lunedì 16 gennaio 2023

Il debutto nell’Ellade.


Subito dopo il 20 agosto del 1976 tornai in Italia e ripresi a studiare dalla mattina alla sera i miei classici. In ottobre fui sistemato nel liceo Minghetti di Bologna dove il preside gentiluomo Piero Cazzani mi aiutò a imparare l’arte dell’educatore. Nei ritagli di tempo nei quali mi permettevo di non studiare, scampoli davvero esigui poiché volevo conquistare anche gli allievi di questo istituto, cercavo una donna dotata di mente, e siccome a un’azione sbagliata ne succede spesso un’altra errata dalla parte opposta, cercai una relazione con una collega che non mi attraeva abbastanza fisicamente.

Non potevo trasmetterle il desiderio che non sentivo. Su questo le donne non si sbagliano: del resto simulare il pathos erotico è quasi impossibile, del tutto impossibile per me, come fingere l’erezione benedetta da Priapo.

Un dialogo c’era tra noi, ma questo non toccava mai la sostanza dei problemi né arrivava al fondo degli argomenti, come succede quando si parlano due giovani in cerca di quell’amore che tra loro non c’è. Così in primavera smettemmo di frequentarci, e io nel dolore compresi che l’attrazione dei corpi non è meno importante di quella spirituale.

Ci sono due tipi di imbecilli: l’uno dice che la bellezza è tutto, l’altra che è niente. Io dico che non è poco, anzi è molto ma non è tutto.  

 

Nel Simposio di Platone, Diotima, insegna a Socrate che Amore  è la tendenza a possedere il bene per sempre (206 a) e vuole la procreazione nel bello secondo l'anima e secondo il corpo:"tovko" ejn kalw'/ kai; kata; to; sw'ma kai; kata; th;n yuchvn" ( 206 b).

 

Nel luglio del 1977  venne a trovarmi a Bologna Anna la siciliana dell’estate precedente. Facemmo l’amore, poi ripartì lasciandomi senza alcun rimpianto. “Io a questo punto mi imbarco”, mi dissi.

Sicché salìi in bicicletta e mi diressi verso il porto di Ancona per imbarcarmi verso la Grecia. Era la prima volta che andavo nell’Ellade amata.

Ero con Fulvio, diventato il mio migliore amico, lo spirito dei viaggi che facevamo insieme, l’occhio della via che ora mi manca-poqevw ojfqalmo;n  th`" oJdou`. 

Quel debutto nell’Ellade invero non andò benissimo: a San Benedetto del Tronto caddi dalla bicicletta urtando con la ruota anteriore quella posteriore di Fulvio. Caddi, sbattei il  petto sul duro selciato e mi ruppi una costola. Proseguìi tra dolori rabbrividenti fino a Termoli dove andai in ospedale, dove i medici mi diedero dell’invasato e mi convinsero a lasciare la bici. Proseguìi con mezzi pubblici. Vedevo Fulvio la sera

Invalido com’ero,  guardavo con invidia e ammirazione i balestrucci sfrecciare nel cielo e l’amico che arrivava in albergo dopo ore e ore di bicicletta, beato lui.

 

 

Nell’agosto del 1978 dopo l’esame di maturità ripartìì in bicicletta questa volta da solo diretto al porto di Ancona per imbarcarmi sul traghetto per Patrasso. Avevo un punto di riferimento in alcuni conoscenti di Bologna che campeggiavano nell’isola di Andros. Mi recai da loro. Furono ospitali e gentili con me, però si comportavano come se fossero a Bologna: usavano nel parlare tutto il repertorio delle famiglie borghesi emiliane: gente civile, per carità, ma io ero andato in Grecia in cerca di altro: mito e poesia volevo trovare e la strada che mi avrebbe portato metodicamente all’arte e all’artistica donna che mi mancava. Volevo trovare quell’armonia che rimane nascosta alla maggior parte delle persone ma è molto più forte di quella visibile ai più.

 

Il 9 agosto  salii sull’imbarcazione che dal porto di Andros mi recava lontano da quei compagni di tenda con i quali avevo poco da dire: erano tutt’altre persone dai contubernali di Debrecen ricordati più volte. Ero felice di essere solo con la mia bicicletta, una Bianchi da corsa.

Osservavo il chiarore dei flutti spumeggianti e dei gorghi  solcati dal veicolo marino.  Biancheggiava la scia del traghetto come un sentiero in mezzo a una pianura erbosa che fluttua al vento sonoro.

Sbarcai a Tenos dove volevo prendere un altro battello per arrivare a Delo, l’isola sacra che diede i natali ai due occhi del cielo. Ma le corse di quel giorno erano già tutte finite: dovevo aspettare la mattina seguente. Cercai un ostello dove passare la notte, fissai un giaciglio, quindi mi chiesi come impiegare sensatamente e proficuamente il resto della giornata che non volevo sprecare, cioè passare senza attività valide a potenziare il corpo e la mente.

Potevo girare l’isola liberamente, ossia senza l’obbligo che avevo avuto ad Andros di presentarmi ai conoscenti di Bologna che mi aspettavano a ore, determinate da loro, per entrare in un enorme gommone motorizzato e andare stipati  in cerca di baie deserte dove arrostire salsicce affumicando la santa luce del cielo.

Dopo due giorni passati così volevo ricaricarmi di energie vitali e morali. Sul mezzogiorno, lavati gli stracci sudati che poi distesi perché si asciugassero sopra lo zaino appoggiato sul materasso disteso nella terrazza del povero ostello, cominciai a pedalare seminudo nel sole mentre venivo accarezzato dall’aria pregna di aromi marini, vegetali e terrestri: respirandola lietamente a pieni polmoni, sentivo di partecipare a una festa della natura profumata calda e luminosa come una bella ragazza piena di salute, di gioia, di vita. Le cime degli alberi, i musi degli animali, i visi umani apparivano sereni , pieni di luce, promesse e speranze.

Con gli occhi stenebrati del tutto vedevo  i raggi del sole danzare tripudi  vivaci sulla grande tavola liscia e violacea del mare, quindi balzare sui declivi dei monti dove li festeggiavano gli innumerevoli  cori delle cicale pazze di sole, dove i penduli fichi stillavano gocce capaci di  moltiplicare quel dono del cielo che assentiva alla vita. Mi chiedevo se ero ancora su questa terra o già in paradiso.

Mi viene in mente che una volta dissi a un collega e amico di Ragusa che la Sicilia è un paradiso. Tano mi corresse: no, caro, la Sicilia è il paradiso. Non replicai ma continuo a credere che il paradiso sulla terra sia proprio la Grecia.

Nell’aria celeste gli uccelli cantavano inni di gratitudine alla fonte della luce divina, l’occhio del giorno d’oro, l’immagine che porta la massima significazione di Dio alla nostra vista. Con le narici aspiravo i profumi soavi della terra, odorosa tutta come un frutto maturo appena spiccato dal ramo. Mi domandavo come può non essere felice una creatura nel  paradiso così ben fatto dall’artista divino.

 Assaporavo  gli umori distillati dai raggi del sole che ravvivano tutto, e gioivo osservando i colori accesi e accentuati dalla pienezza del suo splendore.

Il mondo era bello, variopinto, caldissimo, luminoso e mi rendeva felice.

Ogni tanto mi fermavo per cogliere un fico o un grappolo d’uva: dolce offerta, già maturata dal calore che favorisce la vita.

Mentre mangiavo questi doni dell’estate incoronata dai raggi del dio, pensavo ai regali ricevuti dalle meravigliose donne che avevo già conosciuto meravigliosamente. Le ho sempre considerate “borse di studio”, come le belle giornate. Ero sicuro che altri premi ci sarebbero stati dopo una vacanza talmente santa. 

Ringraziavo la madre terra femmina felix e generosa , poi riprendevo a pedalare su e giù per le strade dell’isola. Ascendere le impervie salite eliminando gli umori cattivi, acquistando la forma corporea più bella possibile, e la mente serena quanto il cielo, era una gioia: mi sembrava di salire per una scala i cui gradini portavano al dio sole; ed ero felice mentre mi lanciavo giù per le rapide discese  rinfrescando il volto e il petto con i fiotti veloci dell’aria pur calda sulla pelle abbronzata: mi sentivo armonizzato con l’opera d’arte dove avevo la fortuna di essere vivo del tutto, lontano e diverso dagli sdilinquiti borghesi che arrostivano grassi cadaveri di animali nelle baie sassose ottenebrando la luce del sole o la cristallina purezza della notte lunare.

Bologna 16 gennaio 2023 giovanni ghiselli

p. s.

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