La pedalata
sofferta fino a Patrasso. Due tappe per fare meno di 40 chilometri.
Riprendemmo la pedalata contro il vento caldissimo spirato da sud ovest. Ifigenia dopo pochi chilometri già barcollava, sbuffava, soffriva e diceva che non poteva procedere così ostacolata e gravata.
“Adesso dovrò sobbarcarmi di nuovo il suo peso”, pensai con un po’ di fastidio e anche un poco di orgoglio. Infatti mi dissi: “Ce la farò”
Subito dopo in effetti mi ofrìi di alleviarle la schiena prendendo anche il suo zaino che dislocai al di sopra del mio, quasi sul collo. Ma nemmeno così alleggerita Ifigenia ce la faceva a pedalare fino a Patrasso. Provai a incoaggiarla, a spingerla anche fisicamente stando alla sua sinistra e impiegando quanta forza avevo nel braccio destro e nella mano aperta appoggiata sulla schiena di lei non lascivamente, ma la mia compagna di viaggio, come un commilitone stremato dagli ordini atroci di un comandante implacabile, seppur generoso, a un tratto scostò la mia mano non abbastanza soccorrevole, frenò, fermò la bici e disse che non ce la faceva più in nessuna maniera.
Urgeva dunque trovare un rifugio dove passare la notte, però l’autostrada dove eravamo entrati a Egion senza essere ostacolati era recintata da una rete di ferro e per uscirne saremmo dovuti arrivare al casello di Patrasso ancora lontana almeno venti chiometri. Ci si trovava perciò in una prigione, ardente per giunta come una fornace, con l’acqua delle borracce oramai esaurita oltre tutto. La ragazza infatti sudava assai poi beveva più di una spugna. A me il caldo piace, anche estremo ma non quando devo sopportare chi lo esecra come se fosse un male. Il male vero che porta pena a me e morbi a tutti è l’aria condizionata che aborro.
Posata la bici, camminai un po’ avanti, un po’ indietro scrutando la rete ferrigna, finché vi trovai un buco abbastanza grande per la nostra evasione. Usciti da quel carcere, percorremmo una stradina sterrata in discesa fino a un borgo turrito sulla riva del mar : Psathopirgos si chiama . Trovammo una stanza con terrazza affacciata sul piccolo porto. Nel nostro squlibrio questa fu un’altra serata di pace. Eravamo entrambi contenti per la collaborazione che c’era stata tra noi nell’ultimo tratto quando l’avevo aiutata senza rimproverala né insistere troppo.
Ifigenia mi era grata per il comportamento che avevo tenuto nei suoi confronti, sicché aveva deciso di porre fine alle querimonie e di sospendere il rancore accumulato per mesi contro di me che non ero famoso come il suo uomo ideale.
Una tregua malsicura e precaria. Dormimmo per l’ultima volta insieme affacciati sul mare. Il giorno seguente, dopo avere peercorso gli ultimi venti chilometri, giungemmo a Patrasso.
Se ce l’hai fatta a seguirci fin qui, lettore, senza stancarti né annoiarti, vieni ancora avanti con noi, complicemente: laetaberis.
Prenotammo la cabina sul traghetto del ritorno che salpava il 28, per Brindisi. Nella nave diretta ad Ancona non c’era più posto nemmeno sul ponte.
Ifigenia si immusonì e cominciò a protestare dicendo che tutto si complicava siccome a Brindisi avremmo dovuto trovare due treni: uno lei per Bologna, un altro io per Pesaro. Se ne poteva prendere uno solo con fermata a Pesaro ma la sua era una dichiarazione di guerra: il correlativo geografico-ferroviario del nostro discidium” pensai. Difatti tutti i treni fanno una sosta a Pesaro, breve ma lascia il temo di scendere. Forse Ifigenia temeva che le avrei proposto di fermarsi per qualche giorno sul mare ma non ci pensavo nemmeno. Lei piuttosto sperava di trovare posta con offerte succose a Bologna.
Questo pensai ma non lo dissi. Volli sdrammatizzare, facendo il buffone dionisiaco, sicché la guardai in faccia citando Francesco Redi
Su voghiamo,
navighiamo,
navighiamo infino a Brindisi:
Arianna, brindis, brindisi.
Passavoga, arranca, arranca,
ché
la ciurma non si stanca,
anzi lieta si rinfranca
quando arranca inverso Brindisi:
Arianna, brindis, brindisi.
E se a te brindisi io fo,
perché a me faccia il buon pro,
Ariannuccia vaguccia, belluccia,
cantami un poco, e ricantami tu
sulla mandola la cuccurucù,
la cuccurucù
la cuccurucù,
sulla mandola la cuccurucù.
“Sei il cialtrone di sempre”, fece lei. Non le servivo più. Poteva buttarmi via.
Poi prendemmo una stanza, girammo per la città, evitando di rispondere all’ambiguo sorriso e agli inviti maliziosi dei prosseneti in agguato sulle soglie delle locande, quindi cenammo dove ci parve meglio e andammo a dormire senza altra storia.
Bologna 31 ottobre 2025 ore 20, 46
giovanni ghiselli
p. s.
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