NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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lunedì 4 aprile 2022

Edipo re di Sofocle, III parte. Prologo e Parodo.


 

Ora consideriamo la struttura  rilevando argomenti, facendone  un riassunto ragionato , mostrando i nodi ideologici, e anticipando alcuni dei riferimenti letterari presenti nelle note.

 

Il prologo si estende per 150 versi.

Edipo esce dal palazzo e vede il popolo che prega per stornare un flagello. Pur sapendo di che si tratta, chiede a un vecchio sacerdote di informarlo.

Segue la descrizione della "peste odiosissima"(loimo;" e[cqisto", v.28) che consuma Tebe, poi la richiesta di aiuto a chi già una volta ha saputo risollevare la città da parte del religioso.

Quindi entra in scena Creonte, il fratello della regina Giocasta, che era stato mandato a Delfi per interrogare l'oracolo: questo ha risposto che bisogna allontanare la contaminazione dalla regione ( mivasma cwvra"  (…) ejlauvnein, v.97).

Come il preludio di un'opera lirica, il prologo contiene diversi motivi che verranno sviluppati nel corso del dramma.

Il resto della tragedia serve a scoprire che la lordura inquinante è il re stesso impegnato a condurre la ricerca. Sono i  delitti da lui commessi, congiunti alla miscredenza sua e di Giocasta, a rendere improduttiva e malata la terra.

 

Analogo collegamento tra empietà e sterilità troviamo in un'altra grandiosa descrizione della decadenza, nel Satiricon   di Petronio(44): quia nos religiosi non sumus. Agri iacent, poiché noi non siamo religiosi. I campi rimangono abbandonati.

 

Nella tragedia si sentono echi di riti purificatori con vittime sacrificali, prede braccate che fuggono invano; e mentre la caccia si scatena, il re , senza avvedersene si identifica con l'animale espiatorio.

Già al verso 109 scorgiamo una metafora venatoria ancora avvolta nell'oscurità; nel secondo canto corale essa si chiarifica e precisa nell'immagine del toro del sacrificio ( petrai'" oJ tau'ro", v.478, il toro delle rupi) che, bandito in solitudine, cerca di allontanare i vaticini dell'ombelico della terra; ma questi, sempre vivi, gli volano addosso(479-482). Si tratta proprio di Edipo .

 

L'affermazione della forza degli oracoli è centrale in Sofocle quanto in Erodoto: se vengono trascurati o irrisi i loro responsi,  gli stessi dei vanno in malora(e[rrei de; ta; qei'a, v.910).

 

“Sono gli oracoli a muovere i fili della vicenda (…) Gli dèi sono invisibili, la loro volontà è oscura, ma essi agiscono potentemente nella storia individuale e in quella collettiva. Il destino di Edipo (lo apprendiamo nell’Edipo a Colono) gli era già stato rivelato tutto intero quando in gioventù era andato a Delfi per interrogare Apollo: “tu ucciderai tuo padre e sposerai tua madre” era stata la prima parte della profezia; “ tu morirai presso un boschetto delle Eumenidi, accolto dagli dèi” è la seconda che Edipo non aveva mai riferito, ma che ora rivela ad Antigone. E Ismene ne porta una terza: “la vittoria sarà di quelli presso i quali sorgerà la tua tomba”. Le tre predizioni si saldano fra loro e tolgono ogni margine di dubbio al protagonista: non gli resterà che seguire docilmente il volere di Apollo, contro il quale, da tempo, ha rinunciato a lottare. Questo fatto sgombra l’orizzonte da ogni ambiguità. Nell’ Edipo Re Apollo era stato il Lossia, tortuoso e ingannevole; nell’Edipo a Colono è diventato tutto a un tratto “chiaro” (safhv~) (…) L’Edipo fiero del suo sapere laico e razionale nell’Edipo Re, che polemizzava contro gli oracoli e le argomentazioni dell’indovino Tiresia, lascia il posto a un Edipo che rinuncia all’orgoglio della ragione. Forse per questo Apollo ora è più clemente. L’oracolo infatti, per sua natura, non è lì tanto per palesare la sapienza nascosta degli dèi, quanto per rendere evidente la distanza che passa tra un uomo e il dio: la sua funzione primaria non è di rispondere alle domande degli ejfhvmeroi, coloro che “vivono un giorno”, ma di riaffermare l’incapacità dell’uomo di comprendere le regole che governano il destino”[1].

 Chi fraintende gli oracoli, o peggio, tenta di calpestarli, precipita nella rovina. Così la sciagurata Giocasta, così il suo infelice figliolo, così Creso, il pacchiano re lidio dello storiografo di Alicarnasso.

 

Nella Parodo (vv.151-215), il coro, il quale, secondo la definizione di Hegel "non agisce ed ha dinanzi a sé solo l'universale"[2], proclama la propria fede negli dei, con un moto di riconoscenza (v.167 e[lqete kai; nu'n venite anche ora ) che è tipica dell'uomo greco in preghiera e ricorda il verso 25 (e[lqe moi kai; nu'n) dell’ode di Saffo (1 LP) simile nella struttura  a un inno cletico.

Nella seconda strofe della parodo troviamo una delle idee forti del dramma: contro il male, non c'è arma di pensiero( ouj d j e[ni frontivdo" e[gco", v.170) che valga; è necessaria la pietà e l'amore umano che si  attivi  accordato con quello divino. Ci permettiamo di osservare che tale sfiducia nella ragione torna periodicamente negli scrittori europei ogni volta che essa si riveli incapace di accrescere la felicità umana, o anche solo di ridurre il fardello del nostro dolore.

Nemmeno di fronte a questa terribile guerra nell’Ucraina bastano le armi della mente né quelle del braccio: sono necessarie la pietà e la carità.

 

Bologna 4 aprile 2022 ore 10, 29

giovanni ghiselli

p. s

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[1] G. Guidorizzi, Sofocle Edipo a Colono, p. XXIII

[2] Estetica, p.1429

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