NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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domenica 1 gennaio 2023

Nietzsche 20 Vecchiaia-Giovinezza e altri argomenti.

Nietzsche: “Coloro che sospirano pensando alla giovinezza, per esempio agli anni universitari, destano il mio stupore: è segno che sono diventati meno liberi, e che allora si sentivano migliori. Io sento esattamente nel modo opposto e nulla conosco di meno desiderabile dell’infanzia e della giovinezza: io mi sento ora più giovane e libero che mai[1].

 Viceversa sono diffuse le maledizioni della vecchiaia.

Il fr. 1 D. di Mimnermo

 considera la vita umana indegna di essere protratta quando "giovanezza, ahi giovanezza è spenta", e i giorni non hanno più l'unica giustificazione che li rendeva desiderabili: quella erotica o amorosa che dire si voglia.

"Quale vita, quale piacere, senza l'aurea Afrodite?

Vorrei essere morto, una volta che non mi importi più di questi beni,

l'amore furtivo e i dolci doni e il letto:

che sono i soli fiori fugaci di giovinezza

per gli uomini e per le donne; poi quando sia giunta penosa

la vecchiaia che rende l'uomo turpe e insieme cattivo,

sempre cattivi affanni lo consumano nell'animo,

e non prova piacere neppure alla vista dei raggi del sole,

ma è odioso ai ragazzi, spregevole per le donne;

così tremenda  rese la vecchiaia un dio".

Passiamo a un altro frammento di Mimnermo: il 2 D.

:"Come le foglie[2] che genera la fiorita stagione

di primavera, quando crescono in fretta ai raggi del sole, noi, simili a quelle, per il tempo di un cubito, godiamo dei fiori

di giovinezza, senza conoscere dagli dèi né il male

né il bene. Destini neri ci stanno accanto

uno che ha il termine della vecchiaia tremenda,

l'altro di morte: un attimo dura il frutto

di giovinezza, per quanto sulla terra si diffonde un raggio di sole.

Ma quando questo termine di tempo sia trapassato,

subito essere morto è meglio della vita:

infatti molti mali sopraggiungono nell'animo: talora la casa va in rovina e ci sono le vicende dolorose della povertà:

 a un altro poi mancano figli, di cui soprattutto

sentendo il desiderio va sotto terra nell'Ade;

un altro ha una malattia che gli consuma il cuore: non c'è nessuno

degli uomini, cui Zeus non dia molti mali".

 

Sentiamo un altro biasimo della vecchiaia  (fr. 5 D).  Sembra che facesse parte della Nannò  di Mimnermo

A Titono , Zeus diede da sopportare, male immortale,

la vecchiaia, che è anche più raccapricciante della morte tremenda.

" Ma di breve durata è come un sogno

la giovinezza preziosa; e la tremenda e deforme

vecchiaia subito sul capo è sospesa,

odiosa insieme e spregiata, che rende l'uomo irriconoscibile,

e danneggia gli occhi e la mente versandosi attorno."

 

La conclusione è che è auspicabile morire a sessant’anni:

 “Vorrei che senza malattie e preoccupazioni tremende

il destino di morte mi cogliesse a sessant’anni” (fr. 11 Gentili-Prato).

Euripide Eracle 638 sgg. Il secondo stasimo contiene un  biasimo della vecchiaia che grava sul capo dei compagni d'armi di Anfitrione come un carico più pesante delle rupi dell'Etna ("to; de; gh'ra" a[cqo"-baruvteron Ai[tna" skopevlwn-ejpi; krati; kei'tai" (vv. 638-640).

Callimaco vorrebbe spogliarsi delle vecchiaia che gli grava addosso quanto l’isola tricuspide sul maledetto Encelado (Aitia fr. 1, vv. 35-36).

 

 

La giovinezza  è preferibile alla ricchezza, ed è bellissima tanto nella prosperità quanto  nella povertà: “kallivsta me;n ejn o[lbw/, -kallivsta d j ejn peniva/”,  Euripide, Eracle, vv. 647-648.

Se gli dèi avessero intelligenza e sapienza (xuvnesi"-kai; sofiva) riguardo agli uomini donerebbero una doppia giovinezza (divdumon h{ban) come segno evidente di virtù a quanti la posseggono, e questi, una volta morti, di nuovo nella luce del sole (eij" aujga" pavlin aJlivou), percorrerebbero una seconda corsa, mentre la gente ignobile avrebbe una sola possibilità di vita (Euripide, Eracle, vv.661-669).

Nel Miles gloriosus di Plauto si trova un locus similis : "itidem divos dispertisse vitam humanam aequom fuit:/ qui lepide ingeniatus esset, vitam ei longiquam darent,/ qui inprobi essent et scelesti, is adimerent animam cito" (vv. 730-732), parimenti sarebbe stato giusto che gli dèi distribuissero la vita umana: a colui che avesse un carattere amabile, dovrebbero dare una vita lunga, a quelli che fossero cattivi e scellerati, portargliela via presto.

E’ Palestrione, il servo di Pirgopolinice, che parla di Periplectomeno.

 

Marziale afferma che l’uomo buono che è senza rimorsi e gode del frutto della sua vita, accresce lo spazio della sua esistenza di cui può gioire anche ricordandola: “ampliat aetatis spatium sibi vir bonus: hoc est/vivere bis, vita posse priore frui” (X 23, 7-8).

Il terzo stasimo dell’ Edipo a Colono di Sofocle annuncia la sapienza silenica maledice la vecchiaia:"Non essere nati (mh; fu'nai) supera/ tutte le condizioni, poi, una volta apparsi,/ tornare al più presto là/ donde si venne,/  è certo il secondo bene./ Poiché quando uno ha oltrepassato la gioventù/ che porta follie leggere (kouvfa" ajfrosuvna" fevron), /quale travagliosa disfatta resta fuori?/ Quale degli affanni non c'è?/Invidia, discordie, contesa battaglie,/ e uccisioni; e sopraggiunge estrema/ l'esecrata vecchiaia impotente (ajkrate;") ,/ asociale (ajprosovmilon), priva di amici (a[filon) /dove convivono tutti i mali dei mali"(vv.1224-1238). 

 Un frammento[3] di Menandro  dice:" o{n oiJ qeoi; filou'sin ajpoqnhvskei nevo", colui che gli dei amano, muore giovane".

Virgilio la chiama "tristisque senectus"(Eneide , VI, 275) mettendola in faucibus Orci (v.273), sulla bocca dell'Orco in compagnia di pianti, rimorsi vendicatori, pallidi morbi, e  diverse altre presenze inamene.

 Leopardi è un dichiarato nemico della vecchiaia: in Le Ricordanze  del 1829 scrive:"E qual mortale ignaro/di sventura esser può, se a lui già scorsa/quella vaga stagion, se il suo buon tempo,/se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?"(vv.132-135). Quindi  premette il verso di Menandro citato sopra, come epigrafe, ad Amore e morte  del 1832.

In Il tramonto della luna, del 1836, il poeta di Recanati poco prima di morire compone l'anatema definitivo dell'"età provetta": "estremo/di tutti i mali, ritrovàr gli eterni/la vecchiezza, ove fosse/incolume il desio, la speme estinta,/secche le fonti del piacer, le pene/maggiori sempre, e non più dato il bene"(vv.45-50).

Vediamo ora alcuni elogi della senilità.

 Ebbene, a così forti biasimi voglio contrapporre qualche elogio della senilità cui tutti siamo avviati e alla quale arriveremo se non moriremo prima, forse schivando qualche incomodo, ma certamente perdendo parecchie occasioni, se non altre di "imparare molte cose", come ci ha  insegnato Solone: “ghravskw d   jaijei; polla; didaskovmeno" (fr. 28 Gentili-Prato). E quindi  il legislatore ateniese consiglia a Mimnermo di cambiare quel verso dei sessant’anni e di cantare così: “ojgdwkontaevth moi'ra kivcoi qanavtou” (fr. 26 Gentili-Prato), il destino di morte mi colga ottantenne. Io andrei più in là: questa mi sembra solo l’età per cominciare a pensare alla pensione.

 

Nietzsche commenta il più celebre verso di Solone scrivendo che il legislatore ateniese non era uomo di partito “bensì proseguì la sua meta oltre e sopra i partiti o contro di essi”. Infatti “Il vero uomo di partito ha finito di imparare [4].

Polibio (XXXVI libro) racconta che nel secondo anno (148 a. C.) della terza guerra punica  morì, novantenne Massinissa . Questo re numida alleato dei Romani viene elogiato per la sua vigoria, la sua fecondità (lasciò un figlio di quattro anni ed altri nove figli ) e rese fertile la sua terra, la Numidia, secondo il principio che le capacità di un re influenzano il suo popolo e perfino la produttività della sua regione.

 

Un elogio della vecchiaia si trova già in alcune parole di Omero: nel III dell'Iliade , Menelao, per fare un patto con i Troiani, esige la presenza di Priamo poiché non si fida dei figli del re di Troia: sempre svolazzano gli animi dei giovani, afferma, ma quando un vecchio (oJ gevrwn) è con loro, vede insieme il prima e il dopo (a}ma provssw kai; ojpivssw-leuvssei), come sia meglio per gli uni e per gli altri (vv. 108-110).

 

 Cicerone nel De senectute [5] compone l'elogio più articolato della vecchiaia, facendo dire a Catone ottantatreenne:"in moribus est culpa, non in aetate "(3), il difetto sta nei costumi, non nell'età; e la pena deriva dai sensi di colpa dovuti a una vita mal vissuta:"quia coscientia bene actae vitae multorumque benefactorum recordatio iucundissima est "(3), poiché la coscienza di una vita impiegata bene e il ricordo di molte buone azioni fatte sono fonti di dolcissima gioia. Vengono portati esempi di vecchiaie vigorose e produttive: Platone che morì a ottant'anni "scribens ", scrivendo ancora, Isocrate che a novantatré anni compose il Panatenaico, poi visse altri cinque anni, e il suo maestro Gorgia che compì centosette anni, studiando e lavorando, tanto che disse:"Nihil habeo quod accusem senectutem "(5) non ho niente da rimproverare alla vecchiaia. Insomma, secondo Cicerone, c'è una montatura negativa nei confronti dell'età avanzata. Gli indebolimenti, almeno quelli mentali, sono dovuti alla mancanza di esercizio."At memoria minuitur ", ma la memoria diminuisce; ebbene a questa obiezione-luogo comune degli imbecilli- l'autore risponde:"credo, nisi eam exerceas, aut etiam si sis natura tardior ", lo credo, se non la si esercita, o anche se sei piuttosto stupido di natura, e fa l'esempio di Sofocle che"ad summam senectutem tragoedias fecit ", compose tragedie fino alla vecchiaia estrema, e anzi si difese dall'accusa di demenza senile contestatagli da un figlio che voleva venisse interdetto, leggendo l'Edipo a Colono scritta da poco, ai giudici che naturalmente lo assolsero a pieni voti  (7). Poco più avanti (8) il De senectute  ricorda anche Solone "qui se cotidie aliquid addiscentem dicit senem fieri ", che dice di diventare vecchio imparando ogni giorno qualche cosa non solo, ma a Pisistrato che gli domandò in che cosa confidasse per opporsi a lui con tanta audacia, rispose "senectute ", nella vecchiaia (20). I piaceri che scemano poi sono quelli volgari del corpo: “epularum aut ludorum aut scortorum voluptates, dei banchetti o dei giochi o delle prostitute (14) certo non paragonabili a quelli dello spirito che invece crescono. Quanto alle solite accuse di essere bisbetici (morosi ), ansiosi (anxii), iracundi , difficiles, avari, questi sono difetti dei caratteri, non della vecchiaia:"sed haec morum vitia sunt, non senectutis "(18).

 Platone rappresenta Sofocle come un vecchio[6] pentito del sesso: Cefalo riferisce di essere stato presente quando a un tale che  domandava al poeta di Colono:"pw'"...e[cei" pro;" tajfrodivsia; e[ti oi|ov" te ei\ gunaiki; suggivgnesqai;",  come ti va nelle cose d'amore? sei ancora capace di congiungerti con una donna?

 Il tragediografo  rispose: "eujfhvmei w\ a[nqrwpe: aJsmenevstata mevntoi aujto; ajpevfugon,  w{sper luttw'ntav tina kai; a[grion despovthn ajpodrav"" (Repubblica , 329c), sta' zitto tu, infatti con grandissima gioia me ne sono liberato, come se fossi fuggito da un padrone furente e selvaggio. La vecchiaia, commenta il padrone di casa, significa dunque un liberarsi da tiranni molto numerosi e pazzi:"despotw'n pavnu pollw'n e[sti kai; mainomevnwn ajphllavcqai" (329d). Tra questi, in primis,  Eros.

 Questo anatema di Sofocle viene riptuto non senza compiacimento da Catone il Vecchio nel De senectute  di Cicerone :" Bene Sophocles, cum ex eo quidam iam affecto aetate quaereret utereturne rebus veneriis:"Di meliora! inquit; libenter vero istinc sicut ab domino agresti ac furioso profugi " (14), opportunamente Sofocle quando, già vecchio e fiaccato dagli anni, un tale gli chiedeva se facesse ancora del sesso, disse: dio ne scampi, volentieri invero sono scappato di lì come da un padrone selvaggio e furioso!  

 

Nel campo della commedia, basta guardare i due fratelli degli Adelphoe  di Terenzio:"quanta in altero diritas, in altero comitas! ", quanta durezza nell'uno (Demea), affabilità nell'altro (Micione)! Anche la vicinanza della morte non è terrificante, infatti"omnia quae secundum naturam fiunt sunt habenda in bonis", tutto quello che avviene secondo natura deve essere considerato tra i beni (De senectute, 19).

 E noi uomini:"in hoc sumus sapientes, quod naturam optimam ducem tamquam deum sequimur eique paremus ", in questo siamo saggi che seguiamo la natura ottima guida come un dio, e le obbediamo, aveva già detto Catone nel prologo (2).

J. Hillman non è lontano da Cicerone: “I fatti dimostrano che, invecchiando, io rivelo più carattere, non più morte[7].

Purtroppo non possiamo soffermarci oltre sull'argomento, che ci sta a cuore, anche per ragioni anagrafiche oramai, però vogliamo menzionare un moderno: Italo Svevo nella cui opera, il protagonista di Senilità , Emilio Brentani, è un trentacinquenne dall'anima stanca, mentre la vecchiaia anagrafica di altri personaggi è, come nota Magris in L'anello di Clarisselibertà dall'obbligo di attestare a se stessi e agli altri il proprio valore, la propria capacità e vitalità" (p.198)

Sentiamo T. Mann in Carlotta a Weimar (del 1939). Questo personaggio,  ritrae l’ex ragazza ispiratrice del Werther, Charlotte Buff, la quale oramai era “una matrona non lontana certo dalla sessantina, piuttosto grassoccia, con un abito bianco ed uno scialle nero, mezzi guanti di filo ed una capote alta, che lasciava intravedere capelli ricci, di quel grigio cenere che succede al biondo” (p. 6). “Era una cosiddetta vecchia signora, si definiva ella stessa così, e viaggiava con una figlia di ventinove anni, ed era per di più nonna. Ma ecco che lì distesa sentiva il cuore battere come una ragazzina pronta ad una grossa birichinata” (p. 31). “E’ la fede della nostra giovinezza quella che in fondo non perdiamo mai. Constatare che tale fiducia ha resistito, che siamo restati gli stessi, che l’invecchiare è fenomeno fisico esteriore incapace di influire sulla perennità del nostro intimo io, di questo pazzo io che trasciniamo attraverso i decenni, è cosa che non dispiace mai quando siamo in età avanzata- in ciò sta anzi il pudico  e sereno segreto della nostra dignità senile” (p. 30).

Cambiamo argomento 

Le leggi colpiscono solo i deboli

Nietzsche: “Le leggi contro i ladri e gli assassini sono fatte a favore delle persone colte e ricche[8].

 

 Anacarsi, racconta Plutarco, derideva l'opera di Solone che pensava di frenare l'ingiustizia e l'avidità dei cittadini con parole scritte le quali non differiscono per niente dalle ragnatele ("a} mhde;n tw'n ajracnivwn diafevrein", Vita di Solone,  5, 4), ma, come quelle, tratterranno le deboli e le piccole tra le prede irretite, mentre saranno spezzate dai potenti e dai ricchi.

Il legislatore ateniese rispose che adattava il suo codice ai cittadini, in modo da mostrare a tutti che agire con giustizia è meglio che trasgredire le leggi. Ma, commenta Plutarco, le cose andarono a finire come supponeva Anacarsi il quale dopo avere assistito all'assemblea fece un'altra riflessione intelligente:"o{ti levgousi me;n oiJ sofoi; par j  {Ellhsi, krivnousi d  j oiJ ajmaqei'""(5, 6), che presso i Greci parlano i sapienti ma decidono gli ignoranti.

 

Tensione intellettuale ed eroismo dei Greci

“Il sentimento di resistere da soli come esseri superiori in mezzo a nemici di gran lunga più numerosi li costrinse a una continua ed estrema tensione intellettuale[9].

 

I Greci, in numero inferiore, sconfissero i Persiani (cfr. il Temistocle di Erodoto)

Erodoto , come Foscolo, si sentiva chiamato dalle Muse "ad evocar gli eroi"[10], e dopo la battaglia di Salamina fa dire a Temistocle:"tavde ga;r oujk hJmei'" katergasavmeqa, ajlla; qeoiv te kai; h{rwe""[11], questa impresa infatti non l'abbiamo compiuta noi, ma gli dei e gli eroi.

 

Lo stile del ridere.

Nietzsche: “Come e quando una donna rida, ciò è segno della sua educazione: ma nel timbro del riso si rivela la sua natura…Perciò lo studioso degli uomini dirà come Orazio, ma per diverso motivo, ridete puellae[12].

 

Ovidio. Chi lo crederebbe? Le ragazze imparano anche il modo di ridere, cercando pure con questo aspetto di accrescere la loro avvenenza:"Quis credat? Discunt etiam ridere puellae, /quaeritur atque illis hac quoque parte decor  " ( Ars III, vv. 281-282).

Ovidio dà delle indicazioni che si riassumono nel v. 286:"sed leve nescioquid femineumque sonet ", comunque (il ridere) esprima un non so che di delicato e femminile. Quelle che si lasciano andare alla sghignazzata rischiano la sguaiataggine :"ut rudit a scabrā turpis asella molā " (Ars, III, v. 290), come la brutta asinella raglia dalla ruvida macina. Questo verso realmente ruvido rende fonicamente il riso sgraziato della ragazza asina.  

Marziale commenta questa parte dell'Ars notando che il poeta di Sulmona ( precisamente Paelignus ) aveva consigliato di ridere:"ride si sapis, o puella, ride "(II, 41), ridi ragazza, se hai giudizio, ridi, ma non a tutte le ragazze:"sed non dixerat omnibus puellis " Infatti una tal Massimina che ha tre denti deve mettersi addosso espressioni tristi, frequentare donne in lutto e distrarsi solo con le Muse tragiche. Dunque:"plora, si sapis, o puella, plora ", piangi ragazza se hai giudizio, piangi.

 

I tiranni

Nietzsche: “quando decadono i costumi emergono innanzitutto quelle persone che sono dette tiranni… Quando la decadenza è pervenuta al suo apogeo e così pure la battaglia di tiranni d’ogni genere, allora viene sempre il Cesare, il tiranno risolutivo, che mette fine alla stanchezza della lotta per l’egemonia, sfruttando ai suoi fini quell’esaurimento di forze”[13]. 

 

Sofocle nell’Edipo re scrive che l’u{bri~ è la madre del tiranno. Tutta l'opera di Sofocle indica l' u{bri", la prepotenza, come madre e nutrice della tirannide[14] cui si associa  ogni dismisura.

Non tutti si lasciano spaventare dalla prepotenza: c’è chi non abbassa la testa e reagisce.

 Nel De ira (I, 19, 7) Seneca traduce rielaborandola una sentenza delle Leggi di Platone: “nemo prudens punit quia peccatum est, sed ne peccetur”, nessuna persona avveduta punisce perché si è sbagliato, ma affinché non si sbagli.

Un'anima grande è in grado di disprezzare le offese e le minaccr: “Magni animi est iniurias despicere; ultionis contumeliosissimum genus est non esse visum dignum ex quo peteretur ultio…ille magnus et nobilis qui more magnae ferae latratus minutorum canum securus exaudit” ( De ira, II, 32), è proprio di un animo grande disprezzare le offese; il tipo di vendetta più oltraggioso è non essere apparso degno nemmeno di ritorsione… grande e nobile è quello che, come fa una grande fiera, presta ascolto tranquillo ai latrati dei cagnolini.

 

 

La morte da commedia di Augusto e di Nerone, e quella tragica  di Tiberio.

Nietzsche: “Si rammenterà che l’imperatore Augusto, quell’uomo tremendo che sapeva ugualmente esercitare il dominio di sé come serbare il silenzio al pari di un qualunque saggio Socrate, commise un’indiscrezione verso se stesso con le sue ultime parole: per la prima volta si lasciò cadere la maschera, quando fece intendere che aveva portato una maschera e recitato una commedia, che aveva recitato sul trono la parte di padre della patria e quella della saggezza, così bene da darne l’illusione! Plaudite amici, comoedia finita est! 

Il pensiero di Nerone morente: qualis artifex pereo! Era anche il pensiero del morente Augusto. Vanità d’istrioni! Loquacità d’istrioni! E proprio l’antitesi di Socrate morente!  Ma Tiberio, questo tormentatissimo fra tutti i tormentatori di se stessi, morì senza una parola-egli era autentico e non un commediante!...Quando, dopo una lunga agonia, parve che li ritornassero le forze, si ritenne opportuno soffocarlo coi cuscini-ebbe doppia morte”[15].

 

Nella Vita di Svetonio troviamo l'ultima scena di Augusto il quale supremo die , fattisi mettere in ordine i capelli e le guance cascanti, domandò agli amici "ecquid iis videretur mimum vitae commode transegisse" (99), se a loro sembrasse che  avesse recitato bene la farsa della vita, quindi chiese loro, in greco, degli applausi con la solita clausula delle commedie:" eij de; ti-e[coi kalw'" to; paivgnion, krovton dovte", se è andato un po’ bene questo scherzo, applaudite. La “corta buffa”[16] era giunta al termine.

 

L’inganno dell’amore e i rimedi

 Nietzsche: “Se amiamo una donna, finiamo facilmente per odiare la natura al pensiero di tutte le ripugnanti circostanze naturali cui ogni donna è sottoposta: in generale preferiamo sorvolare su questo pensiero (…)  “L’uomo sottocutaneo” è per tutti gli amanti una cosa esecrabile e inconcepibile, una bestemmia contro Dio e l’amore”[17].

 

Si tende dunque a idealizzare la figura dell’amata: "Nigra melǐchrus est, immunda et foetida acosmos " (Lucrezio, De rerum natura, IV, v. 1160), la nera ha l'incarnato di miele, la lercia e puzzolente è trasandata.

Questo travisamento ricorda l'idealizzazione dell'innamorato Buceo nel X idillio[18] di Teocrito:"Suvran kalevontiv tu pavnte", /ijscna;n aJliovkauston, ejgw; de; movno" melivclwron" (vv. 26-27), tutti ti chiamano Sira, secca, bruciata dal sole, io solo colore del miele

compie la stessa operazione di Lucrezio, Eliante nel Misantropo  di Moliere che aveva  tradotto il De rerum natura  prima del 1660 :"La nera come un corvo è una splendida bruna: la magra ha vita stretta e libere movenze; la grassa ha portamento nobile e maestoso; la sciatta, che è fornita di non molte attrattive, diventa una bellezza che vuole trascurarsi; la gigantessa sembra, a vederla, una dea; la nana è un riassunto di celesti splendori; l'orgogliosa ha un aspetto degno d'una corona; la scaltra è spiritosa; la sciocca è molto buona; la chiacchierona è donna sempre di buonumore; la taciturna gode di un onesto pudore. Perciò lo spasimante, se è molto innamorato, ama pure i difetti della persona amata"[19].

 

Viceversa Remedium amoris , un modo per liberarsi di  un amore che ci fa soffrire è pensare ai difetti della donna e accentuarli, come suggerisce Ovidio.

Nei Remedia Amoris  il poeta Peligno consiglia di accentuare mentalmente i difetti dell'amante per tenerla lontana. Non è difficile compiere l'una o l'altra operazione siccome è sottile il confine tra vizio e virtù.

"Profuit adsidue vitiis insistere amicae/idque mihi factum saepe salubre fuit./"Quam mala" dicebam "nostrae sunt crura puellae" (nec tamen, ut vere confiteamur, erant); "bracchia quam non sunt nostrae formosa puellae" (et tamen, ut vere confiteamur erant)/"quam brevis est" (nec erat), "quam multum poscit amantem";/haec odio venit maxima causa meo./ Et mala sunt vicina bonis: errore sub illo/pro vitio virtus crimina saepe tulit./ Qua potes, in peius dotes deflecte puellae/iudiciumque brevi limite falle tuum./"Turgida", si plena est, si fusca est, "nigra" vocetur;/in gracili "macies" crimen habere potest./Et poterit dici "petulans" quae rustica non est;/et poterit dici "rustica", si qua proba est "  (vv. 315-330), mi ha fatto bene pensare senza tregua ai difetti dell'amante e questa pratica ripetuta mi è stata salutare. "Quanto sono fatte male-dicevo-le gambe della mia donna" (né tuttavia, a dire il vero, lo erano); "quanto non sono belle le braccia della mia donna" (e tuttavia, a dire il vero, lo erano) " quanto è corta" (e non lo era), quanto esige dall'amante", questo divenne il motivo più grande per la mia avversione. Poi i mali stanno vicino ai beni: sottomessa a quell'errore spesso la virtù si è presa le colpe del vizio. Per quanto puoi, volgi in peggio le doti della tua donna e, dato il breve confine, inganna il tuo giudizio. "Gonfia" devi chiamarla se è piena, se è scura "negra"; in quella magra la secchezza può essere incriminata. E potrà chiamarsi "sfrontata" quella che non è campagnola e si potrà chiamare "campagnola" se una è virtuosa

Bologna 1 gennaio 2023 ore 16, 50 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Frammenti postumi, primavera-estate 1876, 31

[2] Cfr. Iliade VI, 146-149 (Glauco a Diomede). Glauco chiede a Diomede:

"Tidide magnanimo, perché mi domandi la stirpe?

quale è la stirpe delle foglie, tale è anche quella degli uomini.

Le foglie alcune ne sparge il vento a terra, altre la selva

fiorente genera quando arriva il tempo di primavera;

così le stirpi degli uomini: una nasce, un'altra finisce".

 

[3] Fr. 111 Koerte. Dalla commedia Di;" ejxapatw'n di Menandro modello delle Bacchides di Plauto.

[4] Umano, troppo umano, II, Opinioni e sentenze diverse, 301

 

[5] Del 44 a. C. 

[6] La Repubblica di Platone è ambientata al Pireo, in casa del meteco Cefalo, padre di Lisia e Polemarco,  nella primavera del 408 a. C. quando Sofocle (497-406 a. C.) aveva quasi novant'anni. L'episodio raccontato risalirà a qualche tempo prima.

[7] La forza del carattere, p. 27.

[8] Nietzsche, Frammenti postumi, 1876, 14

[9] Nietzsche, Frammenti postumi, settembre 1876. (46)

[10]Dei Sepolcri , v.228. Del resto nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis  Foscolo, attraverso un discorso attribuito al vecchio Parini dà un'interpretazione pessimistica e riduttiva dell'eroe:"Forse questo tuo furore di gloria potrebbe trarti a difficili imprese; ma-credimi-la fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte; e l'altro quarto a' loro delitti"(Milano, 4 dicembre).

[11]VIII, 109, 3.

[12] Umano, troppo umano II, Opinioni e sentenze diverse, 276.

[13] La gaia scienza (del 1882), Libro primo, 23

[14] u{bri" futeuvei tuvrannon, (Edipo re , v. 873), la prepotenza fa crescere il tiranno.

[15] La Gaia scienza,  I, 36

[16] Dante, Inferno, VII, 61.

[17] La gaia scienza, II, 59

[18] Quello dei mietitori

[19] Molière, Il misantropo , II, 4.

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