Arrivato nella piazza dell’ospedale universitario, Orvostudományegyetem, era già imbarazzante la scritta sul frontone della facciata principale, udìi un tuono alato di Zeus che aprì il cielo del tutto e vidi Elena prprio io, con gli occhi miei[1], mentre con il suo incedere elegante si avvicinava al grande cancello d’ingresso: la candida veste e l’incarnato bianchissimo risplendevano al sole che, annunciato poco prima da Iride, la grande sciarpa multicolore del cielo, e sviluppatosi completamente dalla bruma innaturale in quella stagione, con la sua luce piena, eroica, restituiva colori e significati buoni alle persone e alle cose.
La metamorfosi di Debrecem nella città dei Cimmeri coperti di nebbie e di nubi, si era ribaltata, e il grande bosco era tornato a essere la divina foresta spessa e viva del mio paradiso terrestre.
La luce donava il proprio valore a tutte cose, rendeva piena di significato anche l’ombra.
La caligine del mio angoscioso disgusto era stata vinta dalla luce possente della fulgida estate tornata a confortare la terra.
A me mostrava il bene massimo: la donna mia che camminando faceva danzare i raggi del sole mentre la illuminavano tutta.
La sua carne vibrava di luce, la potenziava magicamente, la moltiplicava.
Il cielo mi appariva di limpidezza translucida. Nelle aiuole ardevano fiori d’oro. Frusciavano liete le fronde del bosco, non si udivano più strillare uccelli sinistri.
I capelli corvini dalle iridescenze ultraterrene screziavano la pelle e il vestito di Elena con pennellate luminose, come l’ombra meridiana degli alberi variegava il verde vivo dell’erba di chiazze dense, scure, brillanti.
I binari del tram riverberavano i dardi festosi del sole.
Tutto sfolgorava di bellezza e di gioia, tutto imprimeva un moto allegro e vivace al mio sangue che pulsava rinato nelle vene del corpo e della mente resuscitata. Lucidi torrenti scorrevano fuori e dentro di me.
Ogni cosa era più viva, più bella, più ricca di segni divini.
Il sole, amico della bellezza, donava gocce d’oro, e aveva fatto fuggire nelle caverne le orrende creature della notte. La felicità aveva restituito alla madre terra le sue trecce verdi, le sue mammelle ubertose, a me la forza, la bellezza e la grazia di rinascita voluta da Dio. Ogni deformità era sparita.
La natura si riapriva, pullulava di vita.
Raggiunsi l’amabile amata e le chiesi se potevo aiutarla.
Il petto le sfavillava e fluttuava ad ogni passo, immillando i sorrisi del sole.
Rispose direttamente e con nobile semplicità “sì, certo”, non senza un lieve sorriso di gratitudine, poi spiegò che si era mossa da sola perché dopo le ore di scuola non mi aveva visto arrivare, ma sperava che l’avrei raggiunta presto: continuava a pensare che il mio aiuto le sarebbe stato prezioso.
“Avrei voluto portarti una collana di fiori freschi raccolti da un prato immacolato del sottobosco sfiorato dal sole e intrecciati con queste mie mani che pero mi tremavano troppo per la paura di non trovarti.
Del resto il fiore supremo, il più desiderato e difficile a cogliere sei tu”, le dissi commosso.
Elena rendeva lucida e profumata l’aria del mezzogiorno estivo con i suoi sospiri. Dopo gli occhi che l’avevano vista da lontano, ora ne gioiva, da vicino, l’olfatto. “Di dolcissimo odor mandi un profumo che il mio cuore consola[1]”, pensai
Poi le raccontai che l’avevo aspettata sul prato che separa e unisce i collegi, quindi l’avevo cercata con una certa apprensione, ed ero felice di averla trovata finalmente, e di potere aiutarla. Avevo un’aria da uomo pio, protettivo, quasi paterno.
Aggiunsi che non poteva avere alcun morbo, in quanto la malattia è cancro della bellezza e la sua risplendeva priva di macchie.
Così entrammo insieme, prima nel giardino del complesso ospedaliero, poi nella “Clinica delle donne pregnanti e malate” dove un medico nero la visitò, poi ci disse in ungherese che la signora aspettava un bambino.
Disse anche “ambulantia” che significa “ambulatorio”, ma Elena credette che significasse “autoambulanza” a mi supplicò di portarla con l’automobile mia. Glielo assicurai, con un tono di mondana leggerezza, senza chiarire l’equivoco perché mi sembrava inutile, e pure, a dire il vero che non mi fa onore, per aumentare l’importanza del soccorso mio. Residui di calcolo poco nobile, da affarista.
Aggiunsi pure una battuta: “ti pare che potrei non darti un passaggio? Per te attraverserei a nuoto l’Ellesponto come Leandro, e senza affogare. Tu mi dai la forza della vita”. Sorrise compiaciuta
La nostra intesa aumentò.
La bella donna, aperte le braccia con lieto sembiante, mi baciò due volte la faccia.
Mentre uscivamo, osservai una statua situata vicino all’ingresso. Non so quale luminare della medicina di Debrecen rappresentasse, ma la interpretai come un’immagine del dio Priapo, un dio davvero grande e importante[2], che ammiccava lascivo rasentando la malizia e alludendo a una sorta di complicità. Accipio omen gli dissi con aria da maschio vicino al trionfo, protetto da tanto nume.
Sentivo che Cloto aveva impiegato fili robusti per tessere la trama della mia vita. Lo sento ancora.
Note
[1] Cfr Satyricon, 48, 8 "nam Sybillam quidem Cumis ego ipse oculis meis vidi in ampulla pendere, et cum illi pueri dicerent: "Sivbulla tiv qevlei"; " respondebat illa: " jApoqanei'n qevlw". Infatti la Sibilla di sicuro a Cuma l'ho vista io stesso con i miei occhi sospesa in un'ampolla, e dicendole i fanciulli: 'Sibilla, cosa vuoi? ' rispondeva lei. 'morire voglio'.
[2] E’ il dio dell’erezione, per chi ancora non lo sapesse e invece di pregarlo dalla mattina alla sera, prende il viagra, vergognosamente. L’ira santa di Priapo colpisce questi farabutti snervati, dai non protesi nervi
Bologna 7 aprile 2022 ore 11, 50
giovanni ghiselli
p. s.
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Ora dunque: voglia di
pedalare, voglia di pedalare in salita!
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