martedì 12 aprile 2022

Il grande bosco di Debrecen. Elena e Fulvio


 

 

“Il grande bosco è rimasto per sempre il bosco più bosco di ogni bosco, più suggestivo delle foreste del Caucaso o della Svizzera, forse perché crescendo su terre sabbiose forniva un esempio di tenacia che gli dava una vita, nonostante le sue misere risorse, piena di forza e di robustezza, che altrove non vedevo mai”. Questa è Magda Szábo, la brava scrittrice di Debrecen cui da qualche tempo è intitolato il caffè sotto l’ hotel Aranybika.

 

Fulvio però, dopo avere letto le mie pagine sulle nostre estati antiche, ha detto che il cantore di Debrecen sono io e che dovrebbero dare il mio nome alla Nyári Egyetem, l’Università Estiva dove abbiamo passato alcuni mesi tra i più belli di nostra vita mortale. Caro compagno dell’età mia nova, e pure di questa età da rinnovare, ricordi ancora quei nostri giorni fatati e fatali? E come potresti averli scordati, carissimo amico in esilio anche tu dalla nostra città incantata? All’apparir del vero anche se non siamo caduti, ci siamo annoiati. Ora va meglio. Io scrivo e tengo conferenze, faccio lezioni per educare i giovani a non dimenticare il bello, il buono, la cultura e l’arte.

E il mio blog, sapessi che soddisfazioni mi dà con le tante visite quotidiane di persone che mi leggono, e con me i nostri classici greci, latini, italiani, inglesi, russi e tedeschi!

 Pensa agli scrittorucoli che, pur pompati dai media, nessuno legge perché non dicono niente!

Ti ricordi quella canzone, mi pare si chiamasse Delilah: “C’era una volta un bianco collegio fatato, un grande mago l’aveva creato per noi”?

 Sì, noi si amava, amavamo le donne e ci volevamo bene tra noi, tu, io e parecchi altri. Perfino agli ubriaconi come Danilo volevamo bene! Cantavamo insieme, mezzi brilli anche noi. E adesso chi vuole più bene a chi? Chi canta più in coro in  tutte le lingue: “Gallus est mortus, gallus est mortus, gallus est mortus, gallus est mortus, non cantabit iam coccodì coccodà, non cantabit iam coccodì coccodà”?

Oppure Bocca di rosa: “La chiamavano Bocca di Rosa, metteva l’amore, metteva l’amore. La chiamavano bocca di rosa, metteva l’amore sopra ogni cosa”. Chi ama più?

 Intanto io continuo ad amare, a cantare la nostra bella Debrecen che non c’è più, con la sua Università circondata da grande bosco, privo di sfarzi dipinti o scolpiti ma ricco di gioia, di affetti, di sapere più dei tanti ambienti falsi, inquinati, invidiosi che abbiamo frequentato in seguito.

Ora del resto il ponticello del bosco non c’è più, né l’Hungaria, la nostra Ungheria non c’è più. Non c’è più sulla terra ma c’è ancora nella mia testa e nel cuore, come te amico mio carissimo, come te.

 

Ma torniamo alla sera del primo agosto del 1971.

Prima di andare a dormire Elena e io facemmo un giro nel bosco. Non senza qualche sosta.

Le cantai e tradussi, con variazioni minime, una strofa della Canzone di Marinella di Fabrizio de Andrè, un altro dei miei educatori.

 “E c’era il sole e avevi gli occhi belli,

io ti baciai le labbra ed i capelli.

C’era la luna e avevi gli occhi stanchi,

io misi le mie mani sui tuoi fianchi”.

Minä rakastan sinua, mi sussurrò nella sua lingua dolce. Le risposi con un sorriso: non sapevo dire “anche io” in finlandese. Ma non era necessario: si vedeva che l’amavo. Si vedeva dal piacere mai esausto. Non c’era bisogno di dirlo. Dallo lo sguardo sentiva e io sentivo lei.

 Eravamo felici. Una donna e un uomo in mezzo alla natura. Dove l’Italia e la Finlandia si erano strette in alleanza.

 Senza calcoli, senza arzigogoli, senza dolore, senza noia: nient’altro che noi due, il nostro amore e la nostra felicità. Sono rari nella vita momenti del genere.

Vengono e vanno. Comunque ritornano, siccome il cammino della vita, come quello dell’eternità ha le sue curvature, i suoi giri. Ma questo con Elena, posso dirlo dopo tante e varie giravolte, è stato il più bello.

Nei paraggi scorreva un fiume. Dissi a Elena che potevamo andarvi per fare una nuotata. “Voglio ribattezzarmi nelle onde della vita dopo il nostro amore di oggi”, spiegai con aria mistica.

“Sei matto?” domandò quasi incoraggiandomi tuttavia con l’espressione. “No, non sono matto; voglio sfogare un poco della mia gioia e sento il dovere di fare una bella figura con te”.

“Non ne hai bisogno”. “Lo so, ma voglio farla lo stesso. Non temere: io sono cresciuto al mare. Sono pieno di chiarori di gorghi e di flutti, non sono una creatura marina storpia e mutilata né questo fiume trasuda olio e catrame”.

“Allora va bene” acconsentì lei con un sorriso giocondo. “ti guarderò dalla riva e, se tornerai quale eroe vincitore come hai appena promesso, ti applaudirò per la tua forza in campi diversi. Poi torneremo in collegio. Domani ci baloccheremo di nuovo”.

“Il mio campo sei tu Elena”, le dissi

Eravamo contenti di noi e della vita. La sua ironia derivava dalla confidenza e mi rallegrava.    

 

Andammo a dormire ciascuno nel proprio collegio, ma nel sonno gocciava davanti agli occhi il sogno che eravamo nello stesso letto e facevamo l’amore. Elena e io.

Bologna 12 aprile 2022 ore 19, 29

giovanni ghiselli

 

p. s

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