L’ultimo giorno dovevo
affrontare una gara allo stadio
Volevo vincerla e in ogni
caso sentivo la necessità dell’ascesi somatica, di quell’esercizio sportivo
senza il quale si rimane, o si diventa, “più molli del necessario”.
L’agone era quello dei 1500
metri per i quali non avevo allenamento né talento specifico. La mia distanza
infatti era, ed è, quella dei 5000, 12 giri e mezzo di pista. Eravamo otto
agonisti. Il più vecchio ero io. Il più temibile era un francese ventiduenne
allenato a quel percorso, tre giri e trecento metri, troppo breve per le mie caratteristiche fisiche e per
quelle mentali, che poi sono connesse. Io ho bisogno di tempi e distanze
lunghe. Mi manca lo scatto, fisico e psichico. Tra gli altri c’era un
centometrista napoletano, Diego, che se avesse resistito alle mie spalle fino
all’ultimo rettilineo, mi avrebbe stracciato. Dovevo imporre un ritmo elevato
sin dall’inizio, senza però arrivare sfiancato nella parte finale. Nonostante
il mio allenamento negli stadi, dove gareggia velocità di piedi e vincono
vertici ardimentosi di forza intelligente, non ero sicuro di me:
troppo breve era quella competizione
rispetto ai miei mezzi, ai miei ritmi, perfino ai miei gusti. Nello
sport e nella vita ho bisogno del beneficio del tempo per utilizzare la mia
tenacia e la mia resistenza alla fatica e al dolore. Anche per questo prego,
oltrepassando Solone, che il destino di morte mi colga per
lo meno novantanovenne, come la zia Giorgia.
Ifigenia faceva il tifo per
me, mi incoraggiava: diceva che avrei vinto di sicuro, e quando quella donna mi
dava fiducia, preferivo morire che demeritarla.
Al momento della partenza ero
nervoso: andavo nel bagno degli spogliatoi a orinare ogni cinque minuti, tutte
le volte volta nella speranza di perdere qualche grammo aggravante di peso
superfluo la mia gara. Lo sforzo mi provocò perfino una goccia di sangue, con
terrore e presagi di qualche sfacelo forse nemmeno abbastanza remoto.
Ma oramai ero quasi in ballo,
ossia in corsa e dovevo correre.
Sul traguardo, con Ifigenia, c’era Fulvio, l’amico più caro, e
una ventina di conoscenti, persone assai meno importanti. Anche con loro però
avrei fatto una figura bella oppure
porca, da senescente fallito. Indossavo una maglietta gialla con il nome del
nostro liceo dove avrei trionfato anche sui malevoli, vecchicolleghi se avessi vinto quell’agone latore di
auspici. Sotto la maglia avevo un paio di calzoncini rossi, aderenti, leggeri,
regalo ben augurante della mia bella compagna. Partii dunque in testa imponendo
un’andatura veloce per stancare subito Diego, il ragazzo napoletano dal
temibile scatto finale. Invero dopo solo trecento metri, ossia all’inizio del
terz’ultimo giro, avevano perso terreno tutti, tranne l’antagonista francese
che mi restava attaccato alle spalle, e, a giudicare dal respiro, sembrava più sciolto e meno affaticato di me.
Ifigenia intanto, al primo passaggio sul traguardo, saltava e gridava
incoraggiandomi. Procedemmo nella stessa maniera per tutto il giro seguente: io
davanti, sperando di sentire affannata la
lena del transalpino, lui dietro, continuando a tallonarmi e a respirare
senza fretta, quasi senza fatica. Dal suo fiato più lento e disteso del mio,
capivo che, se voleva, poteva imporre un ritmo più alto. Infatti, all’inizio
del penultimo giro mi superò.
Ifigenia non smetteva di
incoraggiarmi, fiduciosa nella mia, nella nostra vittoria.
Tutti gli altri, distanziati
parecchio, erano ormai fuori gioco.
L’unico antagonista dunque,
agli ottocento metri dalla linea d’arrivo mi superò, poi proseguì nel suo
attacco: come il fiato, anche il passo aveva agile e sciolto, e io stentavo a
rimanergli dietro. Mi sembrava di ciabattare rigido, contratto, appesantito; mi
sentivo pure macchiato di sangue appiccicoso e oneroso nelle mutande , mentre
il rivale pareva divinamente a suo agio:
come se si allenasse per gioco, in tranquilla attesa di darmi la botta finale,
l’implacabile colpo di grazia. Pensavo alla sconfitta come a un presagio
sinistro, un triste preannunzio di danni futuri.
Ai cinquecento metri dall’arrivo, poco prima
di passare per la terza volta davanti a Ifigenia che mi incitava a gran voce e
mostrava di credere in me, nella mia vittoria, nonostante fossi già prossimo
allo stremo, volli fare la prova dello sprint che avrebbe risolto la gara dopo
un altro giro.
Per non correre il rischio di
restare chiuso all’interno, mi spostai all’esterno, raccolsi buona parte delle
forze residue e feci uno scatto con il quale oltrepassai il rivale e, per la
penultima volta, il traguardo.
Ifigenia gridò: “bravo,
bravo!” e fece due salti battendo freneticamente le mani. Mancavano ancora
quattrocento metri però, e io avevo dato quasi tutto. Meta erat longe rispetto a quanto
mi restava di forza e di fiato.
Dopo una trentina di metri
infatti il rivale tornò a superarmi, e non con uno scatto repentino e inopinato, come avevo
fatto io prima impiegando una dose spropositata di energie, ma con l’alzare
progressivamente il ritmo delle sue
lunghe, potenti falcate. Aveva quattordici anni meno di me ed era una
decina di centimetri più alto. Ali sembravan le sue gambe snelle.
Ali del divino uccello di
Zeus.
Parevano sollevarsi e
distendersi senza troppa fatica, quasi con negligenza sovrana, mentre le mie,
per reggere il nuovo ritmo, arrancavano rigidamente con rabbia pesante, con
stento, fatica, dolore, umiliazione.
Secco usciva l’affanno dalla
mia bocca aperta e stremata.
Per non rimanere turpemente
staccato, dovevo adoperare tutta quanta la forza che potevo trovare frugando a
fondo nella mia persona, tutte le energie positive accumulate, impiegate e
allenate in trentacinque anni e mezzo di vita.
Pensai a Ifigenia che mi
aveva sempre apprezzato anche per come correvo i 5000 metri. Poi mi feci venire
in mente che in luglio avevo scalato il Pordoi con una bici pesante, vecchia,
arrugginita, eppure a una media di 18 chilometri all’ora, che con tre anni di studio intelligente ero
diventato un professore egregio e avevo fatto innamorare di me, non bellissimo,
non ricco, del tutto privo di ogni potere, la più bella, giovane e corteggiata
supplente del liceo classico più frequentato della dotta città di Bologna.
Ebbene quella ragazza sarebbe rimasta delusa se fossi arrivato secondo.
Probabilmente mi avrebbe disprezzato e lasciato. Infatti la donna che può
scegliere in un mazzo di pretendenti, non perdona l’insuccesso al prescelto per
sbaglio , ed è giusto così. Dopo tanta prosopopea, debole e imbecille mi sarei rivelato arrivando
secondo.
Me lo diceva la zia Rina se
non prendevo il voto più alto con la prova più egregia di tutta la classe. Non
me lo perdonava finché non tornavo a primeggiare e le sono grato di questo.
Non mi voltai, poiché non
sentivo nessuno dietro di me: il secondo posto era assicurato, per carità, ma
cosa me ne facevo? Non potevo rassegnarmi a non vincere senza avere spremuto me
stesso fino all’ultima goccia di forza, di sangue, di vita, di tutto. Ifigenia
da me si aspettava almeno il primo posto. Meglio ancora, del tutto degno di
tanta amante sarebbe stato che io vincessi con cento metri di vantaggio. Ma
questo non era possibile. Mentre pensavo e mi spronavo come potevo, dovevo
usare tutte le energie rimaste per non perdere metri preziosi. Ho scritto sopra
che mi manca lo scatto in partenza, però quando arrivo in fondo a un percorso
meno stanco degli altri, posso avvalermi di questa relativa freschezza negli
ultimi metri. Quindi, se riuscivo a rimanergli dietro fino all’ultima curva,
sfruttando oltretutto la scia, nel rettilineo finale potevo cercare di
superarlo mettendo in lizza tutto quanto di vivo poteva esserci ancora in me.
“Oh mia bella mora, no, non mi lasciare, non mi devi abbandonare, no, no, no,
no, no, no!”, canticchiai mentalmente, per sdrammatizzare, il ritornello di una
canzoncina della mia prima adolescenza.
Marisa era la bella mora di
allora. Bella, mora e brava a scuola. Si faceva a chi era più bravo gareggiando
nel tradurre il latino alle scuole medie Lucio Accio noi due, pur in sezioni
diverse.
“Perché ne sei innamorato? Mi
domandava Piero, un compagno di classe mattacchione: “tanto non ti sposa”.
Andavo la sera a trovarlo a casa sua, in viale Trento, per insegnargli a
leggere i distici di Ovidio, in metrica.
“Pyramus et Thisbè, iuvenùm pulcherrimus alter
altera, quas Orièns, habuìt, praelata puellis,
contiguàs tenuère domòs, ubi dicitur altam
coctilibùs murìs cinxisse Semiramis
urbem”.
Piero continuava a leggere Thìsbe e lo bocciarono in quinta
ginnasio.
E’ ancora un caro amico.
Tanto latino si faceva allora
al Lucio Accio con la professoressa Giulia Gattoni e al ginnasio con il
professor vincenzo Tamino: li ricordo entrambi con gratitudine.
In seconda liceo vinsi un
premio per i trenta studenti di liceo classico più bravi d’Italia. Marisa non
mi contraccambiò ma io non gliel’avevo mai chiesto.
Questo pensavo sperando che l’alloro dei miei
successi tornasse a verdeggiare nello stadio dell’Università di Debrecen.
L’ultima curva fu atroce. Il
rivale mi attaccò ancora, scattando a ripetizione. Prese un vantaggio di
tre-quattro metri. Quando sbucai sul rettilineo dell’arrivo, vidi Ifigenia.
Agitava le braccia alzate sopra la testa e gridava: “Dai Gianni, non cedere
amore, non cedere!”
Mi vennero in mente le tante
volte che avevo corso gli stadi: prima per meritarmi l’amore di donne giovani e
belle, poi per conservarlo. La più bella, la vera borsa di studio e di ogni
erculea fatica era lì, e mi incitava con tutta la forza, e pretendeva che il
suo uomo non fosse soltanto il secondo.
“Non cederò” pensai, “prima
crepo. Senza l’aurea Afrodite non potrei vivere più”.
Richiamai alla memoria i
faticosi successi della mia travagliosa esistenza per ottenere il consenso,
l’ammirazione e l’amore delle femmine umane: dagli ottimi voti scolastici con i
quali volevo conquistare la mamma, la nonna, le zie, la bruna Marisa, alle citazioni di Leopardi o di Dante, di
Petronio, di Eliot, di Pavese per colpire Helena, alle conversazioni
intelligenti, con Päivi, al matto, eppure non disperatissimo impegno nelle
materie di insegnamento che mi avrebbe procurato l’agognata borsa di studio
umana incarnata nella splendidissima supplente Ifigenia che era lì a Debrecen
con me, presente e viva.
Poi pensai di nuovo alle
fatiche fisiche: gli allenamenti a piedi e in bicicletta, le nuotate nel mare
di Pesaro; ricordai l’impiego faticoso, anche tribolato del mio tempo: le ore
passate in solitudine a prendere il sole, disidratato sulla sabbia rovente, o
scorticato dal freddo sulla neve delle montagne battute da soffi acuti di vento
ghiacciato, rabbrividendo fino alle viscere, in solitudine immobile per
ricavarne l’abbronzatura che mi rendesse più piacente e gradito alle femmine umane.
Poi i digiuni, la fame a
volta crudele, talora insonne, per
conquistare, o recuperare, o mantenere la linea da asceta, la vita da torero,
la forma stilizzata che mi soddisfaceva e mi rendeva beato in termini di
rapporti umani. Nell’itinerario lungo e difficile c’erano molti sacrifici, fino
alla spietatezza verso me stesso, c’era del dolore, c’era qualche frustrazione,
ma c’erano anche diversi successi.
Potevo vincere ancora.
Feci uno scatto a novanta
metri dall’arrivo: ai settanta avevo raggiunto la schiena dell’antagonista.
Temporeggiai per dieci metri, onde lenire per un momento l’affanno, quindi mi
portai sulla destra e scattai di nuovo: lo superai, poi vidi che guadagnavo
terreno; allora, con gli occhi chiusi e il collo tutto teso all’indietro, senza
pensare più a niente, quasi non respirando, mi scagliai sul traguardo
impiegando e impegnando allo spasimo tutto quanto di vivo mi restava dentro.
Superata la meta, respirai e
riaprii gli occhi. Ifigenia esultava. Mi buttai boccheggiante sul prato interno
alla pista. Il francese arrivò distanziato di cinque o sei metri. Diego di un
centinaio. Gli altri dopo di lui.
Quando ebbi ripreso fiato e
piena coscienza, Ifigenia venne a dirmi: “ bravo, non mi aspettavo niente di
meno da te”.
Fulvio disse che avevo fatto
un figurone con quei ventenni. Ero felice.
Quella sera io e la mia donna
capimmo che il nostro rapporto aveva valore finché l’uno dava all’altro la
spinta verso le cose egregie. La gara vinta era un segno, un gran buon segno.
La sera, non avendo in collegio una stanza comune, facemmo l’amore diverse volte nella nera
Volkswagen tra gli alberi antichi della foresta incantata. Non sentivo il
desiderio né il rimpianto di donne migliori. “Finché mi fa
vincere-pensai-l’ottima è lei”.
Naturalmente dovevo, e
volevo, a mia volta incoraggiarla a primeggiare
sempre, a essere egregia tra tutte le altre.
Ma questo non mi fu
consentito da lei stessa e non mi fu possibile.
Pesaro 5
ottobre 2024 ore 17, 54 giovanni ghiselli.
p. s
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