lunedì 30 gennaio 2023

Polibio VI. Sommario libri XII- XVII


 

Il XII libro "è consacrato alla critica serrata nei confronti di Timeo"[1].

 

Ma è ora di chiarire chi sia Timeo. Storiografo nato a Tauromenio (Taormina), verso il 346 a. C., vissuto quasi un secolo, venne esiliato dal tiranno Agatocle quando questi prese il potere (316) e visse per vari decenni ad Atene dove compose le sue Storie  che raccontavano in 38 libri le vicende della Sicilia e dell'Occidente greco dalle origini mitiche  agli inizi della prima guerra punica. I libri XXXIV- XXXVIII trattavano le vicende di Agatocle. Scrisse anche un trattato su Pirro.  

Della sua opera sono rimasti solo brevi frammenti.

 

Polibio dunque "vuole screditare il maggiore storico che prima di lui avesse parlato dell'Occidente (e di Roma) in lingua greca; e soprattutto vuole che sia chiara la superiorità, come storico, del politico e militare di professione rispetto al letterato. Le sue critiche riguardano per lo più aspetti particolari ma vi è un punto di validità generale sul quale la sua rivendicazione di priorità è quasi trionfalistica: l'attuazione di un progetto di storia autenticamente "universale"[2]. Timeo viene accusato, tra l'altro, di tradire la verità di proposito, e una storia priva di verità, come un essere vivente cui manchi la vista, diviene un racconto inutile (" ajnwfele;" givnetai dihvghma",  XII 12 3).

 

Alte valutazioni di Siracusa. Personalmente le condivido.

“Polibio accusò Timeo di ‘fare gli avvenimenti di Sicilia più belli e più insigni di quelli del resto del mondo’ e di porre in Sicilia “i più saggi tra i saggi’ e in Siracusa ‘i più mirabili dei politici’[3][4].

 

In un passo del De republica Cicerone ricorda che Timeo celebrava Siracusa come la prima fra tutte le città greche: “ Urbs illa praeclara, quam ait Timaeus Graecarum maxumam, omnium autem esse pulcherrimam, arx visenda, portus usque in sinus oppidi et ad urbis crepidines infusi, viae latae, porticus, templa, muri,[5], quella città splendida, che Timeo chiama la più grande tra le greche, poi dice che era la più bella di tutte, la rocca da visitare, i porti che entrano nelle pieghe della città e fino ai marciapiedi del tessuto urbano, le vie ampie, i portici, i templi, le mura”. Con tutto questo, aggiunge l’Arpinate, sotto la tirannide di Dionigi[6], questo gioiello di città non era uno Stato: “  nihilo magis efficiebant, Dionysio tenente, ut esset illa res publica; nihil enim populi et unius erat populus ipse”, niente infatti era del popolo, anzi il popolo era possesso di uno solo.

 

La professione di verità e la ricerca dell'utile, se da una parte ci rimandano a Tucidide, dall'altra ci fanno arrivare a Manzoni il quale nella Lettera a Cesare d'Azeglio  (del 1823) scrive:"Il principio di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso mi sembra poter essere questo: che la poesia e la letteratura in genere debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo".

 

"Implacabili sono gli attacchi di Polibio contro Timeo di Taormina" nota anche Mazzarino e ne riferisce alcuni. Un obiettivo polemico è rappresentato dai discorsi contenuti nell'opera di Timeo il quale non avrebbe riportato le parole dette né il loro vero senso ma avrebbe immaginato come deve essere stato detto(" ajlla; proqevmeno" wJ" dei`  Jrhqh'nai", XII 25a 5) quindi  lo storiografo siceliota avrebbe fabbricato i discorsi con tutti i dettagli come uno che in una scuola si esercita su un tema stabilito. Lo storico serio invece deve cercare la verità delle parole, dei fatti e le loro cause. Ebbene Timeo avrebbe falsificato intenzionalmente le parole da lui attribuite: arringhe, esortazioni e discorsi d'ambasciata  "Questo problema dei discorsi nelle opere di storia risale al proemio di Tucidide (I, 22): Polibio espone una sua teoria generale su di essi"[7].

 

 

Altra polemica interessante di Polibio è quella contro gli storiografi bibliotecari:"Polibio protesta pure contro il gusto di scrivere storie nel pigro silenzio delle biblioteche. Anche stavolta Timeo fa le spese della polemica polibiana, sebbene egli non fosse davvero un pigro topo di biblioteca" Due sono i mezzi che la natura ci ha dato per conoscere e imparare le cose: l'udito e la vista: e giustamente disse Eraclito che la vista è di molto più veridica (ché gli occhi sono testimoni migliori delle orecchie). Ma di queste due vie Timeo scelse la più comoda, e meno buona. Risparmiò sempre gli occhi, usò solo l'udito...Ed è facile capirne le ragioni: la conoscenza libresca evita pericoli e rischi"[8]. Condotto alle conseguenze estreme, il realismo o "pragmatismo" polibiano identificherebbe pensiero storico e prassi politica"[9].

 

Timeo viene accusato  di errori non solo politici e militari ma anche geografici

“Non fece mai mistero di essere uno storico sedentario, e pare anche ammettesse (se il testo di Polibio va così interpretato) che mancava di esperienza militare. Donde l’accusa di Polibio che egli preferisse l’udito, cioè la lettura, alla vista, cioè ai viaggi[10]…Polibio trovò che i racconti di Timeo erano pieni di sogni, miracoli e favole incredibili e, a dirla in breve, di ignobile superstizione e di femminile amore del prodigio[11]. Ma pure dovette ammettere, tra l’altro, che la sua discussione di colonizzazioni, fondazione di città e genealogie imponeva rispetto[12]. In Timeo c’erano di fatto entrambi gli elementi”[13].

 

Il XIII libro descrive le condizioni degli Etoli e il carattere della tirannide di Nabide, re di Sparta dal 207 al 192.

Costui viene presentato come uno sterminatore di abbienti, e comunque di tutti gli oppositori,  empio, istigatore e organizzatore di rapine e delitti. Per terrorizzare  gli abbienti che si opponevano alle sue estorsioni, costui aveva fatto costruire tra l'altro una specie di macchina("kai; tina mhcanhvn", XIII, 7, 1) ossia un simulacro di donna vestita splendidamente e somigliante ad Apega, sua moglie. Questo meccanismo era irto di coltelli che, nascosti sotto le vesti, trafiggevano i ricchi renitenti i quali venivano fatti abbracciare dal mostruoso congegno e morivano urlando a più non posso. Mi chiedo se le "belle" mhcanaiv attuali, le automobili dove muoiono giornalmente centinaia  di giovani e non giovani siano congegni meno speciosi e micidiali. Un mio amico diceva che l’automobile è uno strumento per paralitici. Io aggiungo che può rendere davvero paralitici o per lo meno obesi e gottosi.

   .

Il XIV libro è ambientato in Africa dove Scipione consegue dei successi su Asdrubale e il re numida Siface, fino ad occupare Tunisi (203 a. C.).

 

Il fatto più importante del XV libro è la battaglia di Zama (202 a. C.) con la decisiva vittoria di Scipione su Annibale. Prima dello scontro i due comandanti si parlano: più interessante è il discorso di Annibale che offre una pace onorevole ricordando al più giovane avversario la mutevolezza della Fortuna la quale per un nonnulla fa pendere la bilancia dall'una o dall'altra parte, come se stesse giocando con dei bambini ("kaqavper eij nhpivoi" paisi; crwmevnh"[14], XV 6, 8. Un bel discorso che del resto non impressionò Scipione:"Che se Annibale, esperto conoscitore degli uomini, sperava di fare sull'animo dell'avversario con la sua potente personalità quella impressione che fece ad esempio su Alessandro I di Russia Napoleone I, dovette tosto ricredersi: troppo consapevole del proprio genio, troppo padrone di sé, troppo esaltato dal successo era il Romano da tollerare che altri lo dominasse"[15], commenta G. De Sanctis. Infatti Scipione rispose ad Annibale che conosceva bene la mutevolezza della Fortuna ma che faceva anche tutto il possibile per capire le situazioni umane, e in quella situazione egli voleva la resa dei Cartaginesi o la loro sconfitta che, come sappiamo; egli conseguì. 


 

 

 

Il XVI libro racconta la guerra tra Filippo V di Macedonia e Attalo I di Pergamo che lo sconfigge (201), mentre in Grecia Filopemene batte lo spartano Nabide.

 

Il XVII libro consta di 17 capitoli che alcune edizioni attribuiscono al XVIII. Comunque questi contengono l'inizio della guerra macedonica tra Filippo V e T. Quinzio Flaminino.


Excursus

Chi sono i traditori? Polibio, Demostene, Cicerone, Leopardi e la tragedia.

Interessante è la digressione su "chi sono i traditori". Sembra un'autodifesa. Non possono essere considerati tali quanti stabiliscono rapporti di collaborazione con sovrani e dinasti né quelli che nei momenti di pericolo spingono la loro città a nuove alleanze. Fece bene per esempio Aristeno, stratego della lega Achea a indurre il suo popolo, durante la Seconda guerra Macedonica (200-197 battaglia di Cinoscefale), a passare dall'alleanza con Filippo a quella con i Romani. Così lo salvò e anzi incrementò la sua potenza.

 

Demostene invece merita biasimo poiché ingiuriò come traditori tutti quanti hanno collaborato con Filippo: anche gli Arcadi e i Messeni che chiamandolo nel Peloponneso e umiliando gli Spartani("tapeinwvsante" Lakedaimonivou"", 14, 6) per prima cosa hanno permesso a tutti gli abitanti del Peloponneso di respirare ("ajnapneu'sai") e di acquisire la nozione di libertà. Inoltre hanno potenziato se stessi. Demostene dunque definendoli traditori ("prodovta" ajpokalw'n", 14, 11) sembra deviare di molto dalla verità. L'oratore ateniese anzi non fece nemmeno il bene della sua patria, poiché il risultato della sua opposizione frontale a Filippo fu il disastro di Cheronea (338). Furono dunque più meritevoli verso i Greci gli Arcadi e i Messeni che collaborarono con Filippo.

Mi sembra interessante di questi paragrafi da una parte la coerenza dell'odio antispartano, dall'altra la difesa del collaborazionismo con lo straniero potente, che è anche difesa della classe possidente, solitamente disposta a collaborare con il vincitore, e viceversa, ed è pure un'autodifesa. Ma soprattutto, Polibio è un pragmatico, mentre Demostene era ancora "predicatore delle illusioni" come dice Leopardi di Cicerone il quale, con le Filippiche appunto, voleva "persuadere i Romani a operare illusamente", ma "Cicerone predicava indarno, non c'erano più le illusioni d'una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria...eran fatti egoisti, pesavano il proprio utile...E la ragione facendo naturalmente amici dell'utile proprio, togliendo le illusioni che ci legano gli uni agli altri, scioglie assolutamente la società, e inferocisce le persone"[16]. Credo che questa riflessione sia applicabile anche a Demostene e Polibio.   

 

 Allora chi sono i traditori secondo il nostro storico pragmatico? Sono quanti consegnano la propria città nelle mani dei nemici. Nessuno di loro rimane nascosto poiché il  tempo successivo li rivela tutti ("o{ g j ejpiginovmeno" crovno" ejpoivhse fanerou;" a{panta"", 15, 7).

 

E' l'altra faccia della medaglia del verso dell'Edipo re  (614) con il quale Creonte si giustifica dicendo:"crovno" divkaion a[ndra deivknusin movno"", soltanto il tempo rivela l'uomo giusto.

 

Chi viene scoperto non può vivere felice, aggiunge Polibio, e nessuno sfugge alla punizione, poiché una voce vendicatrice ("fhvmh timwrov", 15, 12) insegue quanti sfuggono alle mani degli uomini, ed essa li tormenta anche nel sonno costringendoli a sognare ogni genere di agguato e di pericolo. Voglio chiamare in causa di nuovo la tragedia per mostrare che il razionale e pragmatico Polibio non è del tutto estraneo alla sfera dell'irrazionale, dell'inconscio e anche della letteratura drammatica dalla quale pure prende le distanze.

 

Eschilo infatti, nell'Agamennone , sostiene che con il dominio saggio e giusto di Zeus,  entrano nella storia umana leggi e sentimenti morali; allora: "goccia invece del sonno davanti al cuore/il rimorso della pena memore delle pene inflitte; e anche/sui recalcitranti arriva il momento dell'intelligenza"(vv. 179-181). Questa legge anzi assume i termini del contrappasso nel doloroso canto (Commòs ) che precede l'epilogo:"paga chi uccide./Rimane saldo, finché Zeus rimane nel trono/che chi ha fatto subisca: infatti è legge divina"(vv.1562-1565).

 

Così pure dormono male i traditori secondo Polibio poiché hanno consapevolezza della loro emarginazione e dell'odio universale di cui sono oggetto. Quindi nessuno dovrebbe tradire, invece molti lo fanno poiché l'uomo si procura diversi motivi per essere considerato il più stupido degli animali, in quanto gli altri esseri animati sbagliano per seguire i loro istinti fisici, noi non meno per sconsideratezza che per impulso naturale ("oujc h\tton dia; th;n ajlogistivan h]    dia; th;  fuvsin", XVII, 15, 16).

E qui ci viene bene un altro collegamento con la tragedia che, viceversa, non si muove solo né soprattutto nella sfera dell'irrazionale: infatti leggiamo, ancora nell'Agamennone  di Eschilo: "to; mh; kakw'" fronei'n-qeou' mevgiston dw'ron" (vv. 927-928), il non capire male è il dono più grande di dio. Quindi Sofocle nell'Antigone  fa anticipare a Creonte, che afferma:"non capire è la più grossa rovina ("mh; fronei'n pleivsth blavbh", v. 1051),  quella che è la conclusione della tragedia: Capire è di gran lunga il primo requisito/della felicità ("pollw'/ to; fronei'n eujdaimoniva"-prw'ton uJpavrcei", vv. 1348-1349).


Bologna  30 gennaio 2023 ore 19, 38 giovanni ghiselli

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[1]Canfora, Storia Della Letteratura Greca , p. 524.

[2]L. Canfora, Storia Della Letteratura Greca , p. 524.

[3] Polyb.,12, 26b= F.94

[4] A. Momigliano, La storiografia greca, p. 242.

[5] De re publica, III, 43.

[6] Dionigi il Vecchio si impadronì di Siracusa nel 405. Morì nel 367. Tra le altre cose, ospitò Platone.

[7]S. Mazzarino, op. cit., II, 1, p. 147.

[8]XII, 27, 1-6, tradotti, a sprazzi, da Mazzarino. Ce ne eravamo gà occupati studiando Erodoto.

[9]S. Mazzarino, Il pensiero storico classico , II, 1, p. 147.

[10] Polyb., 12, 27= T. 19. Cfr. Le osservazioni del commento dl Jacoby, p. 532.

[11] Polyb., 12, 24, 5.

[12] Ibid., 26d, 2=T. 19.

[13] A. Momigliano, La storiografia greca, p. 245.

[14]Un'idea che ritroviamo nel Re Lear di Shakespeare:"As flies to wanton boys are we to the gods-They kill us for their sport (IV, 1), noi siamo per gli dèi quello che sono le mosche per dei monelli capricciosi: ci ammazzano per loro passatempo.

[15]G. De Sanctis, Storia Dei Romani , vol. III, parte seconda, p. 536.

[16]Zibaldone , 22-23.

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