Poi mi riscossi. Considerata la reticenza irata di Päivi e dei numi, decisi di andare in cerca di Anneli, l’amica dell’estate precedente, per consultarla.
Non la trovai nella sua stanza in collegio del collegio universitario di Yväskylä. Allora andai a cercarla nella casa dei genitori, in campagna: tra le betulle, i mirtilli, le folaghe e i cigni selvatici. Qualche uccellino sbiadito provò a farmi coraggio con il suo cinguettare fioco, di scarso effetto.
I due canuti signori finnici dissero che la loro figliola non era lì, né in Finlandia, poiché era partita per Debrecen due settimane prima.
Sicché , forzando la nera Volkswagen ormai stanca, portai Silvano a Bologna e ripartii immediatamente per la città del mio apprendistato amoroso, dove speravo di trovare la bionda, dolce, cosciente Anneli. Ma quando arrivai, era già ripartita, né alcuno seppe dirmi per dove.
Era il 15 agosto, l’ultimo giorno del corso estivo che si chiudeva con il Búcsú est[1].
Al tramonto andai a osservare lo stadio delle mie corse. Sedetti sulla terrazza delle feste dei miei vent’anni, della mia gioventù.
Non c’era anima viva. A quell’ora la gente cenava prima della festa finale.
Bevvi una birra grande e pensai alle mie finlandesi, a Eeva, a Katina, a Helena, a Kaisa, a Päivi; pensai pure a Josiane, a Faina, a Claudio in galera da un anno, a Fulvio che, infelicemente sposato, andava a piangere tutte le sere sulla riva del mare, siccome la moglie non gli piaceva più, a Bruno morto da quattro mesi, alla mia bambina non nata, a me stesso senza amore, senza amici, là nella puszta, trentenne solo e infelice, come quando ci ero arrivato la prima volta, ragazzo ventenne grasso, depresso, miope, foruncoloso, inetto, del tutto inadatto a essere amato, nel luglio del 1966[2]. Non avevo acquisito niente di solido in tutti quegli anni. Lapidi e fantasmi. Potevo sì trattarli come care immagini, icone belle dentro di me, però vicino a me non c’era anima viva, né corpo umano. Quale piega poteva prendere la mia vita così desolata? Avrei passato il tempo che mi restava, ogni sera come quella, da sordido anacoreta che rimugina tristi pensieri, o sarei andato in cerca di altre donne da donnaiolo più o meno contraccambiato, mai pago, piuttosto ognora vago di esperienze nuove, sempre più dissolute, finché annoiato dalla facilità degli adultèri avrei cercato di soddisfare libidini inaudite?[3]. Come la meretrice Augusta, o come un vecchio sibarita annoiato della vita.
Avevo fatto l’amore con una donna incinta di un altro; una incinta di me aveva abortito. Quale poteva essere la prossima tappa erotica? Una suora smonacata?
L’avrebbero detto i giorni a venire che sono i testimoni più sapienti[4].
Avevo una cartolina: la scrissi a Päivi di cui mi era rimasto in mente l’aspetto migliore: l’interesse per la cultura, lo spirito e la bellezza.
Le tradussi in inglese questi versi di Dante: “Or puoi la quantitate/comprender dell’amor ch’a te mi scalda,/quand’io dismento nostra vanitate,/trattando l’ombre come cosa salda”[5]. E conclusi: “Ti amo.
gianni, o piuttosto la svigorita ombra di gianni”.
Poi andai a procurarmi un’altra birra grossa. Sedetti e bevvi ancora. Veramente ne avevo bisogno poiché non mangiavo da un paio di giorni, durante i dì e le notti passati a guidare la mia automobile nera, scura come può essere solo un feretro.
Me ne nutrii e inebriai quasi del tutto. Quindi, mezzo briaco, fui preso da un’immensa pietà per me stesso, uomo adulto, già più che trentenne, affettivamente fallito, senza una donna, senza un amico al mondo che mi pensasse volendomi bene. Mia madre, forse, ma era lontana e con altri problemi.
Compassione per me stesso dunque, solo e senza affetti, compassione per il povero Bruno morto ante diem, quando per giunta era tutto contento di godersi la vita, a dire il vero un po’ disordinata, ma non più della mia. Nei miei confronti non era stato sempre un amico, però l’anno prima, lì a Debrecen, tra i giovani in festa su quella terrazza con lui potevo discutere; quel giorno invece, il 15 agosto del 1975, il dì del redde rationem, ero solo del tutto, senza nemmeno un gatto o un cagnolino da accarezzare, non più giovanissimo, pressocché disperato di trovare ancora l’amore, l’amicizia, la gioia di studiare, di vivere e di lottare.
In quel momento neanche il mio impegno di educatore mi consolava: mi avevano dato una scuola dove non potevo impiegare tutta la mia forza mentale che, rimanendo senza esercizio, presto si sarebbe afflosciata. Ero proprio solo nel mondo e non avevo niente da fare che mi piacesse. Come dopo il liceo. Come quando, sei anni più tardi, la notte fra il 12 e il 13 giugno del 1981, Ifigenia sarebbe scivolata nel pozzo.
Appena il sole fu tramontato, bevvi la terza birra, enorme, e piansi. Piansi provando una strana consolazione, piansi a lungo, tanto non c’era nessuno.
Quando tornai a Debrecen in bicicletta, nell’estate del 2011, trentasei anni più tardi, una sera al tramonto, lasciati gli amici Fulvio, Maddalena, Alessandro, andai a rivedere il casinetto del tennis. La terrazza dove si danzava la sera è prospiciente lo stadio dove correvo di giorno.
Erano quasi le otto, non c’era anima viva.
Bevvi di nuovo una birra e pensai ancora una volta alle mie Finlandesi di Debrecen. A Elena incinta, a quando lei e io eravamo uni e bini come ero stato con la mamma mia che aspettava la mia nascita, a Kaisa l’adultera dagli occhi azzurri, a Päivi che nel 1974 aveva abortito la bambina che aspettava da me; pensai a Bruno morto nemmeno trentenne, a me stesso, rimasto come sempre strutturalmente solo, ma non insicuro e infelice come quando arrivai a Debrecen la prima volta, ragazzo sconciato, nel luglio del 1966.
Nel frattempo diverse altre amanti italiane e straniere mi avevano lasciato. Tutte, tranne quattro o cinque, mi avevano lasciato, o mi ero fatto lasciare io da loro, non lo so.
Veramente le tracce di alcune rimanevano in me.
Lì a Debrecen però pensavo soprattutto alle Finlandesi tornate a camminare sulla loro terra boscosa, a nuotare nei laghi dove le folaghe si tuffano a gara, dove veleggiano i cigni dal collo ricurvo come le prue, e zampettano le anatre azzurre. Non sapevo nemmeno se fossero ancora vive su questa terra meravigliosa. Erano state loro a renderla tale ai miei occhi, a farmela amare.
“Eravate a me care e ora nemmeno una è qui con me a bere la birra, tra sorrisi, carezze e baci, come si faceva allora”.
Affetti solidi li avevo acquisiti in tutti quegli anni. Fulvio, Maddalena e Alessandro erano venuti a Debrecen, in bicicletta con me. 1200 chilometri: una prova non piccola.
Le donne mie benedette, più di cinquanta oramai come era stato nei voti di tanti decenni prima, però erano volate via come uno stormo di uccelli spaventati da uno sparo. Eterna gratitudine anche a loro.
Note
[1] Sera dell’addio.
[2] Vedi il capitolo L’arrivo a Debrecen, presente nel blog. Forse lo scriverò di nuovo, con senno rinnovato.
[3] Cfr. quanto scrive Tacito di Messalina, la meretrix Augusta: "iam (...) facilitate adulteriorum in fastidium versa, ad incognitas libidines profluebat " (Annales, XI, 26) oramai volta alla noia per la facilità degli adultèri, si lasciava andare a dissolutezze inaudite
[4] Cfr. Pindaro Olimpica I " "(vv.33 - 34)
[5] Purgatorio XXI, 133 - 136.
Bologna 6 gennaio 2022 giovanni ghiselli
Sempre1308760
Nessun commento:
Posta un commento