Attraverso alcun parole chiave è possibile indicare l'ambiguità del linguaggio
Pensate al vaccino anticovid: secondo la grande maggioranza significa la giusta precauzione, l’uscita graduale dalla pandemia, secondo una minoranza molto rumorosa è una truffa liberticida.
Le parole cambiano di significato a seconda di chi le pronuncia o del contesto in cui si trovano, o dell’autore che le usa.
Faccio un esempio: u{bri" per il Coro dell'Edipo re , ossia per Sofocle stesso, è la madre dei tiranni (v. 872), per il Creonte dell'Antigone (v. 309) è il misfatto di chi si oppone alla sua prepotenza tirannica.
"I Greci avevano diagnosticato la predisposizione verso la hybris, termine che significa dismisura demenziale", sintetizza Morin .
Può avere un significato del genere l’u{bri~ dell’esercito di Alessandro Magno, che tornando dall’India, attraversava la Carmania: racconta Plutarco che al disordine confuso e disperso della marcia, costellata di banchetti e bevute ininterrotte, canti, suoni, danze e grida dionisiache di donne, si accompagnavano kai; paidia; bakcikh'~ u{brew~ (Vita di Alessandro, 67, 6), anche gli scherzi tipici della sfrenatezza bacchica.
Si può usare un derivato di u{bri" quale esempio di transvalutazione lessicale attribuita ai gusti sessuali delle donne. Nelle Nuvole di Aristofane il Discorso ingiusto (Lovgo" a[diko" ) sostiene che Tetide lasciò Peleo perché non era impetuoso (uJbristhv" , v. 1067) e non era piacevole passare la notte con lui, mentre la donna gode a essere sbattuta. Qui è notevole il capovolgimento del significato di u{bri", la prepotenza, che, applicata alla libidine della donna, diviene un valore.
Un'idea non tanto peregrina e paradossale: la ritroviamo in Machiavelli:"Io iudico bene questo, che sia meglio essere impetuoso che respettivo, perché la fortuna è donna; et è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla. E si vede che la si lascia più vincere da questi, che da quelli che freddamente procedano. E però, sempre, come donna, è amica de' giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano" .
Esiodo sostiene, in un contesto serio, che nella bassa età del ferro, gli uomini non onoreranno l’uomo rispettoso del giuramento, il buono e il giusto, ma:“ ma'llon kakw'n rJekth'ra kai; u{brin-anevra timhvsousi” (Opere e giorni, vv. 191-192) piuttosto onoreranno l’operatore di mali e la violenza fatta uomo.
L'ambiguità del linguaggio e l' impossibilità di intendersi viene teorizzata da Pirandello nei Sei personaggi: "Ma se è tutto qui il male! Nelle parole!…come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono andate dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro! Crediamo d'intenderci; non ci intendiamo mai!" .
Luogo simile si trova nell'ultimo romanzo dell'Agrigentino, Uno, nessuno e centomila : "il guajo è che voi, caro, non saprete mai, né io vi potrò mai comunicare come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell'accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d'intenderci; non ci siamo intesi affatto" (p. 39).
Situazione simile nell’Antigone di Sofocle
"In bocca ai diversi personaggi, le stesse parole acquistano significati differenti od opposti, perché il loro valore semantico non è lo stesso nella lingua religiosa, giuridica, politica, comune. Così , per Antigone, novmo" designa il contrario di ciò che Creonte, nelle circostanze in cui è posto, chiama anche lui novmo". Per la fanciulla il termine significa "norma religiosa"; per Creonte, "editto promulgato dal capo dello Stato. E in realtà il campo semantico di novmo" è sufficientemente esteso per comprendere, con altri, ambedue i sensi...Le parole scambiate sullo spazio scenico, anziché stabilire la comunicazione e l'accordo fra i personaggi, sottolineano viceversa l'impermeabilità degli spiriti, il blocco dei caratteri; segnano le barriere che separano i protagonisti, fanno risaltare le linee conflittuali" .
Secondo Freud l’ ambivalenza, di talune parole, per esempio l’aggettivo sacer, deriva dall’ambivalenza di certi rapporti umani.
In Totem e tabù l’inventore della psicoanalisi scrive che “tabù è un vocabolo polinesiano” di traduzione difficile in tedesco, ma equivalente in modo esatto al latino sacer. Quindi aggiunge: “Anche l’a[go~ dei greci e il kodausch (kadosch) degli ebrei deve avere avuto lo stesso significato del tabù per i polinesiani (…) I divieti tabù più antichi e più importanti sono i due princìpi fondamentali della legge totemica: non uccidere l’animale totemico e fuggire il rapporto sessuale con individui di sesso diverso appartenenti allo stesso totem (…) L’uomo che ha violato un tabù, diventa egli stesso tabù in quanto possiede la pericolosa capacità di indurre gli altri a seguire il suo esempio” .
L’esogamia dunque venne imposta all’orda primigenia dal padre che, in seguito a una rivolta della banda dei figli, aizzati e guidati da uno di loro, “il caporione”, venne ammazzato e sostituito simbolicamente con l’animale totemico. Questo poi fu alternatamente venerato e ucciso per essere mangiato nel pasto totemico cui è succeduta la comunione cristiana. Ebbene l’ambivalenza della parola sacer rifletterebbe l’ambivalenza del rapporto tra il padre e i figli: “L’imperio dell’esogamia, la cui espressione negativa è l’orrore dell’incesto, si fondava sulla volontà del padre e continuò questa volontà dopo il parricidio. Di qui l’intensità del suo tono affettivo e l’impossibilità di una fondazione razionale, cioè il suo carattere sacro. Siamo fiduciosi che l’esame di tutti gli altri casi di divieto sacro condurrebbe allo stesso risultato del caso dell’orrore dell’incesto, e cioè che in origine il sacro non è altro che la prosecuzione della volontà del padre primigenio. Con ciò si farebbe anche un po’ di luce sull’ambivalenza, finora incomprensibile , delle parole che esprimono il concetto di sacro. E’ la stessa ambivalenza che domina in genere il rapporto con il padre. “Sacer” significa non solo “sacro”, “consacrato”, ma anche qualcosa che possiamo tradurre soltanto con “infame”, “esecrando” (“auri sacra fames” ). Tuttavia la volontà del padre non era soltanto qualcosa di intoccabile, qualcosa da tenere altamente in onore, ma anche qualcosa di fronte a cui si tremava, perché esigeva una dolorosa rinuncia pulsionale ” .
Interessanti a proposito dell’ambiguità delle parole le osservazioni di E. Benveniste sulla radice indoeuropea *do- . Essa "significa 'dare' nell'insieme delle lingue indoeuropee. Tuttavia, a turbarne singolarmente la definizione, interviene una lingua: in ittita, da- significa 'prendere' e pai- 'dare'...Le nozioni di 'dare' e 'prendere' sono quindi legate nella preistoria indoeuropea". Allora "l'ittita, che dà alla radice *do- il senso di 'prendere', invita a considerare che in indoeuropeo 'dare' e 'prendere' si ricongiungono, per così dire, nel gesto (cfr. ingl. to take to 'prendere per dare a' )" .
Nella Germania di Tacito, a chiarimento di dotem, troviamo munera ripetuto in anafora. Munus è un altro sostantivo che significa il dovere del contraccambio ribadito dal successivo invicem. Benveniste segnala il legame (attraverso la radice indoeuropea *mei-) con mutuus (reciproco): anche questi termini fanno parte di " una grande famiglia di parole indoeuropee che, con suffissi vari, marcano la nozione di reciprocità (…) La radice è l’indoeuropeo *mei- che denota lo scambio, che ha dato in indoiranico mitra, nome di un dio (…) Ma il senso di munus, particolarmente complesso, si sviluppa in due gruppi di termini che indicano da una parte ‘gratificazione’, dall’altra ‘incarico ufficiale’. Queste nozioni sono di carattere reciproco , perché implicano un favore ricevuto e l’obbligo della reciprocità " .
Dove non c’è reciprocità c’è l’uso della persona ridotta a strumento. Il capitalismo esclude la reciprocità nei rapporti di lavoro: “più l’operaio produce, meno ha da consumare; quanto più valore egli crea, tanto più diventa privo di valore e dignità; quanto meglio formato è il suo prodotto, tanto più l’operaio diventa deforme; quanto più raffinato è il suo oggetto, tanto più l’operaio diventa rozzo; quanto più potente è il lavoro, tanto più l’operaio diventa impotente (…) il lavoro produce bellezza ma deformità per l’operaio (…) mangiare, bere, procreare ecc. sono senza dubbio anche funzioni schiettamente umane. Ma nell’astrazione che le isola dalla restante sfera dell’attività umana e le trasforma in scopi ultimi e unici sono funzioni bestiali” .
“Non a caso la nozione di dono è caratterizzata da un’ambiguità semantica dovuta al fatto che la radice “dō” significa dare o prendere a seconda del contesto d’intenzione dei parlanti. Nelle antiche lingue anglosassoni il termine gift significava dono ma anche veleno: proprio come la mela di Biancaneve. Gift in tedesco conserva principalmente il significato di veleno, in inglese quello di dono e in olandese mantiene entrambi i significati” .
Proust All’ombra delle fanciulle in fiore
Avevo palato con Albertine “senza sapere dove cadevano le mie parole, che cosa succedesse loro, non più che se avessi gettato dei sassolini in un abisso senza fondo. Ch’esse siano colmate per lo più dalla persona a cui le rivolgiamo di un senso di un senso ch’essa trae dalla popria sostanza e che è molto diverso da quello che noi avevamo messo in quelle stesse paole, è un fatto che la vita abituale ci rivela continuamente. Ma se, inoltre, ci troviamo accanto ad una persona la cui educazione (com’era per me quella di Albertine) ci è inconcepibile, sconosciute le incinazioni, le lettue, i principi, non sappiamo se le nostre parole risveglino in lei qualcosa che ad esse somigli più che in un animale cui si debbano pur fare capire certe cose.
Dimodoché cercare di stringere rapporti con Albertine mi appariva come una presa di conntatto con l’ignoto, se non con l’impossibile, come un esercizio altrettanto disagevole che domare un cavallo, e altrettanto appassionante che allevare api o coltiare rosai” (p. 486)
Bologna 10 settembre 2021 ore 19, 0 9
giovanni ghiselli
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