apparenza stessa…Vediamo in azione da un altro lato la forza di questo spirito antidionisiaco ostile al mito, quando volgiamo i nostri sguardi all’affermarsi nella tragedia, da Sofocle in poi, della rappresentazione di caratteri e della raffinatezza psicologica. Il carattere non deve più allargarsi come tipo eterno, ma deve al contrario, mediante tratti secondari e ombreggiature superficiali…agire in modo talmente individuale, che lo spettatore senta in genere non più il mito, bensì la potente verità naturalistica e la forza dell’imitazione dell’artista. Anche qui scorgiamo la vittoria dell’apparenza sull’universale e il piacere per così dire per il singolo preparato anatomico; respiriamo già l’aria di un mondo teorico, per il quale la conoscenza scientifica vale più del rispecchiamento artistico di una regola del mondo”[7].
La musica dovrebbe essere “immagine del noumeno e non del fenomeno”[8]. Più avanti Nietzsche cambierà idea, anche in seguito alla cambiata opinione su Wagner e Schopenhauer. “E con ciò il rapporto di soggezione a Wagner completamente capovolto. Ma non basta. Nel frammento postumo 2 (29) dell’autunno 1886, Nietzsche afferma perentoriamente: “La musica non rivela l’essenza del mondo e la sua “volontà”, come ha sostenuto Schopenhauer (…); la musica rivela solo i signori musicisti! Ed essi stessi non lo sanno! E che buona cosa, forse, che non lo sappiano!”[9].
L’esempio estremo della morale degli schiavi che prende il posto di quella dell’eroe coraggioso e irriducibilmente incapace di cedere trova la sua compiuta espressione nell’Asinaria di Plauto. Nel mondo carnevalesco e rovesciato degli schiavi plautini al posto del valore forte della fides troviamo quello della perfidia , la santa protettrice dei servi:" Perfidiae laudes gratiasque habemus merito magnas" (Asinaria, v. 545), abbiamo ragione di elogiare e ringraziare assai la mala Fede, dice lo schiavo Libano allo schiavo Leonida.
Perciò Lupus est homo homini, non homo, quom qualis sit non novit” (Asinaria, 495), quando non si sa di che tipo sia, dice un mercante straniero. La commedia è ambientata ad Atene ma i costumi sono romani. Queste parole esprimono diffidenza nei confronti dello schiavo Leonida.
Contro questo sentenza abbiamo la menandrea a[nqrwpo" ajnqrwvpw/ qeov" e Cecilio Stazio (230-167) homo homini deus si suum officium sciat (fr. 265 Ribbeck).
Pensate ai lupi previsti e presofferti da Papa Ratzinger che Dio lo benedica e ricompensi. Pensate ai deputati che si definiscono cristiani e vivono in modo opposto a quello predicato da Cristo siccome sono lupi rapaci. Di nome e di fatto.
La furberia fallace degli schiavi ha cambiato i costumi dei Romani diffondendo la menzogna e l’inganno.
Tacito descrive non senza ammirazione i "boni mores "(Germania, XIX, 4) di quella "gens non astuta nec callida "(XXII, 5) non astuta né scaltra. Lo storiografo latino nota che i Germani rispettano la fides, la parola data in maniera perfino eccessiva: scrive che dopo avere perso tutto ai dadi (alea), con un ultimo lancio mettono in gioco la libertà personale, quindi, se perdono, mantengono la parola data e subiscono la schiavitù. Ebbene in questo caso ciò che loro chiamano fides è una forma di ostinazione in un vizio riprovevole: “ea est in re prava pervicacia”(Germania, 24).
Bologna 7 gennaio 2023-ore 9, 38
giovanni ghiselli
p. s
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[1] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. 11.
[2] "dov~ moi rJavkiovn ti”, dammi uno straccio!" lo prega (v. 415).
[3]F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. 11.
[4] Nietzsche, Socrate e la tragedia (conferenza del 1870), in Verità e menzogna, p. 52.
[5] Op. cit., p. 53.
[6] E’ Umano, troppo umano pubblicato del 1878 che segna il distacco da Wagner e da Schopenhauer.
[7] La nascita della tragedia, capitolo 17.
[8] S. Giametta, Introduzione a Nietzsche, p. 111.
[9] S. Giametta, Op. cit., p. 112
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