domenica 29 gennaio 2023

Polibio III. L’opera di Polibio. Una sintesi breve ma panoramica.


 

L'opera che ci apprestiamo a studiare, sono le Storie  che trattavano, in quaranta libri, gli avvenimenti compresi tra il 264 e il 146

L' anno d'inizio è quello in cui comincia la prima guerra punica e al quale giungevano le Storie  della Sicilia e dell'occidente greco di Timeo di Tauromenio (350-260), frequentemente e implacabilmente criticato; la conclusione coincide con la sottomissione dei Greci ai Romani e la conseguente sistemazione della Grecia.

 

Il frutto più utile  di questo lavoro, ci avvisa l'autore stesso, sarà quello di conoscere come e con quale tipo di costituzione politica i Romani abbiano vinto e ridotto sotto il proprio esclusivo dominio quasi tutta la terra abitata, cosa che non risulta essere mai avvenuta in precedenza. Queste parole del XXXIX libro  sono praticamente le conclusive del racconto poiché il libro successivo e ultimo, il LX conteneva gli indici.

Per quanto riguarda la sopravvivenza dell'opera, a noi sono arrivati integri soltanto i primi cinque libri, ampi brani estratti di quelli che vanno dal sesto al diciottesimo, ed excerpta  più brevi dei rimanenti: citazioni e stralci contenuti nei Lessici  e in vari autori greci e bizantini, ma soprattutto nella raccolta di Excerpta historica  fatta curare nel X sec. d. C. dall'imperatore Costantino VII Porfirogenito.

 

I primi due libri  costituiscono una lunga introduzione ("prokataskeuhv ", I, 3, 10)  che, come aveva fatto Tucidide con la pentecontaetia , racconta rapidamente gli avvenimenti dal 264 al 220, anno d'inizio della seconda guerra punica. Polibio stesso dichiara di volere iniziare la sua narrazione "sistematica e particolareggiata da questa data. La sua espressione ("th'" ajpodeiktikh'" iJstoriva" ajrcwvmeqa", II 37, 3) che letteralmente vuol dire 'storia dimostrativa', cioè 'storia che espone le cose in dettaglio' si avvicina al significato di "storia che conosce le cause"[1].

 

Le cause vengono distinte in aitiva , causa vera, provfasi", causa apparente e ajrchv, inizio dei fatti. La casistica eziologica è tucididea ma i significati attribuiti alle singole parole sono diversi: di ricorderà che nel "legislatore della storiografia" provfasi" (I, 23) indicava la causa più vera, e aijtivai i motivi occasionali.

 

Il III libro dunque racconta la guerra annibalica, dalle cause alla battaglia di Canne (216 a. C.).

 

Il IV libro narra la guerra sociale tra i Greci negli anni 221-218.

  C'è il collegamento con l'opera storica di Arato di Sicione che oltre essere stato stratego della lega achea dal 251, più volte, scrisse delle Memorie  le quali arrivavano al 221. Polibio anzi sostiene che questo anno costituisce il miglior punto di partenza"kallivsthn uJpovstasin"  (IV, 2, 1),  non solo per il nesso con l'opera di Arato ma anche perché, trattandosi di avvenimenti non lontani dalla sua vita,  in parte li ha visti con i propri occhi, in parte li ha sentiti raccontare da testimoni oculari (sumbaivnei toi'" me;n aujtou;" hJma'" paragegonevnai ta; de; para; tw'n eJorakovtwn ajkekoevnai", IV, 2, 2).

Infatti risalire troppo indietro nel tempo e riportare fatti tramandati per sentito dire non permette valutazioni esatte . Già Tucidide legiferando, "approda alla visione di una superiorità o migliore conoscibilità della storia contemporanea"[2].

Mazzarino infatti avverte che "le stesse dichiarazioni di metodo di Polibio ripetono formule tucididèe, così nella generale definizione del compito che si attribuisce allo storico, come anche, in particolare, nella maniera di "ricostruire" i discorsi attribuiti ai personaggi[3].

 

Il V libro continua a narrare le guerre tra i Greci (tra Filippo V e gli Etoli, tra Filippo V e Sparta, tra gli Etoli e gli Achei) e quelle tra Antioco III e Tolomeo IV dal 218 al 216.

 

Il VI libro è il primo giunto a noi solo per estratti, pur assai ampi, e analizza la costituzione romana vista come la principale causa dei successi che portarono la città del Lazio al paradosso di sottomettere in meno di cinquantatré anni (220-168) quasi tutta la terra abitata.

 

 Una tesi non del tutto condivisa da Plutarco il quale nel trattatello Sulla fortuna dei Romani....sosterrà ad esempio che i Romani stessi, con l'assidua edificazione di templi alla Fortuna, hanno riconosciuto alla fortuna il ruolo dominante nei loro successi (cap. 10).

Il famoso discorso di Petilio Ceriale  tenuto nel 69 d. C. ai popoli della Gallia belgica e celtica attribuisce i successi dei Romani alla fortuna e alla disciplina: “ Octingentorum annorum fortunā disciplināque compages haec coaluit: quae convelli sine exitio convellentium non potest” (Tacito, Hist. IV, 74) questa mole  consolidata con la fortuna e la disciplina di ottocento anni non può essere abbattuta senza rovina di chi la abbatte.

 

 

 

Secondo Polibio la costituzione ha pure contribuito a produrre la forza con la quale i Romani hanno saputo reagire nobilmente alle disfatte.

Infatti, come  aveva detto Isocrate, la costituzione è l'anima dello stato, ed ha la stessa importanza che la ragione nell'uomo:"     [Esti ga;r yuch; povlew" oujde;n eJvteron h] politeiva, tosauvthn e[cousa duvnamin o{shn per ejn swvmati frovnhsi""[4].

 Ebbene la costituzione dimostra il suo valore nei rovesci al pari di un uomo che sopporta con coraggio e nobiltà d'animo i più completi cambiamenti di fortuna.

La storia di Roma, non per caso, era stata interrotta alla fine del III libro con il racconto della catastrofe di Canne dalla quale gli sconfitti seppero prodigiosamente sollevarsi. L'eccellenza della costituzione romana, che viene confrontata con quelle di Sparta e di Cartagine, sta nell'essere la migliore realizzazione della mikth; politeiva (costituzione mista): essa riunisce in sè le caratteristiche delle tre forme sane di governo: quello monarchico rappresentato dai consoli, quello aristocratico dal senato, quello democratico dai comitia  e dai tribuni della plebe.  Tale commistione dei poteri bene armonizzati consente una stabilità maggiore rispetto ai regimi non misti: i monarchici nascono da uno stato selvaggio e  vengono imposti con la forza; questi  prima si evolvono in regni che hanno in consenso dei sudditi, poi  tendono a degenerare in tirannidi, cui reagiscono gli a[ristoi dando vita ai governi aristocratici appunto, che però declinano nelle oligarchie, il prepotere dei pochi, ai quali reagisce il popolo instaurando le democrazie che dopo qualche tempo decadono nelle oclocrazie dove la folla, abituata a vivere sfruttando gli altri,  quando trova un capo audace e intraprendente (si può pensare al Cleone di Tucidide o di Aristofane), allora instaura il dominio della forza bruta, commette massacri, manda in esilio e spartisce le terre ("poiei' sfagav", fugav", gh'" ajnadasmouv"", VI, 9, 9) finché, ricaduta in uno stato completamente ferino, non trova di nuovo un padrone e un monarca .

 Di questo libro  vedremo alcuni paragrafi in greco, più avanti.

 

Momigliano si domanda “come mai Polibio abbia avuto così grande reputazione fin dal Rinascimento come interprete dello Stato romano  e teorico della costituzione mista tanto più che il De republica di Cicerone non era noto. La risposta è che quanto Polibio scriveva sulla costituzione mista (corrispondesse o no alle realtà romane) serviva ai bisogni dello Stato moderno. E’ lo Stato assolutistico moderno, con il suo problema di bilancia dei poteri tra i vari organi costituzionali e con il suo altro problema del dove risieda la sovranità, che diede autorità a Polibio. Per di più Polibio combinava le doti di un teorico politico con quelle di un maestro dell’arte militare , e ciò di nuovo fu essenziale per la sua reputazione in un tempo in cui la formazione di ufficiali educati per eserciti professionali diventò una esigenza di prima importanza”[5].

 

Pure la costituzione romana la quale è comunque la migliore per la collaborazione, il controllo, e la limitazione positive che le componenti possono esercitare reciprocamente, è soggetta al decadimento fisiologico di tutte le altre. Infatti tutti gli esseri sono soggetti alla corruzione e al mutamento ("pa'si toi'" ou'jsin uJpovkeitai fqora; kaiv metabolhv", VI, 57, 1) e le costituzioni si corrompono per cause esterne ed interne.

Le cause  esterne del corrompimento delle costituzioni sono varie, quelle interne derivano dal fatto che quando uno Stato ha raggiunto la supremazia e un incontrastato dominio (cui può avvicinarsi il "Sed ubi...Carthago aemula imperi Romani ab stirpe interiit  "di Sallustio[6]), per effetto della  prosperità che si stabilisce durevolmente, accade che la vita diventi più lussuosa e gli uomini più ardenti del dovuto nel contendere  per le cariche e le altre imprese ("filonikotevrou" tou' devonto" periv te ta;" ajrca;" kai; ta;" a[lla" ejpibolav"",  VI, 57, 5) . Quindi saranno la brama di potere "hJ filarciva" e la vergogna che viene dal vivere senza notorietà ("kai; to; th'" ajdoxiva" o[neido""VI 57 6, una vergogna molto diffusa anche oggi, quando non essere famosi, o persino malfamati, equivale a non essere senz'altro), inoltre l'ostentazione e lo sperpero delle ricchezze, a determinare  l'inizio del cambiamento in peggio.

Allora la piazza si ribellerà ad alcuni cittadini avidi di denaro e sarà gonfiata con l'adulazione da altri che mirano al potere. Quindi la massa, acciecata dal furore ("ejxorgisqeiv"", VI, 57, 8) e guidata dalla passione in tutte le sue decisioni, non vorrà più obbedire né essere uguale a chi comanda, ma vorrà essa stessa la somma del potere. A questo punto il regime prenderà il più bello dei nomi, libertà e democrazia, ma la pessima delle realizzazioni, l'oclocrazia ("tw'n de; pragmavtwn to; ceivriston, th;n ojclokrativan", VI, 57, 8).

 

Il pregiudizio antipopolare di Polibio

Mazzarino sulla decadenza implicita nelle costituzioni miste e sul pregiudizio antipopolare di Polibio :" Il passo di Polibio sulla "distruzione" e "cambiamento" delle cose umane, e in particolare dello stato romano, è forse il più famoso della sua opera:"E' anche troppo evidente che su tutte le cose impende rovina e cambiamento: la necessità di natura basta a darci una tale convinzione. Ora due sono i modi, in cui ogni tipo di costituzione suole perire: un modo è la rovina che viene dall'esterno; l'altro, viceversa, è la crisi interna (en autoîs ); difficile a prevedersi il primo, dall'esterno; preordinato il secondo". Questa preordinata fine di Roma consiste, secondo lui, nella rivoluzione delle masse cittadine: dalla quale ha origine "il cambiamento nel peggio". Come si può conciliare la polibiana "dottrina della decadenza" con l'altra, formulata dallo stesso Polibio, secondo cui lo stato romano ha una costituzione in sé perfetta, "mista" di monarchia (consoli), aristocrazia (senato), democrazia (tribuni della plebe)? E' noto che le discussioni moderne sulla genesi delle Storie  di Polibio si connettono col problema se queste due dottrine siano in contrasto fra loro: si è pensato da molti che le note polibiane sulla prevedibile fine di Roma riflettano un'evoluzione estrema del suo pensiero, il quale non avrebbe mai concepito, in una prima fase, la decadenza di uno stato a costituzione perfetta. Questa "evoluzione" del pensiero polibiano viene anche attribuita, di solito, alla suggestione degli avvenimenti connessi con l'opera politica di Tiberio Gracco (133 a. C.). Ma disagio e crisi sociale di Roma sono ben anteriori ai Gracchi. Del resto, l'ipotesi di un' "evoluzione" del pensiero polibiano deriva, almeno entro certi limiti, da un problema mal posto...In quello stesso VI libro, Polibio, mostrando la crisi della costituzione "mista" cartaginese, dichiarava che la decadenza è implicita nelle costituzioni "miste", e si verifica prima in quelle che prima hanno raggiunto la perfezione:" lo stato di Cartagine precedette quello dei Romani nella potenza e nella felicità, e d'altrettanto lo precedette nella decadenza (nello sfiorire)-infatti (nell'età della guerra annibalica), il popolo aveva in Cartagine massima potenza mentre a Roma fioriva l'autorità del senato[7]". Qui il concetto della costituzione "mista" rivela il suo vero volto, sostanzialmente aristocratico; l'avvento delle masse è lo spettro che si agita a priori  dinanzi allo spirito di Polibio, ed a cui egli adatta, per uno schema preordinato, tutta la sua interpretazione della vicenda politica-romana o cartaginese, non importa. Questo pregiudizio antipopolare limita ed oscura il suo concetto di costituzione mista, così come oscurava, due secoli prima, il concetto aristotelico di democrazia ideale. I limiti della storiografia classica sono, al solito, nella  sua connaturata difficoltà di distinguere tra "concordia" e conservatorismo...Polibio riduceva la lotta di classe, derivata dal conflitto tra latifondisti e proletari, ad una pura forma di decadenza costituzionale"[8].

 

Nella pagina seguente Mazzarino ribadisce che non c'è "un'effettiva antitesi fra la concezione polibiana della mikté , o costituzione mista, e la concezione dello stesso Polibio, che gli stati sono soggetti ad un corso e ricorso delle costituzioni (anakyklosis ) e che la costituzione mista di Roma andrà incontro alla rovina o phtorà . Una costituzione mista, così come è intesa da Polibio, consiste nell'accoglimento di forme monarchiche ed aristocratiche pur nell'ambito della terza forma "sana" di governo che è la democrazia. L'anakyklosis , che si configura come un passaggio dallo stato ferino alla monarchia e alla "degenerazione" di questa (la tirannide), indi alla aristocrazia e alla "degenerazione" di questa (oligarchia), infine alla democrazia e alla "degenerazione" di questa (ochlokratìa), è principio generale; nelle forme miste, come a Sparta o Cartagine o Roma, la costituzione è arrivata alla terza fase, ma con l'eminente vantaggio...della conservazione di forme monarchiche (a Roma l'imperio consolare) ed aristocratiche (l'autorità senatoria) nonostante la sopravvenuta democrazia. In ultima analisi, questa forma mista assomiglia alla democrazia moderata di Aristotele: non si dimentichi che secondo quest'ultimo la democrazia periclèa non si può ritenere una costituzione ideale. Quando Roma morrà, secondo Polibio, la sua costituzione sarà chiamata sempre con il nome bellissimo di democrazia, ma sarà di fatto ochlocratìa , dominio della massa"[9].

 

Bologna 29 gennaio ore 9, 12

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Oggi pomeriggio non ho studiato perché sono andato a vedere e ascoltare L’Olandese volante, un’opera di valore. E’ una storia di amore morte e trasfigurazione. Sono arrivato a casa non certo pentito ma con una punta di rimorso per la disciplina non del tutto rispettata. Per non tradirla completamente sono andato e tornato in bici (45 minuti più 45 a mezzo il giorno, cioè mezz’ora in meno del dovuto). Sarà necessario un recupero. Arrivato a casa alle 19, 30 ho lavorato per quasi due ore a Polibio. Ora posso mangiare. Poco. Che Dio me benedica e tutti voi.



 

 

 



[1]F. W. Walbank, op. cit., p. 146.

[2]Canfora, Antologia Della Letteratura Greca , vol. II, p. 458.

[3]Il pensiero storico classico , II, 1, p. 125.

[4]Areopagitico , 14. Lo stesso concetto è ripetuto in Panatenaico , 138.

[5] A. Momigliano, La storiografia greca, p. 270.

Che la decadenza sia iniziata con la caduta di Cartagine e con la fine della paura dei nemici e particolarmente del metus punicus lo afferma appunto Sallustio nel Bellum Catilinae :"Sed ubi …Carthago aemula imperii Romani ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. Qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque, optanda alias, oneri miseriaeque fuere. Igitur primo pecuniae, deinde imperi cupido crevit: ea quasi materies omnium malorum fuere "(10), ma quando…Cartagine, rivale del popolo romano, fu distrutta dalle fondamenta, tutti i mari e le terre erano aperti, la fortuna cominciò a incrudelire e a sconvolgere tutto. Quelli che avevano  sopportato con facilità fatiche, pericoli, situazioni incerte e difficili, per questi l'ozio e la ricchezza, beni desiderabili in altre circostanze, furono motivo di peso e di miseria. Pertanto prima crebbe il desiderio di denaro, poi di potere: quelle passioni furono per così dire l'esca di tutti i mali.  Il concetto torna nel Bellum Iugurthinum :" Nam ante Carthaginem deletam...metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea quae res secundae amant, lascivia atque superbia, incessere" (41), infatti prima della distruzione di Cartagine…il timore dei nemici conservava la cittadinanza nel buon governo. Ma quando quella paura tramontò dagli animi, naturalmente quei vizi che la prosperità ama, la dissolutezza e la superbia apparvero.

 

[6]De coniuratione Catilinae , 10: quando Cartagine, rivale dell'impero romano fu distrutta dalle fondamenta.

[7]Mazzarino traduce piuttosto liberamente VI, 51, 5-6 delle Storie  .

[8]Mazzarino, op. cit., II, 1, pp. 130-131 e 136.

[9]Mazzarino, op. cit., II, 1, p. 132.

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