martedì 17 gennaio 2023

Estate 1978. Viaggio in Grecia. VI Epidauro.


 

Passato il mezzogiorno da diverse ore, finalmente arrivai a Epidauro. Ero a pezzi, spezzettato, altro che dimidiatus Ioannes! Non andai a vedere l’antico teatro, non baciai la terra,  né pregai in alcun modo  gli dèi come sono solito fare, pure teatralmente, quando raggiungo una meta agognata; questa volta invece mi diedi subito a cercare una locanda per supplicare l’ostessa  di affittarmi una stanza con bagno.

 Il luogo ne è costellato per via del festival estivo. La locandiera, o fantesca che fosse, interpellata e andata a informarsi, tardava a tornare. Forse voleva darsi importanza come il portiere della prima notte di Debrecen, o sospettava un accattonaggio da parte mia,  sconciato com’ero. Aspettavo il suo ritorno e la risposta con il terrore che non fosse ospitale: quasi una sentenza di morte. Passavano atrocemente i minuti e oramai deliravo. Gli dèi avevano ridotto il mio corpo a uno straccio sporco sottoponendolo a durissime prove, debilitandolo con il sonno, la fame, la sete, il sudiciume, e dopo tanta tribolazione sentivo sia la sofferenza fisica sia quella non meno grave della perdita del bene dell’intelletto. Non capivo più niente: non accettavo il mio destino e diventavo empio verso gli dèi senza tenere conto che spesso  mettono in croce proprio quelli che amano. Oltre tutto temevo di perdere un occhio la cui sanie giallastra insudiciava la lente a contatto e mi orbava di metà della visione del mondo. Vedevo solo la parte più brutta: montagne di spazzatura  stipata dentro i bidoni e accumulata fuori, un po’ dappertutto.

Finalmente la donna tornò con la chiave dell’agognata camera dotata di bagno per giunta: la salvezza del corpo e della mente. Per toglierle ogni sospetto pagai immediatamente

 Mi lavai e dormìi fino a tarda sera. Al risveglio ero tornato in me.

Mi sentivo bene e ringraziai gli dèi di avere annientato la montagna di stanchezza e di schifezza che gravandomi sopra il cervello con un  carico più pesante delle rupi dell’Etna, aveva oscurato la vista tanto fisica quanto mentale e sconvolto i pensieri tutti. Mi alzai rinfrancato e giurai che avrei scalato con la bicicletta quel vulcano gigante nell’isola grande, bella poco meno del Peloponneso, quindi entrai di nuovo nel bagno che avevo allagato facendo la doccia.

 Mi vidi riflesso in uno specchio murale e riconobbi la mia forma migliore: quella dei diciotto anni  persa a diciannove e recuperata sui venticinque, nell’estate del 1970.

Nell’agosto del ’ 78 ne avevo già quasi trentaquattro. Avevo fatto tanti progressi però. Ammiravo la mia snellezza muscolosa e mi dissi: “Hai ripreso con mani d’acciaio l’aspetto piacente e la fierezza mentale che ti si addicono. In questi anni non ti sono mancati i successi. Con venti mesi di studio sei diventato uno degli insegnanti più egregi, a detta degli studenti, del liceo classico Marco Minghetti. Adesso meriti il premio, la borsa di studio costituita dalla femmina umana più bella di Bologna”. Ne ero convinto. A ragione. Ringrazia ciascuno degli dèi del mio pantheon  con una  “orazion picciola” ma speciale, quindi mi posi in cammino  verso il teatro che a dire il vero non mi commosse. Forse presentivo che la giovane collega incontrata a scuola in autunno, dico l’auspicata e meritatatissima borsa di studio, nel giugno del 1981 mi avrebbe lasciato per passare una notte brava con un attore molto famoso.

Crocifisso di nuovo per il mio bene. Ero maturato dell’altro e la mattina seguente arrivai sulla Futa in bicicletta. Giunto al cimitero di guerra mi dissi: “sarà un’altra provvida sventura”. Quindi, per darmi altro conforto, aggiunsi: “marcet sine adversario virtus[1].

Poi, a dire il vero, l’avversario era degno di me: era un istrione già mezzo vecchio ma bravo.

Nell’agosto del 1978, quel quindici agosto, non prevedevo invece che a Epidauro sarei tornato più di una volta in bicicletta con gli amici più buoni, più intelligenti e cari: Maddalena, Fulvio e Alessandro, per assistere alle rappresentazioni dei drammi di Eschilo, Sofocle, Euripide e Aristofane nel teatro greco.

Lo studio del dramma antico, le traduzioni delle tragedie e i commenti scritti per diversi editori, le conferenze e lezioni tenute in molti luoghi d’Italia sarebbe stato il mio opus maximum nel campo scolastico.

Per quanto riguarda  gli aspetti e gli eventi della mia vita li avrei sistemati metodicamente in un ordine di progresso e di crescita, speravo

 

 

Nota

[1] Seneca, De providentia, II, 4

Bologna 17 gennaio 2026 ore 9, 38 giovanni ghiselli

Sempre1312922

 

 

 

 

 



[1] Seneca, De providentia, II, 4

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