Il diavolo mi suggeriva che difficilmente la bellezza si accompagna alla verecondia.
Attirato e incuriosito, andai dalla fanciulla radiosa e le domandai perché mi osservasse e sorridesse così simpaticamente.
Glielo chiesi in modo molto diretto. Fisicamente mi sentivo in gran forma, affettivamente e sessualmente avevo le spalle coperte dalla bella donna finnica: potevo rischiare anche un secco rifiuto dalla luccicante pulzella che, in tal caso, avrei considerato una ragazzetta incosciente, ancora incompiuta.
Nove anni di differenza non bastano a fare scattare la comprensione del padre verso la figlia.
La ragazza rispose molto benevolmente che voleva conoscermi poiché amava il greco e il latino e aveva saputo che li avevo studiati nell’antica Università di Bologna.
“Sei molto carina”, le dissi, “sei l’Afrodite di Debrecen”. Poi le chiesi: “Vuoi ballare con me?”.
“Pourquoi pas?”, fece lei con un filo di voce, poi si alzò, e mi pose le braccia intorno alle spalle. Bellina, bellina assai.
Ma avevamo poco da dirci: il suo amore per le lettere classiche era più velleitario che altro, data l’età, e io, dopo due anni di insegnamento alle medie e il servizio militare, stavo dimenticando il latino e ancora di più il greco .
Dicevamo luoghi comuni infarinati di classicità. Però lei era davvero molto carina, gentile, volteggiava elegante come una rondine. Accordava con me l’amabile cadenza dei piedi, delle mani, dei sorrisi. Mi attraeva in modo straordinario.
Forse desideravo una figlia dopo avere trovato la madre. Un virgulto odoroso di carne, aulentissima, lievitante, preziosa. Il desiderio della donna-figlia si sarebbe ripetuto nella mia perpetua carenza di progenie.
Soprattutto dopo l’abortimento della bambina che aspettavo da Päivi, la finnica amata nel 1974.
Ma forse cominciavo a sentirmi attirato dalle femmine giovani, le donne figlie per succhiare come un vampiro la loro gioventù e ritardare il più possibile le due Kh're" mevlainai deprecate da Mimnermo: la vecchiaia e la morte.
Dopo qualche minuto di ballo, ci sentimmo stranamente legati da qualche arcano e ambiguo vincolo culturale, o razziale, o scolastico: la fanciulla di Strasburgo si sarebbe iscritta a lettere classiche in autunno. O forse, più semplicemente, ci piacevamo. Fatto sta che lei mi guardava negli occhi con un sorriso per lo meno accattivante, mentre io le sussurravo lusinghe come “tu sei intelligente, raffinata, carina, colta, profumata, preziosa”.
L’aroma di quel dolcissimo, giovane corpo in effetti mi inebriava.
Lei rilanciava, dicendo che mi aveva visto correre a mezzogiorno, nello stadio, classicamente, cioè quasi nudo, abbronzato, leggero e potente, con un ritmo e una forza che le ricordavano quelli degli agonisti celebrati dalla dorica lira di Pindaro. Mi schermivo dicendo: Velox sum? Et equi.
Probabilmente i suoi complimenti sperticati corrispondevano alle spacconate o alla falsa modestia con le quali cercavo di affascinarla. Non ricordo. Anche io la adulavo, poiché le lusinghe funzionano sempre, perfino con le vestali e, dunque, anche con le pulzelle illibate.
Lei sorrideva compiaciuta e mi guardava negli occhi. Ma forse, più che attirata dalla mia persona e da quanto facevo o dicevo, la ragazzina era stuzzicata dal pensiero, caro alla sua vanità adolescenziale, che l’adulto già accoppiato con una donna coetanea, il professore bravo, intelligente e sportivo quale nella sua ingenuità credeva che io fossi, travolto dalle sue grazie fiorenti, dai suoi vezzi freschissimi e dolci, arrivasse a umiliare la bella compagna e se stesso. Probabilmente era vergine e, ad una mia proposta diretta di sesso avrebbe opposto un rifiuto secco, magari pure sdegnato. Lo immaginai, e anche per questo evitai il tentativo di affondo, nonostante sentissi montare la fregola. Era tutto un gioco, o una commedia e la magistra ludi era lei.
A un tratto la ragazza mi domandò se cercavo una figlia.
“Non ancora”, risposi in francese usando alcune tra le poche parole che conoscevo di questo gergo romanzo.
Comunque ero molto tentato e avevo cominciato a parlarle dell’orto botanico e degli alberi strani, di fiori mostruosi dal nome latino scritto in un cartello che forse, per certam lunam sub luce benigna, poteva essere letto con piacere da noi due, amantissimi della classicità.
Ubriacato dall’aulente fanciulla, e pure dalle palinche all’albicocca, rischiavo di abboccare la ghiotta, saporitissima esca della sua gioventù, sfondarmi il palato ingordo con l’amo, e perdere la donna che avevo convinto a contraccambiare il mio amore in nome della felicità e della crescita umana di entrambi. Il mio demone buono mi trattenne, ma la tentazione fu grande. Con la testa confusa sotto il cielo stellato mi domandavo se era il caso di stringermi forte al petto la graziosa che da parte sua aveva accostato, la sua incantevole faccia liscissima alla mia già un poco solcata da rughe e dolori. Intanto Ezio e il povero Alfredo che ancora oggi compiango, da dietro le spalle della francesina mi facevano segno di non lasciarmela sfuggire, tanto le donne tradiscono sempre, da sfacciate pantere quali appunto sono tutte o quasi, e noi dobbiamo adeguarci.
Quindi i due compari, attempatelli e ancora studenti, scoprendo denti affamati, battevano i pugni sul tavolo, piegavano i colli e abbassavano le teste, compiaciuti del ritmo, quasi certi di rafforzare e rendere logica la loro proposta di libertinaggio tambureggiando diabolici ditirambi nella notte dell’estate già tarda.
Mentre mi domandavo se tradire Elena, posto che la fanciulla mi si fosse concessa, mi avrebbe procurato maggiori piaceri o rimorsi, a un tratto sulla terrazza del casinetto del tennis, sotto la luna incerta, nel fosco bagliore di una luce quasi maligna, apparve la donna matura: aveva il volto stanco e l’aria infelice, come se fosse disgustata o davvero malata.
Come vide me e i due sodali che mi aizzavano ferocemente, il suo volto assunse un pallore spettrale, quasi fosforescente.
Bologna 14 aprile 2022 ore 18, 40
giovanni ghiselli
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