sabato 5 ottobre 2024

Ifigenia CLIX “Uno dei tanti”.


 

Il giorno seguente partimmo, senza Fulvio.

 Eravamo diretti in Grecia dove volevamo pregare per l’amore e per l’arte. Avevamo poco denaro, appena sufficiente, forse nemmeno abbastanza per tornare a Bologna. Poverelli ma devoti. L’avevo convinta che tali pellegrinaggi ai santuari greci danno indicazioni preziose. Avevo trovato lei, la mia Musa, con una pedalata solitaria tra Brauron, Maratona, Capo Sunio, Corinto, Epidauro due anni prima.

Questa volta saremmo andati in luoghi ancora più sacrosanti per interrogare gli dei e gli eroi della Grecia. La gara da me vinta nello stadio di Debrecen propiziava il viaggio. Dei miseri quattrini si poteva fare a meno. Digiunare e dormire negli ostelli è tutta santità.

 La prima sera alloggiammo a Szeged in casa dell’amico Ezio che faceva il lettore di italiano in quella Università. Ifigenia fu scortese con i nostri ospiti: seguitava a non tollerare i miei amici, comunque essi fossero.

Arrivò a palarmi in un orecchio per criticare Ezio, sua moglie, la loro casa e il loro cibo durante la cena,

Pensai che aveva offeso il nobile costume greco dell’ospite con tanta volgarità e che gli dèi non l’avrebbero mai esaudita in quanto empia. Ma sul momento non glielo dissi.

La mattina seguente partimmo comunque già incattiviti. Alla frontiera yugoslava però cambiammo umore. Bastava poco, squilibrati come eravamo. In coda dietro altre automobili sentimmo suonare un clacson. Girai la testa drizzando le orecchie e aprendo la bocca. Come fa un cane spaventato o una iena affamata o un coyote o un licaone. Per un momento mi sentìi appartenere alla specie  che detesto dei canidi. Come lo dissi a Ifigenia, lo confermò: mi sei proprio sembrato un cane: il vero cane.

Questo ci mise di buonumore.

La sera giungemmo a Predejane, in fondo alla Serbia allora. Ora è nel Kosovo. Ci fermammo a dormire in un motel.

 

La mattina assistemmo a una scena ridicola. So che ora non sta bene ridere sugli omosessuali ma devo avvertirti lettore che ai miei tempi usava. Mica perseguitarli per carità, né offenderli ci mancherebbe, ma trovarli buffi era un’abitudine invalsa. Oggi non si può più. Anzi, i pervertiti biasimati, casomai, sono quelli che corteggiano le donne anche con stile e buon gusto.

Il malfamato, quello che deve vergognarsi  e non darlo a vedere, oggi è il donnaiolo. Secondo me è un  titolo onorifico. Chi ama le donne ama la vita, il meglio della vita come la luce del sole.  

Durante la colazione dunque assistemmo a una commedia buffa. Ifigenia mi fece notare un anziano piuttosto distinto seduto a un tavolo con un ragazzo negro giovane e bello.

So che anche scrivere o dire “negro” invece che “nero”  o scuro di pelle è un’infamia ma preferisco essere infame che ipocrita. Così dico cieco invece che non vedente. Senza tema d’infamia lo dico.

Come affermo e mi vanto di essere stato un donnaiolo impenitente.

Rifarei tutto, magari anche di più e meglio.

Quando arrivò il cameriere a prendere l’ordinazione, l’attempato ordinò senza scomporsi; il giovane invece cominciò ad agitarsi scuotendo la testa crespa, a far baluginare il bianco degli occhi e dei denti, quindi con voce stridula e irritata gridò: “Omelette, no? Cosa posso volere io qui dentro? Omelette e basta! Omette o niente!”. Il cameriere sbigottito rispose: “Va bene signore, omlette”.

Il vecchio cercava di ammansire il giovane dai mal connessi nervi accarezzandogli delicatamente la mano sinistra.

Riconobbi le due categorie di omosessuali: quelli miti e quelli sempre contrariati da tutto. Come tante donne, essi sono dell’uno o dell’altro tipo.

Un  loro segno di riconoscimento è farsi vento con cartoline o altri pezzi di carta. Il giovane lo fece con un tovagliolo imprecando contro il caldo. Era vestito con calzoni attillatissimi e una canottiera verde buchelerrata.

Si confidò con il suo mentore ma in modo di farsi sentire anche da altri: “se quel garzone crede che in questa lurida topaia  io possa mangiare altro da una omlette e mi fa domande importune, è un cretino e uno screanzato. Dovresti sgridarlo anche tu per la sua impertinenza!”.

Più tardi commentammo la scena e ne ridemmo. Però  pensai che dopo tutto il loro rapporto con i capricci di un ragazzo davanti a un amante attempato era simile al nostro e che quel giovane era la caricatura di Ifigenia mentre il vecchio era la mia controfigura.

Dunque chi non è senza difetti si astenga dal motteggio e dalla canzonatura.

 

p. s.

Avverto che non ho niente contro gli omosessuali né contro le persone di colore.

Quando insegnavo nel Veneto e mi chiamavano marochin, o addirittura negro ne ero contento. Ho sempre cercato di abbronzarmi.

Ero incerto se pubblicare questo episodio e l’ho fatto per questa ragione: “ oggi quando quasi tutti si sentono in dovere di dire: “non sono comunista né lo sono mai stato” mentre dal 68 al 71 dicevamo quasi tutti di esserlo, nessuno dice “io non sono né sono mai stato omosessuale” perché essere stati comunisti è roba da anatema, mentre essere omosessuali è un vanto, un predicato di nobiltà. Dobbiamo considerare la persona, non l’etichetta, né quella che  appiccicano gli altri con i rumores né quella che mettiamo in mostra noi stessi.

 

Io sono gianni misto di bene e di male, uno dei tanti -tw`n pollw`n ti~ w[n- Menandro, La donna di Samo, v. 11.

Strano come tanti ma anche contento e fiero di esserlo.

 

Pesaro 5 ottobre ore 20, 41 giovanni ghiselli

 

 

 

Altri detrattori di Alessandro Magno: Tito Livio e Lucano.


 

Tito Livio[1] IX, 17-19. 

 

Alessandro morì giovane senza avere mai provato l’avversa fortuna: “nondum alteram fortunam expertus decessit ”. Ciro e Pompeo le furono esposti da una lunga vita. Nei consoli romani che lo avrebbero combattuto se si fossero incontrati (Tito Manlio Torquato p. e.)  c’era  indoles eadem quae in Alexandro animi ingeniique (9, 17, 9) la medesima qualità naturale di coraggio e di ingegno che in Alessandro, e in più la disciplina militaris, la quale iam inde ab initiis urbis tradita per manus, in artis perpetuis praeceptis ordinatae modum venerat ” (9, 17, 10), già fin dagli inizi della città tramandata di mano in mano, era giunta a una forma d’arte regolata da norme immutabili.

Tito Manlio Torquato durante la guerra contro i Latini (340-338 a. C.) condannò a morte il figlio che aveva osato combattere contro il suo ordine, di capo e di padre, dopo averlo accusato in questo modo:"tu, T. Manli, neque imperium consulare neque maiestatem patriam verĭtus, adversus edictum nostrum extra ordinem in hostem pugnasti, et, quantum in te fuit, disciplinam militarem, qua stetit ad hanc diem Romana res  solvisti " (Livio, 8, 7, 15) tu, Tito Manlio, senza riguardo per il comando dei consoli e per l'autorità paterna, hai combattuto il nemico contro le nostre disposizioni, fuori dallo schieramento, e, per quanto è dipeso da te, hai dissolto la disciplina militare, sulla quale sino ad ora si è fondata la potenza romana.

G. De Sanctis commenta questa guerra notando che la forza vincente dei Romani era "la consuetudine di sfruttare nella lotta per l'esistenza tutte le forze fino al limite estremo senza alcuna compassione di sé"[2].

Insomma la disciplina per i Romani del tempo di Al. era fas, legge divina, legge di natura, non mos, costume soggetto a mutamenti.

Non avrebbero ceduto ad Alessandro Manlio Torquato e Valerio Corvo insignes ante milites quam duces (Livio, 9, 17, 13) distinti come soldati prima che comandanti, né i Deci , devotis corporibus in hostem ruentes, che si erano precipitati contro il nemico con i corpi consacrati, né Papirio Cursore illo corporis robore, illo animi! (9, 17, 14) .

 Decio Mure fu collega di Tito Manlio Torquato nel consolato del 340. Fece atto di devotio nella battaglia del Vesuvio (340 contro i Latini) immolandosi agli dèi mani. Il figlio ripetè il gesto nel 295 al Sentino.

 Nemmeno quel Senato di cui Cinea, ambasciatore di Pirro a Roma ex regibus constare dixit,[3] disse che era formato da re, vinctus esset consiliis iuvenis unius (9, 17, 14), sarebbe stato vinto dagli accorgimenti di un solo giovane.  

    Se Alessandro si fosse incontrato con uomini grandi quanto i consoli romani Manlio Torquato, Valerio Corvo (console più volte nel IV secolo) , i Deci, Papirio Cursore (console nel 326), o con i senatori avrebbe detto che non aveva a che fare con Dario, praedam verĭus quam hostem, che egli aveva sbaragliato incruentus[4], senza spargimento di sangue, mulierum ac spadonum agmen trahentem, quando il “grande re” si tirava dietro uno stuolo di donne e di castrati, oneratum fortunae apparatibus suae, appesantito dallo sfarzo della sua fortuna.

Alessandro non osò altro che disprezzare opportunamente quella vanità: nihil aliud quam bene ausus vana contemnere (9, 17, 16).

Inoltre: era altra cosa l’Italia dall’India per quam temulento agmine comisabundus incessit (9, 17, 17) attraverso la quale passò gozzovigliando con uno stuolo di ubriachi.  Non ebbe nemmeno la forza di sopportare i successi che lo corruppero. Referre in tanto rege  piget superbam mutationem vestis et desideratas humi iacentium  adulationes (9, 18, 4), rincresce ricordare in un re tanto grande lo sfarzoso cambiamento del modo di vestire e le desiderate adulazioni di quelli prosternati a terra, insopportabili ai Macedoni, et foeda supplicia et inter vinum et epulas, caedes amicorum et vanitatem ementiendae stirpis” (5), e gli orrendi supplizi e le uccisioni degli amici tra il vino e i banchetti e la vanità di mentire la stirpe.

Alessandro per giunta fu un uomo dal breve destino, il popolo romano guerreggia con poche sconfitte da otto secoli.

Certo nei tredici anni di Alessandro (336-323) la fortuna è stata meno varia che negli otto secoli dei Romani. I consoli avevano meno tempo per conseguire vittorie, erano osteggiati dai tribuni della plebe, potevano essere ostacolati dalla temerarietà o dall’incapacità del collega ed ebbero anche altre difficoltà.

Come armi: clupeus sarīsaeque illis (9, 19, 7), scudo e lunga asta; i Romani lo scutum , maius corporis tegumentum, et pilum, il giavellotto, arma che si lancia e colpisce con maggior forza dell’asta. Statarius uterque miles, sapevano combattere a piè fermo, ma la phalanx era immobile e unius generis, uniforme, mentre la romana acies era formata da diverse parti: hastati, i giovani,  principes, triarii , e i velĭtes armati alla leggera, facili a dividersi e a riunirsi. Il soldato romano era ottimo nei lavori di fortificazione e quis ad tolerandum melior? Quale più bravo a sopportare la fatica? Ad Alessandro sarebbe bastato perdere una sola battaglia per perdere la guerra; i Romani non furono piegati da Caudio 321 né da Canne 216.

Se Al. avesse incontrato Sanniti e Cartaginesi avrebbe rimpianto i Persiani et  cum feminis sibi bellum fuisse dixisset, avrebbe detto di avere combattuto con delle donne. I Romani continueranno a vincere “modo sit perpetuus huius qua vivimus pacis amor et civilis cura concordiae”. 

          

Valerio Massimo gli rimprovera tre cose: di avere rinnegato suo padre, di avere preso abitudini persiane e di pretendere onori divini: “ nec fuit ei pudori filium, civem, hominem dissimulare” (Factorum et dictorum memorabilium libri[5], 9, 5, ext. 1), non si vergognò di nascondere il figlio, il cittadino, l’uomo.

Un’accusa di snobismo e di creazione di un falso mito.

 

 

Lucano[6]presenta Alessandro come un re pazzo e un bandito che ha avuto successo: proles vesāna Philippi,/ felix praedo " (Pharsalia, X, 20-21). Generato quale esempio non utile al mondo di come tante terre si trovino sotto il dominio di uno solo: "non utile mundo-editus exemplum, terras tot posse sub uno-esse viro"[7] (26- 27). Venuto dalle spelonche della Macedonia, disprezzò Atene vinta dal padre, e si precipitò tra i popoli d'Asia humana cum strage (31), mescolò fiumi sconosciuti con il sangue[8]: insanguinò quello dei Persiani l'Eufrate, quello degli Indiani il Gange, lui terrarum fatale malum (34), sidus iniquum- gentibus (35-36), stella infausta per i popoli. Infine fu la natura a imporre il termine della morte al re pazzo: vaesano …regi (v. 42).

 

Pesaro 5 ottobre 2024 ore 19, 50 giovanni ghiselli.

 

 



[1] 59-17 d. C.

[2]Storia Dei Romani , vol II, p. 261.

[3] dopo la vittoria del re epirota, ottenuta nella battaglia di Eraclea (280 a.C.), Pirro lo inviò a Roma per dettare le condizioni di pace e restituire i prigionieri catturati al termine della battaglia.

[4] Vedremo quanto questa affermazione sia falsa e contraria all’obiettività “epica” (cfr. S. Mazzarino) della storiografia antica.

[5] Nove libri pubblicati nel 31 d. C.

[6] 39-65 d. C. 

[7] "I versi di Lucano esprimono un giudizio forse esasperato e unilaterale, che però, riferito alla reputazione postuma di Al., è fin troppo vero" (Bosworth,  Alessandro Magno, p. 199).

 

[8] Altro che incruentus!

Seneca deprezza e disprezza Alessandro Magno


 

Seneca nel De ira (40 d. C.) ricorda che Al. "Clitum carissimum sibi et unā educatum inter epulas transfōdit manu quidem suā , parum adulantem et pigre ex Macedone ac libero in Persican servitutem transeuntem" (III, 17, 1). Non solo: Nam Lysimachum, aeque familiarem sibi leoni obiecit (2). Lisimaco se la cavò, ma poi commise a sua volta efferatezze enormi[1].  In una delle   Epistole, Alessandro è presentato come esempio di quella voluntaria insania che è l'ubriachezza : ammazzò Clito "et intellecto facinore mori voluit, certe debuit " (82, 19). 

Più avanti (82, 23) dice che fu l'intemperantia bibendi a mandarlo alla tomba.

 

Nel De beneficiis [2] Seneca presenta Al. come un vesanus adulescens il quale seguiva le orme di Ercole e di Libero (Herculi Liberique vestigia sequens) ma con Ercole non aveva nulla in comune. Ercole infatti non vinceva per sé (Hercules nihil sibi vicit) : lui era malorum hostis, bonorum vindex, terrarum marisque pacator. E’ il lato buono di Ercole che ha pure un dark side.

Alessandro invece fu "a pueritia latro gentiumque vastator, tam hostium pernicies quam amicorum, qui summum bonum duceret terrori esse cunctis mortalibus, oblitus non ferocissima tantum, sed ignavissima quoque animalia timeri ob malum virus" (I, 13, 3), dimentico che non solo gli animali più feroci ma anche i più vili sono temuti per il loro veleno

Alessandro era meno ricco di Diogene al quale poteva offrire meno di quanto egli poteva rifiutare.  Diogene multo potentior, multo locupletior fuit omnia tunc possidente Alexandro; plus enim erat, quod hic nollet accipere, quam quod ille posset dare (V, 4, 4).

 Alessandro era povero poiché non si accontentava mai: “tantum illi deest quantum cupit” (VII, 2, 6), tanto gli manca quanto ancora desidera. Quando si fu spinto sul mar Rosso plus deerat quam quā venerat (VII, 2, 5) gli mancava più terra di quella per dove era giunto.

Il saggio dopo avere contemplato il cosmo può dire parole che si addicono a Dio: “Haec omnia mea sunt!” perché non c’è nulla al di là del tutto quia nihil est extra omnia. (VIII, 3, 3)

 

Al era infelice: poiché aveva un soprannome discrepante con la piccolezza della terra.

Seneca in Ep. 91, 17 afferma che Al. fu infelice poiché apprese dalla geometria quam pusilla terra esset ; capì o avrebbe dovuto capire che non poteva essere grande: quis enim esse magnus in pusillo potest?

 

Vediamo Alexandros: anche secondo Pascoli non basterà l'immensa conquista compiuta a soddisfare gli illimitati desideri, o meglio il desiderio di infinito del re Alessandro Magno che, pentito della conquista, piange dicendo:"Montagne che varcai! dopo varcate,/sì grande spazio di su voi non pare,/che maggior prima non lo invidïate./Azzurri, come il cielo, come il mare,/o monti! o fiumi! era miglior pensiero/ristare, non guardare oltre, sognare: il sogno è l'infinita ombra del vero" (vv. 14-20). Quindi piange: “E così, piange, poi che giunse anelo:/piange dall’occhio nero come morte;/piange dall’occhio azzurro come cielo” (Pascoli, Alexandros,vv. 41-43).

 

Dopo avere vinto Dario e occupato l’India, pauper est Alexander (Seneca, Ep. 119, 7), si sente povero: scrutatur maria ignota, in oceanum classes novas mittit et ipsa, ut ita dicam, mundi claustra perrumpit, spezza le barriere del mondo.

 

 

 Al. fu infelice anche per il fatto che lo spingeva la smania di devastare le terre altrui: “Agebat infelicem Alexandrum furor aliena vastandi” (Ep. 94, 62). Seneca prosegue dicendo che era simile alle bestie feroci quae plus quam exigit fames mordent. Mise il giogo a nazioni che Dario aveva lasciato libere. Cerca di seguire le orme di Ercole e Libero e ipsi naturae vim parat (94, 63). 

Inoltre fu infelice perché aveva ammazzato Clito e perduto Efestione e si macerava ora per il rimorso ora per il rimpianto: id enim egerat ut omnia potius haberet in potestate quam adfectus (Ep. 113, 29), era riuscito a dominare tutto tranne le proprie passioni.

Seneca è coerente con le posizioni degli Stoici e  dei Peripatetici  che vedevano in Al. un tiranno e attribuivano i suoi successi alla fortuna.

Una tradizione confutata da Plutarco[3] nello scritto giovanile De Alexandri Magni fortuna aut virtute.

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Nelle Naturales quaestiones Seneca manifesta avversione contro gli storici di Alessandro : è meglio spengere i propri vizi piuttosto che raccontare ai posteri quelli degli altri: "quanto satius est sua mala extinguere quam aliena posteris tradere! "

Quanto potius deorum opera celebrare quam Philippi aut Alexandri latrocinia ceterorumque, qui, exitio gentium clari, non minores fuere pestes mortalium quam inundatio…" (III. Prefazione, 5). Cfr. il capo come mivasma e pestis.

Pesaro 5 ottobre 2024 ore 19, 43 giovanni ghiselli

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[1] Nel 301 a Ipso in Frigia sconfisse e uccise Antigono Ciclope. Ebbe la Tracia e l'Asia minore occidentale, Seleuco quella orientale. Nel 285 divenne re di Macedonia dopo averne cacciato Pirro e Antigono Gonata. Nel 281 venne sconfitto e ucciso da Seleuco a Curupedio presso Magnesia al Sipilo. Seleuco poi fu assassinato da Tolomeo Cerauno che divenne re di Macedonia. Nel 279 il Cerauno fu ucciso dai Celti e Antigono Gonata, figlio di Demetrio Poliorcete e nipote di Antigono Ciclope divenne re di Macedonia.

[2] In sette libri completati nel 64 d. C.

[3] "Che profitto trarrà dalla lettura delle Vite del nostro Plutarco? La mia guida si ricordi a che cosa mira il suo compito; e imprima nella mente del suo discepolo non tanto la data della distruzione di Cartagine, quanto piuttosto i costumi di Annibale e di Scipione" Montaigne , Saggi,  (del 1588),  p. 206

Ifigenia CLVIII La gara veramente olimpica.


 

L’ultimo giorno dovevo affrontare una gara allo stadio

Volevo vincerla e in ogni caso sentivo la necessità dell’ascesi somatica, di quell’esercizio sportivo senza il quale si rimane, o si diventa, “più molli del necessario”[1].

L’agone era quello dei 1500 metri per i quali non avevo allenamento né talento specifico. La mia distanza infatti era, ed è, quella dei 5000, 12 giri e mezzo di pista. Eravamo otto agonisti. Il più vecchio ero io. Il più temibile era un francese ventiduenne allenato a quel percorso, tre giri e trecento metri, troppo breve  per le mie caratteristiche fisiche e per quelle mentali, che poi sono connesse. Io ho bisogno di tempi e distanze lunghe. Mi manca lo scatto, fisico e psichico. Tra gli altri c’era un centometrista napoletano, Diego, che se avesse resistito alle mie spalle fino all’ultimo rettilineo, mi avrebbe stracciato. Dovevo imporre un ritmo elevato sin dall’inizio, senza però arrivare sfiancato nella parte finale. Nonostante il mio allenamento negli stadi, dove gareggia velocità di piedi e vincono vertici ardimentosi di forza[2] intelligente, non ero sicuro di me: troppo breve era quella competizione  rispetto ai miei mezzi, ai miei ritmi, perfino ai miei gusti. Nello sport e nella vita ho bisogno del beneficio del tempo per utilizzare la mia tenacia e la mia resistenza alla fatica e al dolore. Anche per questo prego, oltrepassando Solone[3], che il destino di morte mi colga per lo meno novantanovenne, come la zia Giorgia.

Ifigenia faceva il tifo per me, mi incoraggiava: diceva che avrei vinto di sicuro, e quando quella donna mi dava fiducia, preferivo morire che demeritarla.

Al momento della partenza ero nervoso: andavo nel bagno degli spogliatoi a orinare ogni cinque minuti, tutte le volte volta nella speranza di perdere qualche grammo aggravante di peso superfluo la mia gara. Lo sforzo mi provocò perfino una goccia di sangue, con terrore e presagi di qualche sfacelo forse nemmeno abbastanza remoto[4].

Ma oramai ero quasi in ballo, ossia in corsa e dovevo correre.

Sul traguardo, con  Ifigenia, c’era Fulvio, l’amico più caro, e una ventina di conoscenti, persone assai meno importanti. Anche con loro però avrei fatto una  figura bella oppure porca, da senescente fallito. Indossavo una maglietta gialla con il nome del nostro liceo dove avrei trionfato anche sui malevoli, vecchicolleghi [5] se avessi vinto quell’agone latore di auspici. Sotto la maglia avevo un paio di calzoncini rossi, aderenti, leggeri, regalo ben augurante della mia bella compagna. Partii dunque in testa imponendo un’andatura veloce per stancare subito Diego, il ragazzo napoletano dal temibile scatto finale. Invero dopo solo trecento metri, ossia all’inizio del terz’ultimo giro, avevano perso terreno tutti, tranne l’antagonista francese che mi restava attaccato alle spalle, e, a giudicare dal respiro,  sembrava più sciolto e meno affaticato di me. Ifigenia intanto, al primo passaggio sul traguardo, saltava e gridava incoraggiandomi. Procedemmo nella stessa maniera per tutto il giro seguente: io davanti, sperando di sentire affannata la  lena del transalpino, lui dietro, continuando a tallonarmi e a respirare senza fretta, quasi senza fatica. Dal suo fiato più lento e disteso del mio, capivo che, se voleva, poteva imporre un ritmo più alto. Infatti, all’inizio del penultimo giro mi superò.

Ifigenia non smetteva di incoraggiarmi, fiduciosa nella mia, nella nostra vittoria.

Tutti gli altri, distanziati parecchio, erano ormai fuori gioco.

L’unico antagonista dunque, agli ottocento metri dalla linea d’arrivo mi superò, poi proseguì nel suo attacco: come il fiato, anche il passo aveva agile e sciolto, e io stentavo a rimanergli dietro. Mi sembrava di ciabattare rigido, contratto, appesantito; mi sentivo pure macchiato di sangue appiccicoso e oneroso nelle mutande , mentre il rivale  pareva divinamente a suo agio: come se si allenasse per gioco, in tranquilla attesa di darmi la botta finale, l’implacabile colpo di grazia. Pensavo alla sconfitta come a un presagio sinistro, un triste preannunzio di danni futuri[6].

 Ai cinquecento metri dall’arrivo, poco prima di passare per la terza volta davanti a Ifigenia che mi incitava a gran voce e mostrava di credere in me, nella mia vittoria, nonostante fossi già prossimo allo stremo, volli fare la prova dello sprint che avrebbe risolto la gara dopo un altro giro.

Per non correre il rischio di restare chiuso all’interno, mi spostai all’esterno, raccolsi buona parte delle forze residue e feci uno scatto con il quale oltrepassai il rivale e, per la penultima volta, il traguardo.

Ifigenia gridò: “bravo, bravo!” e fece due salti battendo freneticamente le mani. Mancavano ancora quattrocento metri però, e io avevo dato quasi tutto. Meta erat longe[7] rispetto a quanto mi restava di forza e di fiato.

Dopo una trentina di metri infatti il rivale tornò a superarmi, e non con uno  scatto repentino e inopinato, come avevo fatto io prima impiegando una dose spropositata di energie, ma con l’alzare progressivamente il ritmo delle sue  lunghe, potenti falcate. Aveva quattordici anni meno di me ed era una decina di centimetri più alto. Ali sembravan le sue gambe snelle[8].

Ali del divino uccello di Zeus[9].

Parevano sollevarsi e distendersi senza troppa fatica, quasi con negligenza sovrana, mentre le mie, per reggere il nuovo ritmo, arrancavano rigidamente con rabbia pesante, con stento, fatica, dolore, umiliazione.

Secco usciva l’affanno dalla mia bocca aperta e stremata[10].

Per non rimanere turpemente staccato, dovevo adoperare tutta quanta la forza che potevo trovare frugando a fondo nella mia persona, tutte le energie positive accumulate, impiegate e allenate in trentacinque anni e mezzo di vita.

Pensai a Ifigenia che mi aveva sempre apprezzato anche per come correvo i 5000 metri. Poi mi feci venire in mente che in luglio avevo scalato il Pordoi con una bici pesante, vecchia, arrugginita, eppure a una media di 18 chilometri all’ora,  che con tre anni di studio intelligente ero diventato un professore egregio e avevo fatto innamorare di me, non bellissimo, non ricco, del tutto privo di ogni potere, la più bella, giovane e corteggiata supplente del liceo classico più frequentato della dotta città di Bologna. Ebbene quella ragazza sarebbe rimasta delusa se fossi arrivato secondo. Probabilmente mi avrebbe disprezzato e lasciato. Infatti la donna che può scegliere in un mazzo di pretendenti, non perdona l’insuccesso[11] al prescelto per sbaglio , ed è giusto così. Dopo tanta prosopopea, debole e  imbecille mi sarei rivelato arrivando secondo.

Me lo diceva la zia Rina se non prendevo il voto più alto con la prova più egregia di tutta la classe. Non me lo perdonava finché non tornavo a primeggiare e le sono grato di questo.

Non mi voltai, poiché non sentivo nessuno dietro di me: il secondo posto era assicurato, per carità, ma cosa me ne facevo? Non potevo rassegnarmi a non vincere senza avere spremuto me stesso fino all’ultima goccia di forza, di sangue, di vita, di tutto. Ifigenia da me si aspettava almeno il primo posto. Meglio ancora, del tutto degno di tanta amante sarebbe stato che io vincessi con cento metri di vantaggio. Ma questo non era possibile. Mentre pensavo e mi spronavo come potevo, dovevo usare tutte le energie rimaste per non perdere metri preziosi. Ho scritto sopra che mi manca lo scatto in partenza, però quando arrivo in fondo a un percorso meno stanco degli altri, posso avvalermi di questa relativa freschezza negli ultimi metri. Quindi, se riuscivo a rimanergli dietro fino all’ultima curva, sfruttando oltretutto la scia, nel rettilineo finale potevo cercare di superarlo mettendo in lizza tutto quanto di vivo poteva esserci ancora in me. “Oh mia bella mora, no, non mi lasciare, non mi devi abbandonare, no, no, no, no, no, no!”, canticchiai mentalmente, per sdrammatizzare, il ritornello di una canzoncina della mia prima adolescenza.

 

Marisa era la bella mora di allora. Bella, mora e brava a scuola. Si faceva a chi era più bravo gareggiando nel tradurre il latino alle scuole medie Lucio Accio noi due, pur in sezioni diverse.

“Perché ne sei innamorato? Mi domandava Piero, un compagno di classe mattacchione: “tanto non ti sposa”. Andavo la sera a trovarlo a casa sua, in viale Trento, per insegnargli a leggere i distici di Ovidio, in metrica.

“Pyramus et Thisbè, iuvenùm pulcherrimus alter

altera, quas Orièns, habuìt, praelata puellis,

contiguàs tenuère domòs, ubi dicitur altam

coctilibùs murìs cinxisse Semiramis urbem”.

 Piero continuava a leggere Thìsbe e lo bocciarono in quinta ginnasio.

E’ ancora un caro amico.

Tanto latino si faceva allora al Lucio Accio con la professoressa Giulia Gattoni e al ginnasio con il professor vincenzo Tamino: li ricordo entrambi con gratitudine.

In seconda liceo vinsi un premio per i trenta studenti di liceo classico più bravi d’Italia. Marisa non mi contraccambiò ma io non gliel’avevo mai chiesto.

 Questo pensavo sperando che l’alloro dei miei successi tornasse a verdeggiare nello stadio dell’Università di Debrecen.

 

L’ultima curva fu atroce. Il rivale mi attaccò ancora, scattando a ripetizione. Prese un vantaggio di tre-quattro metri. Quando sbucai sul rettilineo dell’arrivo, vidi Ifigenia. Agitava le braccia alzate sopra la testa e gridava: “Dai Gianni, non cedere amore, non cedere!”

Mi vennero in mente le tante volte che avevo corso gli stadi: prima per meritarmi l’amore di donne giovani e belle, poi per conservarlo. La più bella, la vera borsa di studio e di ogni erculea fatica era lì, e mi incitava con tutta la forza, e pretendeva che il suo uomo non fosse soltanto il secondo.

“Non cederò”[12] pensai, “prima crepo. Senza l’aurea Afrodite non potrei vivere più”.

Richiamai alla memoria i faticosi successi della mia travagliosa esistenza per ottenere il consenso, l’ammirazione e l’amore delle femmine umane: dagli ottimi voti scolastici con i quali volevo conquistare la mamma, la nonna, le zie, la bruna Marisa,  alle citazioni di Leopardi o di Dante, di Petronio, di Eliot, di Pavese per colpire Helena, alle conversazioni intelligenti, con Päivi, al matto, eppure non disperatissimo impegno nelle materie di insegnamento che mi avrebbe procurato l’agognata borsa di studio umana incarnata nella splendidissima supplente Ifigenia che era lì a Debrecen con me, presente e viva.

Poi pensai di nuovo alle fatiche fisiche: gli allenamenti a piedi e in bicicletta, le nuotate nel mare di Pesaro; ricordai l’impiego faticoso, anche tribolato del mio tempo: le ore passate in solitudine a prendere il sole, disidratato sulla sabbia rovente, o scorticato dal freddo sulla neve delle montagne battute da soffi acuti di vento ghiacciato, rabbrividendo fino alle viscere, in solitudine immobile per ricavarne l’abbronzatura che mi rendesse più piacente e  gradito alle femmine umane.

Poi i digiuni, la fame a volta crudele, talora insonne,  per conquistare, o recuperare, o mantenere la linea da asceta, la vita da torero, la forma stilizzata che mi soddisfaceva e mi rendeva beato in termini di rapporti umani. Nell’itinerario lungo e difficile c’erano molti sacrifici, fino alla spietatezza verso me stesso, c’era del dolore, c’era qualche frustrazione, ma c’erano anche diversi successi.

Potevo vincere ancora.

Feci uno scatto a novanta metri dall’arrivo: ai settanta avevo raggiunto la schiena dell’antagonista. Temporeggiai per dieci metri, onde lenire per un momento l’affanno, quindi mi portai sulla destra e scattai di nuovo: lo superai, poi vidi che guadagnavo terreno; allora, con gli occhi chiusi e il collo tutto teso all’indietro, senza pensare più a niente, quasi non respirando, mi scagliai sul traguardo impiegando e impegnando allo spasimo tutto quanto di vivo mi restava dentro.

Superata la meta, respirai e riaprii gli occhi. Ifigenia esultava. Mi buttai boccheggiante sul prato interno alla pista. Il francese arrivò distanziato di cinque o sei metri. Diego di un centinaio. Gli altri dopo di lui.

Quando ebbi ripreso fiato e piena coscienza, Ifigenia venne a dirmi: “ bravo, non mi aspettavo niente di meno da te”.

Fulvio disse che avevo fatto un figurone con quei ventenni. Ero felice.

Quella sera io e la mia donna capimmo che il nostro rapporto aveva valore finché l’uno dava all’altro la spinta verso le cose egregie. La gara vinta era un segno, un gran buon segno. La sera, non avendo in collegio una stanza comune,  facemmo l’amore diverse volte nella nera Volkswagen tra gli alberi antichi della foresta incantata. Non sentivo il desiderio né il rimpianto di donne migliori. “Finché mi fa vincere-pensai-l’ottima è lei”.

Naturalmente dovevo, e volevo, a mia volta incoraggiarla a primeggiare  sempre, a essere egregia tra tutte le altre[13].

Ma questo non mi fu consentito da lei stessa e non mi fu possibile.

 

Pesaro  5  ottobre 2024 ore 17, 54 giovanni ghiselli.

 

p. s

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[1] Nella Repubblica (410d), Platone rappresenta suo fratello Glaucone che conversa co Socrate e sostiene che coloro i quali praticano la sola e pura ginnastica sono ajgriwvteroi tou` devonto~, più rozzi del necessario, ma quelli che non praticano l’esercizio fisico sono malavkwteroi, più molli del necessario. Parole sante. Si può pensare da una parte a tanti sportivi professionisti, dall’altra agli umbratici doctores  alle talpe che si acciecano nel buio e nella polvere delle biblioteche.

[2] Cfr. Pindaro, Olimpica I, vv.95-96

[3] ojgdwkontaevth moi`ra kivcoi qanavtou, (fr. 22D, v. 4),  il  destino di morte mi colga ottantenne.

[4] “Essi fuggono via/da qualche remoto sfacelo;/ma quale, ma dove egli sia,/non sa né la terra né il cielo” (Giovanni Pascoli, Myricae, Scalpitìo,  vv. 9-12)

Nel 2017 dovrò sottopormi a un intervento di riduzione della prostata.

[5] Cfr. Terenzio, Andria, 6-7.

[6] Cfr. Dante, Inferno, XIII, 10-12: “Quivi le brutte Arpìe lor nidi fanno,/che cacciar delle Strofade i Troiani/con tristo annunzio di futuro danno”.

[7] Cfr. Ovidio, Metamorfosi, X, 665, la meta era lontana. Il poeta peligno racconta la gara  tra Atalanta e  Ippomene che vince la corsa grazie all’astuzia dei pomi d’oro.

[8] Cfr. Dante, Inferno, XVI, 87.

[9] Cfr. Pindaro, Olimpica II, 88.

[10] Cfr. Ovidio, Metamorfosi, X, 663: “aridus e lasso veniebat anhelitus ore”. Ippomene non ce l’avrebbe fatta senza l’aiuto di Venere che gli aveva dato le mele d’oro. Né io senza l’incoraggiamento, l’aiuto mentale di Ifigenia.

[11] Cfr. Čechov, Il gabbiano, II. “Le donne non perdonano l’insuccesso”, dice Kostantin che poi si uccide.

[12] Cfr.  Iliade, XIX, 423 ouj lhvxw. E’ Achille che risponde a Xanto, il cavallo fatato che, abbassato il capo e tutta la chioma, gli ha predetto la morte vicina.

[13] Cfr. Iliade,  VI, 208  "aije;n ajristeuvein kai; uJpeivrocon e[mmenai a[llwn”.

Ifigenia CLXVII. Il decadimento irreversibile. La più vana delle emozioni.


 

Andammo a letto. Ognuno nel suo, in collegi diversi. Verso le tre, quando l’alba faceva già biancheggiare il cielo e si rischiaravano le foglie degli alberi mosse adagio da un vento leggero a strusciarsi sui vetri delle finestre, Ifigenia aprì la porta della stanza dove non riuscivo a dormire, mise la testa nera nel vano dell’uscio e mi pregò di uscire. Ci fronteggiamo seduti nella saletta di studio compresa tra le due camere con quattro letti ciascuna.

Con le lacrime negli occhi scuri via via rischiarati dalla luce crepuscolare disse che aveva capito di non avere più niente da darmi, né io del resto avevo alcuna attenzione per lei, sicché doveva tornare a casa sua perché in quel luogo lontano ed estraneo  si sentiva come un gattino abbandonato da tutti e desolato.  Sapeva che i gatti mi piacciono molto.

Mi fece pena. Le accarezzai la testa che si piegava davvero come quella di un piccolo felino e con voce commossa sussurrai: “Non buttarti giù così: vedrai che riusciremo a rimettere in piedi il nostro rapporto uscito di sesto. Ti prometto che mi impegnerò per ricomporre la frattura del nostro amore scomposto”.

 

Avevo imparato questo termine medico nel 1972 quando caddi dalla bicicletta in discesa e mi rialzai con terrore vedendo l’avambraccio destro dimidiato: la mano pendeva sul ventre come un pezzo di ramo spezzato.

Era una ftrattura molto scomposta e avevo rischiato di restare monco per tutta la vita mi dissero all’ospedale San Salvatore di Pesaro dopo un’ operazione di ore.  Invece ero tornato a vivere come prima. Con il braccio ancora ingessato anzi, soltanto due mesi poù tardi, avevo vissuto uno degli amori belli della mia vita mortale: quello con la brava linguista studiosa  Kaisa.

 

Ifigenia si confortò e smise di lacrimare. Disse: “quando ti impegni tu hai successo, dato l’uomo che sei”

“Se ce la metti tutta anche tu, replicai, trionferemo sulla parte cattiva, dgenerata del nostro amore”

“Sì, te lo prometto che mi impegnerò e non ti deluderò”.

Erano parole dettate dalla commozione momentanea. Non potevamo rimettere insieme la nostra relazione uscita dai cardini. Le ferite amorose diventano ulcere e  la caduta è irreversibile: non ci si rialza più.

 

 

Tra alti e bassi, come sempre, giungemmo agli sgoccioli di Debrecen. Il penultimo giorno era il dì che si chiudeva con il   bùcsù est, la sera dell’addio, l’ultimo incontro organizzato e solenne che per me e diversi sodali miei era di fatto un arrivederci poiché ogni volta eravamo stati bene nel mese della borsa di studio  e volevamo tornare nella nostra amata Università estiva.

A Ifigenia invece quell’ambiente non era piaciuto.

In effetti non era di suo gusto. A lei piaceva gente rivolta in maniera diversa, orientata  verso un pubblico dall’alto di una ribalta.

Sicché non volle partecipare alla festa del ringraziamento.

 Non veniva valorizzata, nemmeno notata, poiché le sue scene agli occhi di tanti studenti borsisti, per lo più studiosi,  non avevano alcun valore. Ifigenia insomma era fuori luogo tra le persone che piacevano a me.

Ero contrariato, comunque l’accompagnai in camera sua. Quindi tornai nel mevgaron, il salone posto nel centro della Nyáry Egyetem. Tali contaminazioni linguistiche funzionavano bene tra noi borsisti di Debrecen, quasi tutti studiosi di lingue e letterature. Anche io in siffatta compagnia  funzionavo.

Volevo rivedere e salutare una bella ragazza napoletana dallo sguardo che avevo notato con interesse quando mi gratificava  rivolgendomi anche solo un’occhiata. Ifigenia capì che andavo a cercare uno stimolo oltre lei e mi chiese di risparmiarle altri dispiaceri. La salutai non senza un po’ di rimorso.

Mentre guardavo la bella partenopea che non sdegnava il mio sguardo, pensai al dispiacere che avevo causato nove anni prima a Helena incinta corteggiando sfacciatamente la deliziosa Josiane di Strasburgo che mi aveva stuzzicato  e non volli ripetere il fatto non solo poco commendevole ma anche privo di senso ossia di risultati oramai. Insomma pensai a Ifigenia come al cucciolo di un animale domestico abbandonato da un padrone crudele.

Ifigenia, come mi vide, disse: “Sei andato a coltivare la più vana delle emozioni”. Aveva capito tutto. “Proprio così”, ammisi e in quel momento l’ammirai.

 

Pesaro  5 ottobre  2024 ore 17, 30 giovanni ghiselli

 

 

 

 

Ifigenia CLIX “Uno dei tanti”.

  Il giorno seguente partimmo, senza Fulvio.   Eravamo diretti in Grecia dove volevamo pregare per l’amore e per l’arte. Avevamo poc...