giovedì 14 aprile 2022

Helena 29 Le due madri.

Helena 29

Le due madri: la mamma etrusca di Borgo Sansepolcro e la mamma finlandese di Yväskylä.

 

“Ecco la mamma”, pensai.

 

Digressione su mia madre

 

E mi venne in mente la mamma mia, di occhi azzurri e di capelli nerissimi, quando durante il pranzo mi guardava fissamente, con aria ostile, poiché non le davo retta e non si sentiva amata abbastanza, o pensava di essere mal giudicata da me, o posposta alle sorelle sue. Io l’amavo come non ho più amato nessun’altra donna in vita mia, ma non riuscivo a farglielo capire, e lei si sentiva ingiustamente sottovalutata in favore delle zie, le sorelle sue, Rina e Giulia, dalle quali mi rifugiavo poiché, a mia volta mi sentivo non capito e non apprezzato dalla madre mia. Quando la Giulia, che come la Rina non aveva figli, mi portava a Moena, tutti gli agosti degli anni Cinquanta, sentivo la mancanza della mamma, il desiderio di una cartolina di lei,al punto che ogni  mattina aspettavo il postino, o addirittura gli correvo incontro, sperando di leggere parole sue. Anche solo “Saluti e baci. Mamma”. Ma queste quasi mai arrivavano, e io aspettavo il giorno seguente, e agognavo il ritorno a Pesaro per provare di nuovo a piacerle, a conquistarne l’affetto, la stima, l’ammirazione.

 

Elena era una mamma, bella e bruna anche lei, e quella sera del 4 agosto 1971, mentre i crapuloni pieni di palinke e vini ripetevano quei loro ontosi metri contro le donne, avrei potuto far pagare a quella femmina gravida le frustrazioni subite dalla mamma mia quando era indifferente o furente perché non le obbedivo e non si sentiva amata da me. Elena però non era furente né indifferente, anzi conservava lo sguardo buono anche quando era infelice.

 

La madre mia solo quando il grande dispetto le era passato, diventava affettuosa. Allora mi accarezzava i capelli e diceva: “Pipo, sei bellino, sei buono, a scuola sei il più bravo: io sono fiera di te. Ho sempre desiderato un figlio così; tu mi ripaghi di una vita tribolata. Hai occhi grandi e belli, anche se non hai preso il colore dei miei: i tuoi sono color cacca, però si vede lo stesso che sei intelligente. Una volta, quando eri piccino piccino, avevi forse tre anni, ti portai da un calzolaio troppo caro secondo me. Sicché io volevo uno sconto e tu, che avevi capito tutto, per sostenermi, dicesti più volte “brutte ’ca’”, brutte scarpe.

Appena hai imparato parlare, hai dato segni di genio. Mi aspetto molto da te. Vedrai che uomo diventi e quanto ti ameranno le donne! Quando mi fai arrabbiare, ti sgrido, talvolta ti do qualche scapaccione, ti tiro per la cuticagna, ma ti voglio bene lo stesso!”

Allora sentivo che quella donna mi capiva, mi apprezzava e mi amava. E fuggivo nel bagno per piangere, ma di consolazione e di gioia, poiché la mamma  contraccambiava il mio amore.

Era l’unica donna che mi piaceva del tutto e mi emozionava, perché era bruna, di capelli nerissimi e occhi colore smeraldo, oppure, secondo la luce, men chiara o più chiara, azzurri. Aveva l’incarnato sempre brunito dal sole, era ben fatta, snella e formosa, elegante, ma ancora di più la ammiravo poiché era capace di pensieri originali, di azioni sue, magari non tutte buone, però sue, non imitate da altri, e sapeva dare giudizi brevi e acuti su un personaggio, un libro, un film.

Se amo la letteratura e il cinema con la loro potenza ricreativa, lo devo anche a lei, soprattutto a lei.

Le zie erano state fascistizzate e pretificate; il nonno beveva, rimpiangeva le sue numerose ex amanti e le tante gare ciciclistiche vinte; la sorella era ancora un’infante, la chiamavamo toscanamente “la Citta”, cioè la bambina; la nonna Margherita gelosa faceva la guerra alla serva di casa, una poveretta scema, brutta e mezza vecchia, ma - “ghiotta per quel porcaccione del tuo nonnaccio” - diceva. “Non diventerai mica come lui, vero?”. A me voleva bene però. 

E per stornare le corna, d’inverno sputava nelle fiamme del focolare, in cucina. Mia madre aveva un’anima: non sempre diritta e lucida invero, ma ce l’aveva. E io per questo l’amavo, l’amavo come non ho amato mai più, né mai più probabilmente amerò una femmina umana mortale, e la prendevo sul serio, e volevo correggere le sue distorsioni con un impegno che non avrei messo nemmeno con le mie figlie spirituali: mia sorella Margherita, Luciana, Ifigenia, Carlotta, Daniela, Polina e le altre. Sbagliavo a volerla cambiare e soffrivo quelli che, con la mia piccola e misera mente dogmatica, consideravo i suoi errori. Non erano errori. Era la natura sua, una natura non fiacca, quella che mi ha trasmesso oltretutto, e io gliene sarò grato per sempre.

Quando capivo che anche lei mi amava, piangevo di gioia; poi mi osservavo a lungo nello specchio, e notavo quanto le somigliavo nel volto bruno bruno, nell’espressione degli occhi tagliati a mandorla, seppure di colore del tutto diverso, nel naso pronunciato in modo nobile e bello. Antichi entrambi. Antichi etruschi di Borgo Sansepolcro eravamo. E nel mio volto vedevo la stessa sua irrequietezza, la stessa follia geniale, ispirata, che volevo rivolgere al bene, a creare qualcosa di buono, di bello, di grande.

Questo avveniva negli anni Cinquanta, verso la metà degli anni Cinquanta, quando avevo una decina di anni.

 

Il 4 agosto del ’71, vicino oramai ai ventisette, potevo evitare di opprimere una donna che mi aveva aiutato, risparmiandole un’ingiustizia dolorosa e umiliante. Avevo incontrato una persona che si era fidata di me, riconoscendo l’uomo tendenzialmente buono e intelligente che volevo diventare, che forse, ora prossimo ai settantotto anni mi avvicino a essere. Non dovevo tradire la sua fiducia. Elena però doveva aiutarmi poiché il mio animo, come la testa materna, era ambivalente, intermittente, incline alla seduzione attiva e passiva, allo qumov~3 anche distruttivo, seppure non tanto quanto quello della madre furente e assassina immortalata da Euripide.

 

Nell’ottobre del 2011 la mamma mia è morta, pochi giorni dopo avere compiuto novantotto anni. Grazie a Dio, eravamo del tutto pacificati e armonizzati noi due, da tanto tempo oramai. Ci eravamo riconosciuti. Ci fidavamo completamente l’uno dell’altro. Ci amavamo molto alla fine. Ne eravamo felici entrambi. La notte del giorno della sua morte pedalando sulla pista ciclabile tra Pesaro e Fano, l’ho sentita vivere nelle stelle, nell’innumerevole sorriso delle increspature marine che riflettevano la luna, una luna crescente piena di luce. Ho sentito la mamma viva nell’armonia della vita dell’Universo. E ho pianto di dolore ma anche di gioia, come quando ero un bambino davanti allo specchio. La mamma non era sparita: era viva nel cosmo e viva dentro di me. Non è uscita dall’Universo la mamma. Tanto meno è uscita da me, piuttosto è entrata in me. Sono certo che rimarrà viva, e bella, e buona per sempre. La madre terra è in mezzo alle stelle e tu mamma, sei dappertutto, in quelle lucentissime margherite del cielo, nel sole che ci abbronza e ci rende più belli, nel vento che ci accarezza, nelle farfalle che volano sui fiori d’oro che ti piacevano tanto, negli uccelli dell’aria, nei piccioni e nei passeri cui davi da mangiare ogni mattina.

Ti ritrovo dovunque, sempre pronta a darmi il coraggio e la forza di diventare quello che sono, di fare le cose buone e belle che devo a me stesso e devo a te che mi hai dato la vita.

Quando mi osservo allo specchio, e vedo nel mio volto, l’impronta del volto tuo, irrequietoe  geniale, sussurro: “Tu sei la mia mamma, tu sei la mia mamma”, e lo bacio. Poi tocco le vene azzurre della parte interna dell’avambraccio e dico: “questo è sangue di Luisa”.

 

Ma torniamo all’era di Debrecen, precisamente alla sera del 4 agosto del 1971, ai miei ventisei anni e otto mesi.

Diedi retta al mio demone che non voleva il male della donna pregna, né quello del feto, né il mio. Sarebbe stata azione non degna di me.

Mi scusai con la ragazzetta francese che mi salutò citando a sua volta La montagna incantata: “N’oubliez pas de me rendre mon crayon”4. Forse era l’incoraggiamento che avevo cercato.

You are quoting from Thomas Mann, le dissi con un sorriso di approvazione. Avevo riconosciuto l’allieva.

 La salutai, poi andai in fretta da Elena che aveva osservato e, probabilmente, compreso.

“Ciao cara, come vanno la salute e l’umore? ”, le domandai non senza imbarazzo.

“Non bene”, rispose con serietà. “Ti voglio parlare, ma non qui tra la gente e il chiasso. Andiamo a fare due passi”. Aveva visto e capito che ero stato lusingato e attirato dalle moine, le parole e i vezzi di quella adolescente liscia e fresca come una prugna, spregevolmente da parte mia, dopo tutti i giuramenti d’amore e di stima impiegati per convincere lei, la donna di un altro, di uno lontano, a venire a letto con me, con l’uomo che diceva di amarla quanto un uomo buono ama la vita.

Le proposi di andare in collegio, in camera mia, dove si poteva parlare stando seduti e guardandoci in faccia. Sentivo anche io il bisogno di una spiegazione chiara e completa.

Il collegio era deserto, la camera vuota. Ci sedemmo sul letto ordinato, e casto, di Fulvio, l’ottimo Fulvio. Nemmeno con se stesso fornicava l’amico innamorato della futura moglie.

“Senti Gianni”, cominciò andando direttamente al centro della questione, “se la mia presenza ti pesa, io posso tornare in Finlandia direttamente, domani”. Aveva gli occhi gonfi, rossi, cerchiati, e l’aria infelice. Ancora una volta, con la sua capacità di arrivare subito al nocciolo, con la sua calma, pur nel dolore, mi dava una lezione di intelligenza e di stile. La guardavo, pensando quanto era diversa dalla gente rozza assai, e affettata, che frequentavo di solito; quanto mi rendeva migliore. Riflettevo, esitavo a rispondere. Allora si mise a piangere sommessamente. Finalmente parlai. Dissi: “Elena, non piangere, ti prego, mi dispiace, non piangere. Fammi capire che cosa ti rende infelice. Io voglio aiutarti”. Si asciugò gli occhi, poi mi guardò con fermezza e disse: “A me dispiace di essermi lasciata andare ad amarti troppo presto. Ti ho creduto quando dicevi di amarmi, e mi sono sbagliata”.

“ Non ti sei sbagliata”, la confutai, ma senza la convinzione e la forza necessarie a lenirne la pena.

Allora disse: “Non essere falso almeno. Ho visto quanto ti attirava la ragazza francese e quanto avresti voluto essere libero per lasciarti andare con lei. Ebbene, puoi farlo, o puoi continuare a farlo. Non preoccuparti per me: considerati libero, come se non mi avessi mai conosciuta; io adesso torno in camera mia e domani sparisco dalla tua vita. Addio”. E si mosse per andare via.

 

Bologna 14 aprile 2022 ore 19, 03

giovanni ghiselli

p. s

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