sabato 14 gennaio 2023

Nietzsche 61. Nietzsche, Socrate e l’indice di passi proibiti nella Repubblica di Platone.


La nascita della tragedia, capitolo XIV (pp. 93-98)

L’unico grande occhio ciclopico di Socrate puntò la tragedia. Un occhio privo dell’ardente follia dell’entusiasmo artistico. Che cosa poteva trovare quell’occhio in quella solenne e mirabile forma di poesia che è la tragedia? Così la chiama Socrate nel Gorgia (hJ semnh; kai; qaumasthv, hJ th`~ tragw/diva~ poihvsi~, 502b)

Quell’occhio vi trova “qualcosa di assolutamente irrazionale con cause che sembrano senza effetti ed effetti che sembrano essere senza cause; inoltre il tutto era così variopinto e vario che a un’indole assennata doveva riuscire ripugnante, mentre per le anime eccitabili e sensibili era una miccia pericolosa” (p. 93)

L’unico genere che fosse compreso da Socrate era la favola esopica  che può dire la verità con un’immagine a chi non possiede molto intelletto.

L’arte tragica secondo Socrate non dice nemmeno la verità siccome è un’arte lusingatrice. Dunque bisognava rimanervi lontani in quanto antifilosofica.  Questo insegnava Socrate, in modo che il giovane Platone per poter diventare suo discepolo per prima cosa bruciò la sue poesie.

 

L’indice dei passi proibiti

Nella Repubblica Platone compila un indice dei libri e dei passi proibiti

 Bisogna plasmare (plavttein) il giovane quando ejnduvetai tuvpo~ (377b) si imprime l’impronta che ciascuno deve portare addosso. I miti del resto non sono tutti buoni. Allora bisogna soprintendere ai compositori di miti ejpistathtevon toi`~ muqopoioi`~ e scartare quelli non buoni.

Vanno rigettati quelli falsi narrati da Omero, Esiodo e altri poeti quando raffigurano malamente la natura degli eroi , come un pittore (w{sper grafeuv~, 377e) che dipinge immagini non somiglianti al vero. Esiodo nella Teogonia racconta di castrazioni e tecnofagia di dèi al tempo di Urano e Crono e del giovane Zeus. Anche se fossero vere queste storie non andrebbero raccontate ai giovani. Al massimo si potrebbe dirlo a pochissimi dij ajporrhvtwn  (378b) per via misterica, in segreto, sacrificando non un porco ma una vittima grande e mal procurabile in modo che pochissimi possano udire tali atorie.

Questo è collegabile all’esclusione del mito da parte di Tucidide (I, 22)

Quindi bisogna mettere nell’indice dei miti proibiti le gigantomachie e le contese di eroi e dei con i loro congiunti e familiari. Le battaglie tra gli dei raccontate da Omero  con allegoria (ejn uJponoivai~,) o senza (a[neu uJponoiw`n, 378d)  non bisogna ammetterle ouj paradektevon. Il giovane infatti non è capace di distinguere quello che è allegoria -ujpovnoia-  da quello che non lo è, e quanto gli si imprime nell’anima a quell’età è difficilmente cancellabile. Allora i miti insegnati devono essere buoni. La divinità è buona e come tale va raffigurata  379b.

Quello che è buono non è nocivo. Le cose cattive e nocive non vengono dalla divinità. Allora non bisogna accettare Omero quando scrive che sulla soglia di Zeus sono piantati due vasi (pivqoi) uno con doni cattivi, l’altro con quelli buoni (Iliade, 24, 527-528). Achille dice a Priamo che suo padre e lui , padre di Ettore e re di Troia hanno avuto beni e mali mescolati. Altri hanno avuto solo i mali.

Questo attribuire agli dèi doni cattivi dunque non è accettabile. Quindi Platone indica altri passi dell’Iliade da censurare (la violazione della tregua compiuta da Pandaro istigato da Atena (IV, 93 sgg.) e XX, 20 sgg. Quando Zeus convoca gli dèi attraverso Temi e dà loro il permesso di aiutare Greci o Troiani, secondo il volere di ciascuno. Lui, Zeus stesso, diletterà la sua mente osservando (20, 23)  

Anche Eschilo va censurato per dei versi della Niobe (fr. 156 Nauck) che attribuiscono a dio il fatto di suscitare una colpa per annientare una stirpe. (Ma cfr. il primo canto dell’Odissea 32 sgg. con la condanna di Egisto). 

Non si devono permettere tali calunnie contro gli dèi, a meno che si chiarisca  che i puniti traggono giovamento dalla punizione (oiJ  wjnivnanto kolazovmenoi, 380b) e che gli dèi fecero cose buone e giuste. 

 

 Pindaro nell’ Olimpica IX afferma che diffamare gli dei è odiosa sapienza (tov ge loidorh'sai qeouv"-ejcqra; sofiva, vv. 37-38), e che le montagne della sapienza, essendo scoscese (sofivai menv-aijpeinaiv, 107-108), comprendono la forza della natura e richiedono grandi energie per scalarle. Anche le alte e ripide montagne della terra, sggiungo, richiedono grandi energie per essere scalate.

 

 

Dunque oujk ejatevon levgein, non bisogna permettere di attribuire qualcosa di male alla divinità in quanto essa è buona e non può fare il male. Ella è causa solo del bene.

La deduzione della bellezza del creato dalla bontà del creatore si trova, com’è noto, nel Timeo  di Platone : se il cosmo è bello (eij me;n dh;  kalovς ejstin o{de oJ kovsmoς) l’artefice è buono (o Jdhmiourgo;ς ajgaqovς). 

 Il demiurgo, il migliore degli autori  (a[ristoς tw'n aijtivwn), ha guardato al modello eterno (pro;ς to; ajivdion e[blepen). Sicché il cosmo è la più bella tra le cose nate (kavllistoς tw'n gegonovtwn 29a).

Il demiurgo dunque era buono e chi è buono non prova invidia. Egli ridusse il disordine all’ordine (29d)

Seneca aggiunge: “quaeris quod sit propositum deo? Bonitas. Ita certe Plato ait: “quae deo faciendi mundum fuit causa? Bonus est: bono nulla cuiusquam boni invidia est; fecit itaque quam optimum potuit” (Ep. 65, 10). Lo scopo di Dio è la bontà.

 

Il dio inoltre non muta forma e quindi i poeti non devono scrivere quello che Omero attribuisce ad alcuni proci che rimproverano Antinoo il quale ha insultato Odisseo travestito da mendicante e lo ha colpito con uno sgabello. Questi pretendenti critici di Antinoo  dicono che quel ramingo infelice potrebbe essere un nume del cielo: spesso gli dèi girano per le città camuffati per vedere i soprusi o la giustizia degli uomini (Odissea, 17, 482-487).  Non è vero che gli dèi si trasformano  Certe madri raccontano fandonie su dèi che si aggirano di notte per rendere più vili i figlioli.

La menzogna è odiata dagli uomini e dagli dèi. La divinità non ha nessun motivo per mentire. Il demonico e il divino è assolutamente fuori dalla menzogna: “Panth/ a[ra ajyeude;~ to; daimovniovn te kai; qei`on” (Repubblica, 382e). Il dio è semplice e verace oJ qeo;~ aJplou`n kai; ajlhqev~ nelle parole e nelle opere e non si muta né inganna con segni o con sogni.

 

Cfr. Achille semplice e verace nell’Ifigenia in Aulide  926-927) o l’Idiota di Dostoevskij.

 

Dunque pur lodando Omero su molti punti, non lo loderemo quando racconta del sogno ingannevole mandato da Zeus ad Agamennone in Iliade II  (Repubblica, 383).

Il dio chiama  Sogno funesto (ou\lon  {Oneiron, II, 6) e gli ordina di dire ad Agamennone che è giunta l’ora di prendere l’ampia città.

Né si può approvare Eschilo quando in un’altra tragedia, forse Il giudizio delle armi, rappresenta Teti che accusa Apollo di menzogna: alle nozze di lei aveva cantato la sua felicità, poi è stato proprio quel dio ad ammazzargli il figliolo (fr. 350 Nauck).

Perciò a tali opere non si deve concedere un coro, né vanno lette nelle scuole (Repubblica, 383c)

 

 

Eppure Platone sentiva una necessità artistica: doveva creare una forma d’arte.

 Il dialogo platonico mescola tutti gli stili e le forme esistenti ed è sospeso tra narrazione, lirica, dramma, fra prosa e poesia e non ha una forma linguistica unitaria. La satira menippea con il prosimetro è andata oltre Platone.

Sentiamo Leopardi: “Chi vuole vedere un piccolo esempio della infinita varietà della lingua greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua sola, secondo che ho detto altrove, e vuol vederlo in uno stesso scrittore e in uno stesso libro; legga il Fedro di Platone. Nel quale troverà, non dico tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che compongono il dialogo tra Socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di Platone, l’altra nelle due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza nell’orazione di questo in lode dell’amore.” (Zibaldone, 2717).

 

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Il dialogo platonico è la barca su cui si salvò la poesia antica naufraga (p. 95). Nella barca il cui timoniere era Socrate, si trovavano stipate tutte le creature della poesia antica. Platone ha fornito alla posterità il modello di una nuova forma d’arte: quella del romanzo, una favola esopica infinitamente sviluppata, in cui la poesia è ancilla della filosofia.  

Più tardi la filosofia diverrà ancilla della teologia.

Il pensiero filosofico sovrasta l’arte che deve abbarbicarsi al tronco della dialettica.

La tendenza apollinea si chiude nell’iinvolucro di uno schematismo logico, mentre Euripide traduce il dionisiaco in una passione naturalistica.

Socrate, l’eroe dialettico del dialogo platonico ricorda la natura affine dell’eroe euripideo che deve difendere le sue azioni con ragioni e controragioni e che per questo rischia di non suscitare più la nostra compassione tragica (p. 96). Nella natura della dialettica infatti trionfa l’elemento ottimistico che entrato nella tragedia le fa compiere il salto mortale nel dramma borghese.

Basta pensare alle massime socratiche: la virtù è il sapere, si pecca solo per ignoranza, il virtuoso è felice. In queste forme di ottimismo sta la morte della tragedia.

In questa nuova situazione, il coro appare come qualcosa di fortuito di cui si può fare a meno. Mentre il coro è nato come causa della tragedia.

Già Sofocle non osa più affidare al Coro la parte principale e comincia a franare il terreno dionisiaco della tragedia. Il coro di Sofocle appare ora come coordinato agli attori, come se venisse sollevato dall’orchestra e portato in scena (sul logei'on). La sua essenza ne viene distrutta, sebbene Aristotele approvi questa concezione (p. 97).

 

Il coro, afferma Aristotele, deve essere parte del tutto (movrion tou` o{lou) e partecipare all'azione kai; sunagwnivzesqai, al pari di uno degli attori, non come in Euripide, ma come in Sofocle (1456a, 27).

 

Dopo Euripide, le parti cantate non sono connesse al racconto, e dopo l’esempio dato da Agatone ejmbovlima a{/dousin (1456a, 29) si cantano intermezzi.

Sofocle compie il primo passo verso la distruzione del Coro un annientamento che procede con spaventosa rapidità con Euripide, Agatone e la Commedia nuova.

La dialettica ottimistica scaccia la musica della tragedia con la sferza dei suoi sillogismi. La tragedia infatti è una simbolizzazione visibile della musica, è come il mondo di sogno di un’ebbrezza dionisiaca.

Eppure Socrate, logico dispotico, non fu indifferente all’arte. In carcere racconta ai suoi amici (nel Fedone, 60-61) che gli veniva in sogno un’apparizione che diceva: “Socrate, datti alla musica!”

w\ Swvkrate~ e[fh mousikh;n poivei kai; ejrgavzou (60e) fai e componi musica. Egli pensava che la filosofia fosse la musica suprema (61). Ma dopo il processo, racconta, mi venne il dubbio che  il dio intendesse la musica nel senso comune (th;n dhmwvdh mousikhvn) e volli togliermi lo scrupolo. Così composi una poesia per la festa del dio Apollo, poi pensai che il poeta debba comporre miti e non ragionamenti ma io non ero esperto di miti, e allora misi in versi i miti che conoscevo, quelli di Esopo (61b).

 

Queste sue parole sul sogno sono l’unico segno di una sua perplessità sui limiti della natura logica. Ebbe questo dubbio: forse esiste un regno della sapienza da dove il logico è bandito?

Forse l’arte è un supplemento necessario alla scienza?

 

Bologna 14 gennaio 2023 ore 18, 56

 giovanni ghiselli.

Sempre1311965

 

 

 

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