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Aristofane.
Gli Acarnesi
Prima
parte
Partiamo
dagli Acarnesi (425): un dramma contro la guerra e i
guerrafondai. Da qualche tempo Atene era afflitta da epidemie dovute, probabilmente,
all'ammassarsi della popolazione rurale dentro le lunghe mura, in condizioni di
stenti, mentre i nemici Peloponnesiaci occupavano e devastavano le campagne. Era
la strategia di Pericle che in teoria avrebbe dovuto salvare vite umane
lasciando solo gli alberi alla furia nemica[1], ma
di fatto costò la vita a molti abitanti dell'Attica che tutte le estati veniva
invasa dall'esercito del re spartano Archidamo. Nel 429 era morto lo stesso
Pericle, il "re non coronato" della città dove "la bionda
Armonia generò le nove Muse" per dirla con Euripide (Medea, 831 - 832).
La visione di Aristofane è meno idealizzante
di quella euripidea.
Intanto
Pericle, il leader carismatico si direbbe adesso, capace di mantenere una certa
concordia tra le classi e un discreto consenso degli intellettuali, era morto, nel
settembre del 429, come tanti cittadini comuni, di peste. Il protagonista di
questa prima commedia a noi pervenuta è un "certo Diceopoli"
(significa il “cittadino giusto”, ed è un contadino) che non ne può più della
guerra. Il dramma, ci informa il primo degli argomenti[2]
"è di quelli fatti bene ed esorta in tutti i modi alla pace". Diceopoli
dunque dichiara guerra alla guerra. Appena entrato in scena se la prende con
Cleone, il demagogo più amato dal popolo e più odiato dai personaggi positivi
di Aristofane. Ad Atene la gente chiacchiera parecchio: "eijrhvnh d j o{pw" - e[stai protimw's j oujdevn:
w\ povli" povli"", ma perché avvenga
la pace non c'è nessun pensier: o città o città"(26 - 27).
Nel
tempo della democrazia ateniese, un periodo di passione politica, la povli", la
comunità, viene prima, molto prima della famiglia.
Un
analogo grido di doloroso amore per la polis si trova nel contesto tragico
dell'Edipo re: " w| poli"
povli"
(v. 629[3]) .
E'
interessante notare che i lutti e i guai della tragedia e della commedia sono
gli stessi: peste, carestia, guerra.
Il
contadino Diceopoli manifesta subito la predilezione della campagna e l'odio
per la vita urbana (33) i cui valori supremi sono comprare e vendere.
“guardo
verso la campagna, bramoso di pace - eijrhvnh" ejrw`n -
stugw`n
me; n a[stu, to; n ejmo; n dh`mon poqw`n, odiando il centro della città, soffrendo
la mancanza del mio villaggio
o]"
oujdepwvpot ei\pen: “a[nqraka" privw”
che mai disse: compra il carbone",
oujk
o[xo", oujk e[laion, ouujd j h[/dei privw, né l'aceto, né l'olio, e nemmeno
conosceva quel "compra”
ma
era lui a produrre tutto e il comprare che taglieggia non c'era"(32 - 36).
Sono
versi tornati attuali: qualche anno fa il regista Bernardo Bertolucci disse che
andava a cercare valori in Oriente siccome in Occidente non c'è altro interesse
che il vendere e il comprare.
“L’ansia
del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in
Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere
felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente
ricevuto, e a cui “deve” obbedire per non sentirsi diverso. Mai la diversità è
stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza”[4].
Aristofane.
Gli Acarnesi
Seconda
parte
Diceopoli
dunque lamenta un altro male aggiunto alla guerra: il mercato che uccide gli
affetti.
Un
disagio analogo viene manifestato da Ulrich protagonista del romanzo L'uomo senza qualità di Robert Musil: "
La sua faccia, fino a quel momento ardente e severa, si spense, e l’insidioso
pensiero favorito gli parve ridicolo. Come gettando uno sguardo fuori d'una
finestra aperta di colpo, egli sentì quello che in realtà lo circondava; i
cannoni, i commerci d'Europa"(p. 800).
Se
è vero dunque che la commedia è legata più degli altri generi alla realtà
contemporanea e che quella di Aristofane ci fa toccare con mano l'epoca storica
nella quale è ambientata, è altresì innegabile che essa ci porta in una
dimensione sovratemporale e universale dove possono riconoscersi gli uomini di
tutti i tempi. Anzi in questi drammi, come vedremo, possiamo trovare alcuni
elementi eternamente umani che nella poesia eroica e sublime, tragica o epica, non
hanno diritto di cittadinanza.
Nel
romanzo I Buddenbrook di Thomas Mann
c’è un personaggio aristocratico che suscita l’interesse di Hanno Buddenbrook
di famiglia borghese. “In complesso i rapporti del ragazzo con i suoi piccoli
compagni erano lontani ed esteriori; soltanto a uno di loro, e fin dai primi
giorni di scuola, lo stringeva un legame più saldo: era costui un ragazzo di
nobile famiglia ma molto trascurato nel vestire, un certo conte Mölln, che con
un nome frisone si chiamava Kai. Era un giovinetto della statura di Hanno, ma
non portava come questi l’abito dei marinai danesi, bensì un misero vestito di
colore indefinibile al quale mancava qualche bottone e che mostrava una gran
toppa sul fondo dei calzoni”.
Questo fanciullo viveva con il padre in “una
piccola masseria, una minuscola proprietà quasi senza valore che non aveva neanche
un nome. Vi si scorgeva un letamaio, un branco di polli, un canile e una povera
casupola dal tetto rosso e spiovente. Era la casa padronale, in cui abitava il
padre di Kai, il conte Eberhard Mölln (…) Molti rammentavano che per
proteggersi dalle noie di richieste, offerte e accattonaggi aveva esposto da
tempo sull’umile porta di casa un cartello che diceva: “Qui abita il conte Mölln.
E’ solo, non ha bisogno di nulla, non compra nulla e non ha niente da regalare”
(p. 331).
Diceopoli
parla agli ambasciatori ateniesi tornati dalla Persia: costoro hanno
approfittato della missione per farsi grandi mangiate e bevute. Si giustificano
delle gozzoviglie dicendo
"poiché
i barbari stimano uomini solo - a[ndra" hJgou`ntai movnou" - quelli
capaci di mangiare e bere moltissimo"(plei`sta dunamevnou" fagei`n te kai; piei`n - 77 - 78).
Questa
battuta offre il destro alla replica di Diceopoli:
"noi
invece i prostituti e i rottinculo" (79).
Aristofane
non risparmia le espressioni oscene e io non ritengo necessario né opportuno
censurarle.
Valga
di scusa anche per Aristofane l'apologia della Musa licenziosa di Catullo che
si difende contrapponendo la pietas e
la castitas della sua vita ai versiculi molliculi: "me ex versiculis meis putastis, /quod sunt
molliculi, parum pudìcum. / Nam castum esse decet pium poetam/ipsum, versiculos
nihil necessest " (16, 3 - 6), mi consideraste, dai miei versi leggeri,
poiché sono lascivi, poco casto. In effetti si addice al pio poeta come persona
essere puro, che lo siano i suoi teneri versi non è necessario.
Su questa linea Marziale scriverà: "lasciva est nobis pagina, vita proba
" (I, 4, 8), la mia pagina è licenziosa, la vita onesta.
In
Aristofane non manca nemmeno la coprolalia o scatologia: l’Ambasciatore racconta
che quando la delegazione ateniese giunse alla reggia, il re era andato nella
latrina con l’intero esercito e cacò per otto mesi in pitali d’oro (80 - 82). Credo
che questo linguaggio estraneo alla tragedia fosse gradito al pubblico
intristito dai drammi che grondano sangue.
Quando
si alzò dal cesso il re fece imbandire pe i delegati o{lou" bou`" (85 - 86)
buoi interi, poi un uccello grande tre volte Cleonimo, di nome fevnax, imbroglione.
Aristofane
menziona nei suoi drammi personaggi noti al pubblico ateniese e generalmente
famigerati. Questo era reputato vigliacco, ghiottone e fanfarone. Sono le
berline che fino a non molti anni fa si praticavano in molti paesi contro le
persone mal reputate. Allora si poteva girare con la pistola in tasca per
sparare ai disgraziati: ci si limitava a motteggiarli.
Diceopoli
rinfaccia all’ambasciatore le due dracme intascate per la missione. I
conservatori non approvavano la misqoforiva come abbiamo già detto ricordando la
critica di Callicle nel Gorgia di Platone.
L’Ambasciatore fa entrare "l'occhio del
re" (to;
n basilevw" ojfqalmovn, 94) il quale era un altissimo dignitario
della corte persiana che Aristofane raffigura, attraverso le parole di
Diceopoli (vv. 95 - 97), prendendo alla lettera la metafora e dandole corpo con
una figura che sta a metà tra il mascherone carnevalesco e la materializzazione
di un sogno.
"Esso
- scrive U. Albini - è dotato, per vedere, di un unico tondo oblò nel centro
del volto e procede fluttuando come un vascello"[5].
Diceopoli
si rivolge questo strano personaggio Pseudartabas, il falso persiano (ajrtavbh è una
misura persiana), dicendogli che guarda come una nave da guerra.
Diceopoli
non crede che i Persiani porteranno la pace tra i Greci.
In
effetti anni dopo aiuteranno gli Spartani a vincere la guerra del Peloponneso.
L’
Ambasciatore vuole dare a intendere che questo personaggio surreale, il quale
parla una lingua incomprensibile, prometta oro agli Ateniesi da parte del re, ma
Diceopoli capisce l'inganno: vede che il falso persiano e i due eunuchi che lo
accompagnano sono famigerati cittadini di Atene travestiti.
Riconosce
Clistene un noto omosessuale: o tu rasato nel focoso culo gli fa - w\ qermovboulon prwkto;
n exurhmevne
(119), vieni qui con una barba da scimmia vestito da eunuco? L’altro è Stratone,
suo degno compagno di merende. Sono entrambi nominati anche nei Cavalieri.
L’araldo
invita questi pseudo persiani nel Pritaneo dove venivano ospitati gli
ambasciatori e i cittadini benemeriti.
Diceopoli
protesta, poi si rivolge a un altro pacifista, Anfiteo che precedentemente
aveva detto di volere recarsi a Sparta per patteggiare la tregua ma i pritani
non gli hanno dati i mezzi per il viaggio - ejfodi’ ouk e[cw: ouj ga; r didovasin oiJ
prutavnei" (53
- 54).
I
Pritani erano i 50 presidenti della Boulhv per una decima parte dell’anno
Nell’antica
Atene, i 50
consiglieri (buleuti) in carica durante una pritania, periodo di tempo equivalente alla decima
parte dell’anno essendo la bulè, o consiglio ateniese, diviso in 10 sezioni
corrispondenti alle 10 tribù che detenevano il potere a turno. Almeno un terzo
di essi doveva sedere in permanenza nel pritaneo,
l’edificio in cui si custodiva il fuoco sacro di Estia e che, in età
storica, accoglieva a banchetto gli ambasciatori stranieri e i cittadini
ritenuti degni di questo onore, e ospitava a vita i benemeriti o i discendenti
di personaggi verso i quali la città aveva alti debiti di riconoscenza. I
pritani avevano a capo un epistate (presidente)
designato a sorte, che durava in carica da un tramonto al tramonto seguente e
che per quel tempo era il capo dello Stato: presiedeva il consiglio dei 500 e
l’assemblea popolare in caso di convocazione; era depositario del sigillo di
Stato e della chiave dei templi dove era il tesoro pubblico.
Il
governo dunque non vuole porre termine alla guerra e i pacifisti devono agire
per conto proprio
Anfiteo
riceve otto dramme da Diceopoli che lo manda a Sparta con questo viatico perché
faccia con gli Spartani una tregua che preservi dalla guerra lo stesso
cittadino giusto con la moglie e i figli.
Aristofane,
Acarnesi
terza
parte
Entra
Teoro ambasciatore in Tracia, una creatura di Cleone. Diceopoli lo squalifca
come ajlazwvn
(135),
un fanfarone, un gloriosus.
Quindi
il cittadino aggiunge che questo mistificatore ha preso misqo; n poluvn, una grossa
indennità.
Teoro
si giustifica dicendo che si è trattenuto a lungo in Tracia a causa della neve
che ha gelato i fiumi.
Poi
racconta che beveva con Sitalce principe dei Traci alleato degli Ateniesi. Li
amava al punto che scriveva sui muri jAqhnai`oi kaloiv (144), viva gli Ateniesi!
Il
figlio lo spingeva a mandare un esercito. E il padre libando agli dèi giurò che
avrebbe mandato schiere tanto grandi da far esclamare agli alleati “che gran
numero di cavallette arriva!” (150)
Aristofane
fa spesso seguire a una prima affermazione una seconda che ne stravolge
ironicamente il significato.
Segnalo
la crescita della presenza degli animali nelle metafore rispetto alla tragedia.
Il
fatto è che i cittadini si stanno imbestiando.
L’araldo
fa entrare i Traci. Teoro dice che sono Odomanti.
Probabilmente
Giudei perché Diceopoli domanda: “chi sbucciò il bischero a costoro? ”
Dovrebbe
trattarsi di circoncisione e non certo quella del cuore raccomandata da Paolo.
Teoro
propone di dare un misqovn di due dracme a questi traci ma Diceopoli confronta
la paga di questi “scappellati” con quells del popolo dei rematori, quello che
salva la città. - oj qranivth" lewv" - o swsivpoli" (162 - 163).
Nella
Costituzione degli Ateniesi
pseudosenofontea, scritta da un pubblicista di parte oligarchica, il dialogante
A biasima la democrazia come prepotenza del popolo, e sostiene che essa è la
conseguenza dell’impero marittimo: i poveri e il popolo contano più dei nobili
e dei ricchi logicamente, siccome è il popolo che fa andare le navi o{ti oJ dh'mo; ~ ejstin
oJ ejlauvnwn ta; ~ nau'~ (1, 2), assicurando potenza alla città.
Invero
la paga dei rematori non era alta, doveva essere inferiore ai quattro oboli, forse
anche a tre.
Tanto è vero che il navarca spartano Lisandro
vinse il comandante ateniese Antioco nella battaglia di Nozio del 407 usando il
denaro ricevuto da Ciro il Giovane per alzare la paga dei rematori a 4 oboli e
attirare così rematori ateniesi.
Ciro
domandò a Lisandro quale fosse il favore più grande che poteva fargli e lo
Spartano rispose: “portare la paga dei marinai da tre a quatto oboli” (Senofonte,
Elleniche, I, 7).
Diceopoli
dunque si oppone al soldo dei Traci
Escono
tutti tranne il cittadino giusto.
Torna
Anfiteo: cair
j, jAmfivqeo" lo saluta Diceopoli (176)
Anfiteo
ha l’affanno perché è dovuto fuggire per salvarsi dagli Acarnesi.
Sono vecchi cittadini del sobborgo di Acarne, situato
qualche chilometro a nord di Atene e costituiscono il coro.
Anfiteo
li descrive come "duri Maratonomachi di legno d'acero"(181)
nostalgici del buon tempo antico della prima guerra persiana nella quale hanno
valorosamente contribuito alla vittoria ateniese.
Costoro
dunque hanno aggredito il messaggero di pace:
"allora
tutti a gridare: o maledettissimo,
tu
porti la tregua, mentre ci sono state tagliate le viti? "(sponda; "
fevrei", tw`n ajmevlwn tetmhmevnwn; 181 - 182). Poi si sono riempiti
i mantelli di pietre per tirargliele addosso.
C'è
da anticipare che questo atteggiamento collerico lo ritroveremo nel vecchio Misantropo (Dyscolos) di Menandro che, pure lui esacerbato, chiama maledetto
chiunque gli si avvicini e gli tira in faccia zolle di terra (vv. 108 - 111). E'
l'eterno tema dell'anziano disadattato rispetto a una società cambiata che i
commediografi del resto non guardano con simpatia: e se Menandro attraverso i
personaggi positivi raccomanda la comprensione tra tutti gli umani, Aristofane
irride i cretini e denuncia i furbi che traggono profitto dalla dabbenaggine o
dalla buona fede del popolo il quale, privo di guide oneste, corre verso la
rovina morale e materiale. Secondo alcuni, questo poeta è un reazionario dogmatico,
secondo altri, solo, o soprattutto, un pagliaccio che intende fare ridere; a
parer mio è pure un moralista che castiga ridendo i costumi.
Le
viti tagliate sono conseguenza della fase archidamica della guerra. Dal 431 gli
Spartani e i loro alleati invadevano l’Attica sotto il comando del re Archidamo
appunto e devastavano il paese fino al demo di Acarne provocando così gli
Ateniesi a uscire in campo aperto.
A Pericle però parve terribile - deino; n ejfaivneto dare
battaglia a 60 mila opliti peloponnesiaci e beoti - tanti erano nell’anno della
prima invasione - . Molti ateniesi volevano combattere per salvare le viti
appunto, cioè la campagna dalla devastazione e i raccolti, ma Pericle cercava
di calmarli dicendo che gli alberi potati e tagliati ricrescono in breve tempo
- levgwn
wJ" devndra me; n tmhqevnta kai; kopevnta fuvetai tacevw" - mentre
gli uomini una volta morti non è facile che ci siano più (Plutarco, Vita di Pericle, 33, 5)
Anfiteo è comunque riuscito a portare tre
assaggi (triva
geuvmata
v. 187) di tregua, che poi sono tre ampolle: una di validità quinquennale, una
decennale ed una trentennale.
Diceopoli
naturalmente sceglie la terza il cui gusto, entrato in bocca, dice: bai`n j o{ph/ j
qevlei"
(198) va’ dove vuoi
Sicché
ora io liberato dalla guerra e dai mali – ejgw; de; polevmou kai; kakw`n ajpallageiv" 201 - me
ne torno a casa a celebrare le Dionisie agresti.
Aristofane
Acarnesi
quarta
parte
Anfiteo
dice che scapperà davanti agli Acarnesi (203)
Con
il verso 204 inizia la Parodo: il coro entra di corsa nell’orchestra inseguendo
il pacifista che ha portato la tregua.
i vecchi carbonai lamentano il passare degli
anni e rimpiangono il tempo quando anche con un peso di carboni tenevano dietro
a Faillo di Crotone tre volte vincitore dei giochi pitici e comandante di una
nave a Salamina.
In
quel tempo il latore di tregue non se la sarebbe svignata tanto lestamente.
Oramai
però - canta il coro - il mio stinco è duro - sterro; n h[dh toujmo; n ajntiknhmion (219), la
gamba si è appesantita - to; skevlo" baruvnetai (220) e colui è fuggito. Tuttavia bisogna
inseguirlo - diwktevo"
dev
(221)
Nel
secondo stasimo dell’Eracle di
Euripide c’è un biasimo della vecchiaia che grava sul capo dei vecchi coreuti, compagni
d'armi di Anfitrione, come un carico più pesante delle rupi dell'Etna ("to; de; gh'ra"
a[cqo" - baruvteron Ai[tna" skopevlwn - ejpi; krati; kei'tai"
(vv. 638 - 640).
La
giovinezza invece è bellissima pure nella povertà (v. 648).
“Se
gli dèi avessero intelligenza e sapienza riguardo agli uomini donerebbero una
doppia giovinezza come segno evidente di virtù a quanti la posseggono, e una
volta morti, di nuovo nella luce del sole, percorrerebbero una seconda corsa, mentre
la gente ignobile avrebbe una sola possibilità di vita” (Eracle, vv. 661 - 669).
Nel Miles gloriosus di Plauto si trova
un locus similis: "itidem
divos dispertisse vitam humanam aequom fuit: qui lepide ingeniatus esset, vitam
ei longiquam darent, qui inprobi essent et scelesti, is adimerent animam cito"
(vv. 730 - 732), parimenti sarebbe stato giusto che gli dèi distribuissero la
vita umana: a colui che avesse un carattere amabile, dovrebbero dare una vita
lunga, a quelli che fossero cattivi e scellerati, portargliela via presto. E’
Palestrione il servo del soldato che parla.
In
effetti chi rispetta il prossimo parte dal rispetto di se stesso, quello della
mente e quello del corpo e se confrontiamo questo con chi non si rispetta
vediamo che il primo gode davvero di una doppia o anche tripla giovinezza
rispetto a chi maltratta il proprio corpo e la propria mente.
Il
pacifista inseguito dai vecchi fautori della guerra è accusato di essere venuto
a patti con i nemici (toi`sin ejcqroi`sin ejspeivsato (225).
Quelli
che hanno devastato i campi sono i nemici appunto: perciò devono essere
combattuti implacabilmente con le armi, non richiesti di venire a patti (226 - 233).
I
coreuti, in buona fede, sono stati ingannati dalla propaganda guerrafondaia dei
demagoghi che, al pari del Grande Fratello di Orwell[6]
inculcava odio per il nemico.
Lo fa persino il "progressista"
Euripide: nell’Andromaca, per esempio,
semina odio conto gli Spartani.
Tipi
odiosi sono gli Spartani, in diverse tragedie di Euripide, soprattutto nell'Andromaca che risale ai primi anni della
grande guerra del Peloponneso[7], ed è
un concentrato di malevolenza e maldicenza antispartana. “Gli attacchi contro
Sparta (…) a parere di molti la rendono una sorta di pamplhet politico”[8].
La
stessa protagonista lancia un anatema contro la genìa dei signori del
Peloponneso, chiamati yeudw'n a[nakte~: " o i più odiosi (e[cqistoi) tra i
mortali per tutti gli uomini, abitanti di Sparta, consiglieri fraudolenti, signori
di menzogne, tessitori di mali, che pensate a raggiri e a nulla di retto, ma
tutto tortuosamente, senza giustizia avete successo per
Il
corifeo propone di inseguire il pacifista di terra in terra - diwvkein gh`n po; gh`" (Acarnesi, 235). “io non mi sazierei mai
di prenderlo a sassate” aggiunge (236)
Diceopoli
intima il silenzio rituale - eujfhmei`te - 237 perché vuole celebrare in famiglia
la processione sacra delle dionisie agresti. I coreuti si appostano per
catturarlo.
Dalla
casa del cittadino giusto escono la figlia come canefora, ossia portatrice del
canestro -
kavneon
- con le offerte del sacrificio, mentre Xantia deve inalberare ritto il
fallo" (oJ
Xanqiva" to; n favllon orqo; n sthvsato, 243).
L’amore
insomma invece della guerra.
In
1984 di Orwell leggiamo che l’amore per la guerra come l’adorazione dei
capi, è tutto sesso andato a male, che diventa acido (“is simply sex gone sour[9])
Diceopoli
dunque avvia quella processione con canti fallici dalla quale secondo
Aristotele (Poetica 1449a) ebbe
origine la commedia. Il culto di una religione che esalta la gioia e la
vitalità costituisce un'antitesi a quell'adorazione della morte che è la guerra.
Torna
a proposito un altro nesso con 1984: "La
ragazza bruna veniva verso di lui attraverso i campi. Con un'unica mossa, o che
almeno parve tale, si strappò di dosso tutti i vestiti e li gettò sdegnosamente
lontano da sé. . . La grazia di quel gesto, e insieme la sua noncuranza, sembrava
che quasi annullassero un'intera cultura, un intero sistema filosofico, proprio
come se il Grande Fratello e il Partito e
L'esaltazione
dell'istinto non appartiene specificamente ai temi della tragedia, sebbene
Sofocle non poche volte rappresenti i supplici di Tebe sconciata da carestia e
peste in atto di chiedere agli dèi di "raddrizzare" la città in tutti
i sensi, mentre è uno dei motivi centrali della commedia aristofanesca che per
questo aspetto costituisce l'antitesi di quel Socrate platonico il quale
affermava che il suo demone lo tratteneva sempre, non lo incitava mai (Apologia, 31d).
E'
quest'affermazione a spingere Nietzsche ad attribuire germi di decadenza al
maestro di Platone, uno dei responsabili di quel depotenziamento del turgore
vitale iniziato con la morte di Pericle.
Socrate
infatti è obiettivo polemico tanto di Aristofane quanto di Nietzsche.
Socrate
è visto da Nietzsche come il nemico dell’istinto, o come un individuo
dall’istinto rovesciato: “Mentre in tutti gli uomini produttivi l’istinto è proprio
la forza creativa e affermativa, e la coscienza si comporta in maniera critica
e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma in un critico, la coscienza in
una creatrice - una vera mostruosità per
defectum! Più precisamente noi scorgiamo qui un mostruoso defectus di ogni disposizione mistica, sicché
Socrate sarebbe da definire come l’individuo specificamente non mistico, in cui la natura logica, per
una superfetazione, è sviluppata in modo tanto eccessivo quanto lo è quella
sapienza istintiva nel mistico”[10].
Quest’idea
non verrà rinnegata più avanti da Nietzsche come altri aspetti[11] di
questo scritto giovanile. In Ecce homo[12] il
filosofo ne rivendica le due “innovazioni decisive: intanto la comprensione del
fenomeno dionisiaco fra i Greci - il
libro ne dà la prima psicologia, vedendo in esso la radice una di tutta l’arte
greca.
L’altra
è la comprensione del socratismo: Socrate come strumento della disgregazione
greca, riconosciuto per la prima volta come tipico décadent. “Razionalità” contro
istinto. La “razionalità” a ogni costo come violenza pericolosa che mina la
vita!”[13].
In
Ecce homo “quasi alla fine della sua
vita lucida, Nietzsche scrive: “Io non sono un uomo, sono dinamite”[14].
Una
chiave per spiegare la natura di Socrate ci viene data dal fenomeno del suo
demone, una voce che lo dissuadeva sempre.
Cfr.
Apologia 31 dove Socrate dice che in
lui c’è qei`ovn
ti kai; daimovnion, una voce –fwnhv ti~ - che quando si manifesta ajei; ajpotrevpei me, mi
distoglie sempre da quello che sto per fare, protrevpei de; ou[pote, mentre
non mi spinge mai.
Questo
mi impedisce di occuparmi di politica.
Negli
uomini produttivi l’istinto è la forza creativa e affermativa e la coscienza è
la parte critica e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma in un critico,
la coscienza in creatrice, una vera mostruosità per defectum!
L’influenza
di Socrate dissolveva gli istinti. Socrate provocò la propria condanna a morte
e le andò incontro con quella stessa calma con cui si allontanò dal simposio
per ultimo (Simposio 223 c - d).
Platone
si gettò ai piedi dell’immagine di Socrate morente.
La
figlia di Diceopoli di occupa del cibo chiedendo alla madre il ramaiolo ejtnhvrusin (245). Le
donne sono ostili alla guerra come vedremo bene nella Lisistrata una commedia dedicata tutta a questo argomento.
Aristofane,
Acarnesi
quinta
parte
Diceopoli continua a "celebrare
felicemente le Dionisie agresti liberatosi dal servizio militare"(Acarnesi, 250 - 251) grazie alla tregua
trentennale.
Alla
figlia chiede di reggere il canestro - to; kanou`n - 253 con faccia seria, ma tale
serietà è subito contraddetta dall’augurio alla ragazza di un beato pretendente
- makavrio" 254 - che
la prenderà in moglie e le farà fare dei gattini che scorreggino all’alba non
meno di te.
Il
matrimonio non è una cosa seria in Aristofane che spesso lo ridicolizza mentre
Euripide lo tragicizza, il Socrate di Platone non se ne cura. Senofonte invece
gli attribuisce una certa importanza, poi anche Menandro nella Commedia nuova. Eschilo
lo presenta grondante sangue in una guerra tra i sessi, Sofocle lo fa apparire
meno vincolante dei legami di sangue o pure contratto fra consanguinei per
errore, sempre con esiti catastrofici.
Il
fatto è che in una democrazia seguita direttamente dal popolo la vita pubblica prevale
su quella familiare.
Questa
verrà fatta scomparire del tutto da Platone per quanto riguarda le due classi
più altre.
Diceopoli
ricorda ancora una volta al servo Xantia il compito di tener dritto il fallo
cui egli stesso che dirige la festa può indirizzare un canto gioioso grazie
alla tregua privata che lo ha liberato da "guerre e da Lamachi"(vv. 269
- 270).
Lamaco
era uno stratego e secondo Aristofane uno dei guerrafondai. Sarà uno dei capi
della spedizione in Sicilia dove perderà la vita, nel 414.
Diceopoli
canta rivolgendosi al fallo personificato in Falh`", compagno di Bacco (263). Il vino
favorisce l’amore dirà il protsgonista dell’Asino d’oro di Apuleio.
Il curiosus Lucio, preparandosi
a un incontro amoroso con l'ancella Fotide, ricevuta in dono un'anfora di prezioso
vino invecchiato, vini cadum in aetate pretiosi, invita l'amante a bere
insieme il liquido di Bacco elogiandolo come il miglior viatico per percorrere
una lunga rotta sulla barca di Venere: "Ecce - inquam, - Veneris
hortator et armĭger Liber advenit ultro! Vinum istud hodie sorbamus omne, quod nobis restinguat
pudoris ignaviam et alacrem vigorem libidinis incutiat. Hac enim
sitarchĭa navigium Veneris indĭget sola, ut in nocte pervigili et oleo lucerna
et vino calix abundet " (II, 11), ecco, dico, che
stimolatore e armigero di Venere arriva Libero spontaneamente ! Beviamocelo
tutto oggi questo vino che spenga in noi la viltà del pudore e susciti un
focoso vigore di libidine. In effetti la barca di Venere ha bisogno soltanto di
questo approvvigionamento in modo che, durante la notte di veglia, la lucerna
sia piena d'olio e la coppa di vino.
Però non bisogna berne troppo.
Il portiere del castello di Macbeth, una specie di portiere
dell'inferno come ipotizza di essere con ironia sofoclea[15], disquisisce,
intorno agli effetti del bere sulla libidine: la provoca e la disfa; provoca il
desiderio ma ne porta via l'esecuzione. " Therefore, much drink may be
said to be an equivocator with lechery ", perciò bere molto si può
denominare colui che rende equivoca la lascivia: la crea e la distrugge; la
spinge innanzi e la tira indietro; la persuade e la scoraggia; "makes
him stand to, and not stand to", la mette in piedi e non la tiene su, insomma
la equivoca col sonno e dandole una smentita la pianta (Shakespeare, Macbeth, II, 3).
Diceopoli continua a cantare
ringraziando Falh`" che gli
fa incontrare la fiorente (wjrikhvn) serva tracia di Strimodoro qundo torna
dalla petraia con legna rubata e lo ispira a sollevarla, poi gettarla a terra e
deflorarla.
La violenza della guerra ha
contaminato anche l’atto sessuale, pure se questo è molto più dolce - pollw`/ h{dion - 271 a
detta di Diceopoli. Non lo condivido ma non censuro i testi.
Falh`" è invitato a bere una coppa di
pace mentre lo scudo sarà appeso sopra la brace,
Lo scudo ha avuto uno spazio non
piccolo nella letteratura antica - cfr. Archiloco e Tacito (Germania)
Il
rapporto amichevole con il fallo è tipico delle vitalità esuberanti e
ottimistiche reperibili, almeno in letteratura, solo nei momenti di relativo
ottimismo come questo dovuto alla pace stipulata: infatti nel Satyricon che secondo Huysmans
"dipinge in una lingua da orafo i vizi d' una civiltà decrepita" (A ritroso, p. 45) il protagonista
Encolpio, colpito da paralisi sessuale, cerca di punire il pene
"contumace" con un'invettiva che inizia con queste parole: "quid dicis. . . omnium hominum deorumque
pudor? ", cosa ne dici, vergogna degli uomini e degli dèi? (132).
Inizia
un amebeo con versi recitati alternatamente
Diceopoli viene rintracciato dal coro degli
Acarnesi i quali entrano in scena inferociti e si esortano a vicenda per dargli
una lezione:
"dagli
dagli dagli dagli, bavlle bavlle bavlle bavlle - colpisci colpisci il maledetto"
(pai'e
pai'e to; n miarovn - ouj balei'ς, ouj balei'ς; 281 - 283), facendo uso di una
paratassi che ricorda quella ossessiva delle Erinni di Eschilo (labev, labev, labev, fravzon,
Eumenidi vv. 130
sgg.).
Diceopoli
domanda quale sia l’accusa e gli Acarnesi gli danno dell’infame, svergognato e traditore
della patria - w\
prodovta th`" patrivdo" (290)
Per
fortuna i coreuti sono vecchi, e Diceopoli riesce a chiedere la parola. Gli
anziani non gli tirano le pietre, però manifestano in ogni caso impazienza e
odio, ancora più sentito di quello che provano nei confronti di Cleone, il
demagogo di cui vogliono fare "suole da scarpe per i cavalieri"(301).
Con
questo verso è preannunciata la commedia dell'anno successivo, i Cavalieri appunto, che avrà come
bersaglio polemico il beniamino del popolo detestato dalla classe abbiente.
Negli
Acarnesi intanto ferve una
discussione polemica tra il coro e Diceopoli il quale prova a sostenere che i
nemici Spartani non sono causa di tutti i nostri mali né hanno sempre inflitto
ingiustizia ma l'hanno anche subita (314).
Questa
obiettività cavalleresca nei confronti del nemico deriva dall'epica omerica e
prosegue nella storiografia di Erodoto che nel proemio delle sue Storie si propone di raccontare "le
imprese grandi e meravigliose messe in luce alcune dagli Elleni altre dai
barbari".
L’obiettività
nei confronti degli Spartani per fare un solo esempio è assente dall’Andromaca di Euripide. Non manca nella Storia di Tucidide che tuttavia non la
conserva per il nemico interno, il nemico di classe, cioè Cleone che viene
maltrattato e calunniato quanto da Aristofane e con maggiore serietà.
Ma
i semplici Acarnesi, manipolati dalla propaganda guerrafondaia non sono
obiettivi e non sopportano le parole spese per difendere il nemico, al punto
che minacciano di morte Diceopoli (324) il quale prova a difendersi affermando
di avere in mano degli ostaggi e controminacciando di uccidere questi (327). In
realtà l'ostaggio è un cesto pieno di carbone, ma questo per i carbonai di
Acarne equivale a un tesoro in pericolo di vita: sicché accettano di ascoltare
le ragioni pacifiste di Diceopoli.
Il
cittadino giusto premette chr ha paura di parlare in favore dei Lacedemoni
perché conosce il carattere delle persone gossolane: godono se un impostore
elogia loro e la città e nello stesso tempo non si accorgono di essere trattati
come merce - kajntau`qa
lanqavnous ’ apempolwvmenoi (374).
Così
veniamo trattati tutti noi dalla pubblicità ubiqua e da altre ingannevoli
propagande che vogliono annientare il nostro pensiero critico e soffocare la
nostra umanità.
Con
questi miei scritti, le mie conferenze e i miei corsi, cerco di tenere vivo e
desto lo spirito critico insegnando a chi mi legge e ascolta a non lasciarsi
trattare come merce.
I
vecchi, aggiunge Diceopoli, non badano ad altro che a mordere con il loro voto
- oujde; n
blevpousin a[llo plh; n yhfhdakei`n (376). Questo mordere o pungere dei
vecchi con il voto sarà raccontato e messo in ridicolo nella commedia le Vespe (del 422) che vedremo più avanti
Il protagonista quindi si rivolge al pubblico
identificandosi con l'autore della commedia e ricordando i rischi corsi l'anno
prima (426) per i Babilonesi quando
Cleone "mi trascinò in tribunale" (m j eij" to; bouleuthvrion - dievballe, 379 - 380);
ora, prima di parlare, chiede il permesso di vestirsi nel modo più pietoso
(384) per suscitare compassione e limitare il pericolo.
Il
coro gli dà il permesso di vestirsi come preferisce.
Sicché
Diceopoli decide che deve andare da Euripide per farsi dare gli stracci con i
quali presenta sulla scena i suoi personaggi pezzenti - kai; moi badiste j
ejsti; n wJ" Eujripivdhn - 394
Aristofane
Acarnesi
sesta
parte
Per
trovare gli stracci, bisogna andare dal poeta creatore di pezzenti: dunque
Diceopoli si reca a casa del drammaturgo creatore di straccioni e lo chiama
vezzeggiandolo anche un poco: "Euripide, Euripidino!" (Eujripivdh, Eujripivdion, v. 404).
Euripide
in più di una commedia di Aristofane viene accusato di avere presentato al
pubblico nei suoi drammi esemplari umani negativi: uomini ordinari e donne
sgualdrine.
Questa critica verrà ripresa da A. W. Schlegel
e approfondita da Nietzsche in La nascita
della tragedia (1872) sulla quale torneremo.
Il tragediografo dunque appare su un palco
raffigurato da una macchina teatrale chiamata ejkkuvklhma, una piattaforma che scorreva su
ruote e rappresentava gli interni.
Qui
negli Acarnesi compaiono anche
diversi cenci: i costumi di alcuni personaggi euripidei. Diceopoli dunque
rivolge la sua richiesta al drammaturgo non senza rivolgergli la critica che
diverrà più seria nelle Rane:
"Tu
crei sospeso per aria mentre potresti farlo
stando a terra: non è un caso che crei degli
zoppi. (cwlou;
ς poei'ς)
Allora
perché tieni i cenci della tragedia,
le
vesti da far compassione? Non è un caso che crei i pezzenti. ptwcou; ς poei'ς
Ma
ti supplico per le tue ginocchia, Euripide,
dammi
qualche straccio dell'antica tragedia. dovς moi rJakiovn ti tou' palaiou' dravmatoς (415)
Infatti
io devo fare davanti al coro un lungo discorso
che
mi porta la morte se parlo male"(410 - 417).
Euripide
ha creato una folla di antieroi storpi e mendicanti, e Diceopoli ne nomina
alcuni: Eneo, Fenice, Filottete, Bellerofonte lo zoppo (oJ cwlov", 427) e Telefo,
lo straccione ferito, il più malridotto, del quale appunto viene scelto il
costume (430). Era questo un re di Misia il quale venne ferito dalla lancia di
Achille che sola poteva guarirlo: per avere il tocco risanatore Telefo si recò
alla corte di Argo travestito da mendicante, si impadronì di Oreste e minacciò
di sgozzarlo se Agamennone non lo avesse aiutato facendolo guarire dalla stessa
lancia che lo aveva ferito.
Diceopoli
dunque si traveste ed espone il suo piano: i coreuti non devono capire più
niente perché io li possa beffare con delle frasette.
Con
queste parole Aristofane lancia un’accusa contro Euripide che sarebbe uno dei
poeti mistificatori.
Nelle
Rane il personaggio Eschilo si
rivolge a Euripide chiamandolo “collezionatore di ciarle (stwmuliva), ptwcopoiev creatore
di pezzenti, rattoppatore di cenci. Inoltre cwlopoiovς, creatore di storpi che per
giunta fa l’insolente (vv. 841 - 843)
Eschilo
poi chiede a Euripide che cosa abbia scritto lui di buono e l’avversario
risponde: non ippogalli né caprocervi (iJppalektruovnaς, tragelavfouς), ma come ricevetti la tua arte
gonfia tevcnhn
oijdou'san,
di smargiasserie e parole pesanti, i[scnana[16]
me; n prwvtiston aujthvn, l’ho snellita subito e le ho tolto
pesantezza
(kai; to; bavroς
ajfei'lon) con
paroline e raggiri (ejpullivoiς kai; peripavtoiς (Rane, 939 - 942).
Tra
i poeti mistificatori personalmente metto tutti quelli che scrivono in maniera
incompensibile per il popolo e perfino per chi ha un’educazione accademica. Eppure
tra costoro c’è pure chi ha avuto il premio Nobel. Bene fece Sartre a
rifiutarlo.
Euripide
che è il creatore della sottigliezza, oltre che della straccioneria lo
asseconda:
"te
lo darò: infatti macchini trame sottili con mente accorta"(dwvsw: puknh`/ ga; r
lepta; mhcana`/ freniv, 445).
Questo
non è sempre un difetto: deficit peggiore è la mente grossolana di chi macchina
imbrogli colossali.
Diceopoli
prende tutta l'attrezzatura da mendicante, poi, prima di andarsene, infila una
battuta sulla umiltà del mestiere della madre di Euripide, Cleitò, che avrebbe
fatto l'erbivendola:
"Euripiduccio
dolcissimo e carissimo,
possa
morire nella maniera peggiore, se ti chiederò ancora qualche cosa,
tranne
una soltanto, questa soltanto:
dammi
il cerfoglio che ti ha lasciato la mamma!"(475 - 479) skandikav moi dovs
(skavndix hJ).
Euripide
si offende:
"Quest'uomo
mi oltraggia. Chiudi i serrami della casa"(479) dice al servo e Diceopoli
si allontana con tragica disperazione dicendo:
"O
cuore, bisogna andarsene senza il cerfoglio!"(480) ajjneu skavndikoς.
Quindi
si appresta ad affrontare l'agone con il coro.
Aristofane
Acarnesi
settima
parte
Inizia
l’Agone tra il Coro e Diceopoli
Gli
Acarnesi invitano il cittadino giusto a parlare chiamandolo ajnaivscunto"
sidhrou`" t j ajnhvr (491) uomo impudente e di ferro. Tu che
vuoi da solo dire il contrario di quello di tutti gli altri - a[pasi mevllei"
ei\" levgein tajnantiva -
Aristofane si presenta come Leopardi, dirò quello che
penso: “ben ch’io sappia
che obblio - preme chi troppo all’età popria increbbe” (La ginestra, 68
- 69).
I
carbonai di Acarne riconoscono comunque del coraggio a Diceopoli - Aristofane: “ajnh; r ouj trevmei to; pra`gmm j”, costui non trema davanti all’impresa.
Andare
contro l’opinione dei più, cioè i luoghi comuni è davvero percoloso. Si perde
molto in termini di rispettabilità da parte dei più.
Diceopoli
a questo punto identificandosi ancora con Aristofane, si rivolge agli
spettatori - a[ndre"
oiJ qewvmenoi
496 e si presenta come ptwcov", il mendicante dell’ascolto da parte del
pubblico, quindi premette che anche la commedia chiamata trugw/diva il canto
della feccia –truvx - parodia
di tragwdiva - conosce
ciò che è giusto, e lui dunque l’autore dirà"cose spiacevoli ma giuste"(ejgw; de; lexw deina; mevn,
divkaia dev, 501).
Aristofane
sa che quanto è piacevole per i più, spesso non è giusto.
Aggiunge
che Cleone non potrà calunniarlo e trascinarlo un'altra volta in giudizio
poiché
"siamo
soli per il concorso Leneo,
e
non ci sono ancora i forestieri" (504 - 505),
Le
feste Lenèe avvenivano a fine gennaio: ai concorsi prevalentemente comici gli alleati
non potevano intervenire a causa della stagione.
Erano
presenti invece al concorso primaverile delle grandi Dionisie quando vennero
rappresentati i Babilonesi.
Non siamo mescolati. I meteci vengono chiamati
sono “la pula dei cittadini”, e non mi è chiaro se fossero presenti solo come
pula o non ci fossero proprio.
Diceopoli
aggiunge che non ama i Lacedemoni; anzi li odio molto (de; misw` sfodra, 509): anche
le mie vigne infatti sono state tagliate (512). Il vino come si è detto è il
viatico della gioia e dell’amore e il taglio delle vigne è quasi una metafora
della castrazione.
Eziologia
della guerra Aristofane, Erodoto e Tucidide.
Tuttavia
la guerra non è scoppiata per causa dei Lacedemoni.
Ci
fu un primo boicottaggio della merce di Megara che veniva sequestrata da parte
di
"omiciattoli - ajndravria - mascalzoni,
contraffatti, disonorati, falsificati, mezzi stranieri"(517 - 518).
Aristofane
se la prende spesso con quelli che considera falsi cittadini ateniesi
Nelle
Rane il corifeo dirà con rammarico: noi
disprezziamo (prouselou'men) i
cittadini educati, i galantuomini allevati nelle palestre e nei cori trafevntaς ejn palaivstraiς kai; coroi'ς (cfr. l’educazione
fatta di ginnastica e musica nella Repubblica
di Platone), mentre ci serviamo per ogni uso di queste facce di rame, stranieri
rossi di pelo - toi'"
de; calkoi'" kai; xevnoi" kai; purrivai" - crwvmeqa, 730 - 731,
farabutti discendenti da farabutti, ultimi arrivati che prima la città non
avrebbe usato nemmeno come farmakoiv.
Ora
dunque ravvedetevi.
Farmakovς era il
mostro cacciato da Atene per espellere il guazzabuglio umano. Avveniva in
maggio, il giorno della festa dell’eijresiwvnh durante le Targelie, celebrate per Apollo
e Artemide.
I rossi.
Nei Cavalieri Paflagone - Cleone viene chiamato Puvrrandro", il Rosso
(901). Rossi di capelli erano in genere gli schiavi importati dal nord.
L'
aggettivo rubicundus, rosso, sembra
qualificare la rozzezza anche in latino.
Plauto
lo usa per dipingere la faccia del rufus schiavo Pseudolus tanto geniale
quanto volgare: "ore rubicundo" (Pseudolo, v. 1219).
Questi
farabutti dinque requisivano mantelli, cocomeri leprotti e altro, dicendo che
erano merci provenienti da Megara, poi le vendevano nel giorno stesso a borsa
nera.
Quindi
ci fu il ratto di una prostituta megarese da parte di giovani ateniesi ubriachi
e la rappresaglia dei Megaresi che
"
rapirono alla loro volta due puttane - porna duo - di Aspasia
E
allora di qui scoppiò il principio della guerra
per
tutti i Greci: da tre prostitute.
ejjk
triw'n laikastriw'n (laikazw =pratico la fellatio)
E
allora Pericle l'olimpio, per l'ira - ojrgh`/ -
lampeggiava
tuonava e metteva sottosopra
Cfr.
Tucidide e l’eziologia della guerra I, 140, 3.
Il
primo libro si chiude con il primo dei discorsi di Pericle: " ajnh; r kat j ejkei'non
to; n crovnon prw'to" w]n jAqhnaivwn, levgein te kai; pravssein
dunatwvtato""(I, 139, 4), che in quel tempo era il primo
degli Ateniesi e il più capace di parlare e di agire, di muoversi bene cioè nei
due campi non divisibili dove si manifesta la grandezza dell'uomo antico.
Nel
431 Pericle parla agli Ateniesi dopo l'ultimatum inviato dagli Spartani che, con
una terza ambasceria, offrivano la pace a condizione che Atene lasciasse liberi
i Greci loro prigionieri.
Il
figlio di Santippo dunque chiede ai suoi concittadini che non si ceda agli
Spartani (mh;
ei[kein Peloponnhsivoi", I, 140, 1) proponendo l'atteggiamento
eroico di Achille cedere nescius [17], e
pure motivandolo con ragioni pratiche e razionali.
L'irrazionalità
viene trovata tanto negli esiti delle azioni quanto nel pensiero, altrettano
imprevedibile, degli uomini, e noi siamo soliti accusare la fortuna per quello
accade contro il ragionato calcolo (para; lovgon, I, 140, 1).
Maddalena
ne inferisce che Pericle " mentre afferma l'esistenza del paralogo nella
storia, mostra di giudicare superabile la cattiva fortuna quando l'animo sia
costante, e dunque mostra di giudicare la razionalità preminente sulla
fortuna"[18].
Gli Spartani, continua Pericle, oramai vengono
a darci ordini (ejpitavssonte"
h[dh. . . pavreisin, I, 140, 2). Essi ingiungono di togliere l'assedio da
Potidea, di lasciare autonoma Egina, e soprattutto di abrogare il decreto di
Megara (to;
Megarevwn yhvfisma kaqairei'n, I, 140, 3) ; ebbene cedere su questi
punti significherebbe essere considerati paurosi e ricevere altri ordini: "oi|" eij
xugcwrhvsete, kai; a[llo ti mei'zon eujqu; " ejpitacqhvsesqe wJ"
fovbw/ kai; tou'to uJpakouvsante"" (I, 140, 5).
Torniamo
al discorso di Diceopoli: Pericle irato decretò che i megaresi non potevano
rimanere né in terra, né sul mercato né sul continente. Questi erano affamati -
jpeivnwn - 535, e
chiesero ai Lacedemoni che venisse cambiata la legge fatta a causa di tre
puttane, ma noi pur pregati non volemmo
"E
allora ecco già il fracasso degli scudi" (pavtagoς tw'n ajspivdwn, 539).
Questa
eziologia della guerra dunque ne denuncia le cause come assurde.
Tucidide
indica la causa più vera (ajlhqestavthn provfasin,) della guerra del Peloponneso, anche
se la meno dichiarata a parole (ajfanestavthn de; lovgw, / I, 23, 6), nel
fatto, plausibile, che gli Ateniesi, divenendo potenti e incutendo timore agli
Spartani, li costrinsero a combattere.
Erodoto
e le cause della guerra di Troia
Erodoto
nel primo libro delle sue Storie racconta che i Fenici rapirono Iò da Argo e la
vendettero in Egitto, poi i Cretesi trascinarono Europa da Tiro fenicia nella
loro isola, gli Argonauti Greci rapirono Medea dalla Colchide
"Fino
a questo punto dunque, sostengono i Persiani, c'erano solo rapimenti degli uni dagli
altri, ma da questo momento i Greci divennero grandemente colpevoli (megavlw"
aijtivou"):
infatti cominciarono a portare guerra in Asia prima che quelli in Europa. Ora
il rapire donne la considerano opera di mascalzoni, ma prendersi cura di avere
vendetta per le rapite è da stupidi, mentre non avere premura per le rapite è
da saggi: infatti è chiaro che, se esse non volessero, non verrebbero rapite (dh'la ga; r dh; o{ti, eij
mh; aujtai; ejbouvlonto, oujk a]n hJrpavzonto" (I, 4)
Ebbene
dicono i Persiani che loro dell'Asia non fecero alcun conto delle donne rapite,
mentre i Greci per una donna spartana (Lakedaimonivh" ei{neken gunaiko; ")
radunarono una grande flotta, poi, giunti in Asia, abbatterono la potenza di
Priamo. Dopo questo, considerarono sempre ciò che è greco come loro nemico. Infatti
i Persiani pensano che siano loro l'Asia e i popoli barbari che vi abitano, mentre
l'Europa e
"Così
dunque i Persiani dicono che sia andata, e trovano che l'origine della loro
inimicizia per i Greci stia nella presa di Troia. A proposito di Iò, i Fenici
non sono d'accordo con la versione dei Persiani; infatti dicono di averla
condotta in Egitto senza fare ricorso a un rapimento, ma che in Argo si era
unita con il comandante della nave; poi, quando si accorse di essere incinta, vergognandosi
davanti ai genitori, allora si mise in mare volontariamente con i Fenici, per
non venire scoperta. Queste cose dunque dicono i Persiani e i Fenici. Io su
questo non vengo a dire che queste vicende siano andate così o in qualche altra
maniera, ma dopo avere fatto conoscere quello[19] di
cui io so che per primo diede inizio a opere ingiuste contro i Greci (to; n de; oi\da aujto; "
prw'ton uJpavrxanta ajdivkwn e[rgwn ej" tou; " [Ellhna"), procederò
nel seguito della storia, passando in rassegna ugualmente le piccole e le
grandi città degli uomini (I, 5).
Aristofane
Acarnesi
parte
ottava
Contro
la guerra. Aristofane e i tragici
Dopo
tutto gli Spartani non hanno avuto torto nel difendere i loro alleati Megaresi,
conclude Diceopoli.
Il
coro a questo punto (557 e sgg.) si divide in due semicori: uno convinto da
Diceopoli, mentre l’altro continua a dargli torto e ad approvare la guerra, tanto
che chiama in aiuto lo stratego guerrafondaio:
"Lamaco
sguardo di folgore
tu
che sull'elmo hai la Gorgone, soccorrici
o
Lamaco, caro, compagno di tribù" (566 - 568).
Lamaco
interviene con atteggiamenti da miles
gloriosus cioé da spaccone e gradasso: apostrofa Diceopoli chiamandolo pezzente
- ptwcov"
- e
minacciandolo.
Questo
si difende ricordando di essere
"buon cittadino - polivth"
crhstov" - 595
e non un intrigante,
e da quando c'è la guerra un buon soldato stratwnivdh" mentre
tu sei un misqarcivdh" (596 - 597),
un signore dalla paga alta.
La
truppa e il capo nelle guerre. Euripide e Brecht.
Il
diverso trattamento nei conflitti del povero soldato rispetto al signore della
guerra viene denunciato come ingiusto anche da Euripide, quindi da Brecht
Nell’ Andromaca, Peleo si scaglia contro Menelao:
lo chiama infame assassino di Achille (v. 615). E aggiunge che non vale nulla
(v. 641), che non ha avuto nessun merito nella presa di Troia. In Grecia c’è
l’usanza sbagliata di riconoscere solo ai capi il vanto delle imprese, e il
comandante, non facendo niente più di uno solo, ottiene una
fama maggiore
“oujde; n plevon drw'n eJno; " e[cei pleivw lovgon” (v. 698).
Bertolt Brecht fa eco a questa critica: “Il giovane
Alessandro conquistò l’India. /Da solo? /Cesare sconfisse i Galli. /Non aveva
con sé nemmeno un cuoco? ”[20].
“Per lo schifo - continua Diceopoli - ho fatto
una tregua separata - tau`t j ou\n ejgw; bdeluttovmeno" ejspeisavmhn (599)
"vedendo uomini canuti nei ranghi
e
giovani come te che scappavano via " (600 - 601),
poi
quelli in Tracia ricevere la paga di tre dracme (misqoforou`nta" trei`" dracmav" 602).
E’ l'eterna critica diretta ai profittatori
delle guerre: quelli dell'"armiamoci e partite" che abbiamo sentito
qui in Italia a proposito della guerra del golfo.
Un
canto anarchico di moda nel '68 malediceva Gorizia e gli ufficiali che (al
tempo della prima guerra mondiale) restavano "con le mogli nei letti di
lana" mentre la truppa andava a versare il sangue.
Contro
la guerra cfr. le tragedie: Edipo re, Agamennone,
Troiane, Elena.
Nell'Edipo re[21] Ares viene
deprecato dal religiosissimo Sofocle come "il dio disonorato tra gli
dei" (ajpovtimon
ejn qeoi'" qeovn, v. 215).
Ares
è, già per Zeus nell'Iliade il più
odioso tra gli dèi (" e[cqisto" dev moi ejssi qew'n", V,
890); questo anti - dio è, secondo Eschilo, nell'Agamennone, il cambiavalute dei corpi ("oJ crusamoibo; "
d& [Arh" swmavtwn", 437) e gli uomini che partono per
la guerra tornano a casa in forma di ceneri dentro le urne[22].
Anche
Euripide, che pure aizza spesso l'odio ateniese contro Spartani e Spartane, attribuisce
a Poseidone una condanna delle devastazioni belliche nel prologo delle Troiane[23]: "mw'ro" de; qnhtw'n
oJvsti" ejkporqei' povlei", - naou; " te tuvmbou" q, JJjj
iJera; tw'n kekmhkovtwn, - ejrhmivvva/ dou; " aujto; " w[leq ' u{steron"(v.
95 - 97), è stolto tra i mortali chi distrugge le città, gettando nella
desolazione templi e tombe, sacri asili dei morti; tanto poi egli stesso deve
morire.
Nell'Elena
[24](vv. 37
- 40) e nell'Oreste[25] (vv.
1640 - 1642) il tragediografo afferma che la guerra è un mezzo voluto dagli dèi
per alleggerire il mondo oberato dalla massa troppo numerosa dei mortali.
Tale
giudizio contro la guerra si trova anche alla fine dell’Elettra euripidea, quando Castore annuncia a Oreste che Elena sta
arrivando, insieme con Menelao, dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a
Troia non è mai andata, “Zeu; ~ d j, wJ" e[ri" gevnoito kai; fovno"
brotw'n, - ei[dwlon JElevnh~ ejxevpemy j ej~ [Ilion ” (Elettra, vv. 1282 - 1283), ma Zeus mandò
a Ilio un'immagine (ei[dwlon) di lei, affinché ci fosse guerra e strage dei
mortali.
Mi
sembra particolarmente opportuno ricordare tali giudizi sull'assurdità della
guerra che viene imposta agli uomini comuni, se non dagli dèi, dall'alto dei
palazzi del potere, affinché i mortali poveri, servano a interessi che
sicuramente non sono i loro. "Sì sì, lei non era qui". Dice di Elena
la Cassandra di Christa Wolf. E
aggiunge: "Il re d'Egitto l'aveva tolta a Paride, quello stupido ragazzo. Lo
sapevano tutti nel palazzo, perché io no? E ora? Come ne usciamo, senza perdere
la faccia? . Padre, dissi, con un fervore col quale non gli parlai mai più. Una
guerra condotta per un fantasma, può solo essere perduta"[26].
Diceopoli
interpella uno del coro un uomo per bene, lavoratore, già canuto (poliov" 610) e
gli domanda se sia mai andato a fare l'ambasciatore al pari dei personaggi
della nomenclatura del regime. Quello fa segno di no.
Poi
rinfaccia a Lamaco il ricco stipendio che prende. Lo Quindi lo stratego ribadisce
la propria volontà di fare sempre la guerra contro i Pelponnesiaci - ajll j ou\n ejgw, me; n
pa`si Peloponnhsivoi" - ajei, polemhvsw (620 - 621)
Diceopoli
invece proclama ai presunti nemici "Peloponnesii, Megaresi e
Beoti"(623 - 624) di vendere pwlei`n e commerciare ajgoravzein con lui,
e di escludere Lamaco 625
Bologna
28 luglio 2021 ore 11, 35
Aristofane Acarnesi
parte
nona
Prima Parabasi (626 - 718): il coro si toglie
i mantelli e viene agli anapesti (breve breve lunga 627).
Aristofane
parla di sé in terza persona:
"calunniato
dai nemici tra i volubili Ateniesi (diaballovmeno" d’ ujpo, tw`n ejcqrw` ejn j Aqhnaivoiς tacubouvloiς),
in
quanto motteggia la nostra città con le commedie e offende il popolo/
deve
rispondere davanti ai mutevoli Ateniesi" (pro; ς j Aqhnaivouς metabouvlouς, 630 - 632).
"egli
dice che vi insegnerà molte cose buone, in maniera che siate felici/
non
adulando né promettendo mercedi sotto banco, né ingannando/
né
facendo il farabutto né coprendovi di elogi, ma insegnandovi le cose migliori -
ajlla; ta;
bevltista didavskwn"(656 - 658).
Questo
compito pedagogico del poeta verrà ribadito nelle Rane del 405:
"ai
bambini infatti
è
maestro colui che insegna, per gli adulti ci sono i poeti
e
noi dobbiamo dire cose assolutamente oneste" (pavnu dh; dei' crhsta; levgein
hJma'ς,
1053 - 1055) afferma Eschilo discutendo con Euripide.
Sicuro
di essere nel giusto dunque, Aristofane afferma, passando alla prima persona, che
continuerà per la sua strada dove:
"il
bene e il giusto saranno
alleati
con me, e mai verrò preso
ad
agire verso la città come quel
vigliacco
e pederasta sfondato" (w{sper ejkei'noς deilo; ς lakkatapuvgwn –pughv è culo e lakavw mi apro, lavkkoς oJ lat lacus, inglese lake, Acarnesi, 661 - 665).
Si
tratta del demagogo Cleone.
Aristofane
lo presenta più volte (cfr. soprattutto i Cavalieri
- del 424 - come un ladro
sfrontato: Tucidide ne fa il capo di una potenza imperialistica quale era
diventata Atene: "turannivda e[cete th; n ajrchvn", (La guerra del Peloponneso, III 37, 2)
avete un impero che è una tirannide dice in un discorso agli Ateniesi.
“Devesi
riconoscere che Sparta godeva simpatie più numerose; poiché di Atene, mentre
ognuno sentiva il fascino di bellezza e di splendore che da essa emanava, i più
cercavano di sfuggire il contatto politico e l’alleanza, che finiva quasi
sempre per cambiarsi in esoso legame di dipendenza: e del resto la storia
insegna che, in ogni tempo, gli imperialismi più sfrenati e odiosi, più
presuntuosi e intollerabili, furono spesso quelli esercitati dalle democrazie
più liberali. Una siffatta politica di assoluto primato ateniese Pericle
perseguiva fin quasi dall’inizio della sua carriera politica”[27].
Già
Pericle aveva detto ai cittadini: “Non potete tirarvi indietro dall’impero (ajrch'" ejksth'nai, Tucidide,
2, 63, 2).
wJ"
turannivda ga; r h[dh e[cete aujthvn, oramai infatti l’avete come una
tirannide, e averlo preso può sembare ingiusto, ma lasciarlo sarebbe pericoloso.
L’inerzia infatti non salva - to; ga; r a[pragmon ouj swv/zetai se non è
schierata con l’attività
Questo
imperialismo di Atene come ogni tirannide escludeva la pietà:
Lo
dichiara Agamennone nell’Aiace di
Sofocle: “tov
toi tuvrannon eujsebei'n ouj rJa/dion” (v. 1350), non è facile che un
tiranno sia anche una persona pia. Insomma tirannide e pietà sono incompatibili.
“La
logica del tiranno non può permettergli alcuna “opra pietosa”[28].
Lo stesso
vale per la tirannide collettiva di una città.
Il
coro chiede ispirazione all’ardente musa di Acarne - Mou`s j jAcarnikhv 9(665 - 666)
Segue
il biasimo alla città la quale trascura i vecchi.
Noi
vecchi antichi oiJ
gevronte" oij palaioiv (676), lamentano i coreuti, non veniamo assistiti
nella vecchiaia - ouj ghroboskouvmeqj – 678 in maniera degna di quelle famose
battaglie che abbiamo combattuto sul mare. Anzi, subiamo maltrattamenti
tremendi: permettete che veniamo derisi - eja`te katagela`sqai - da giovani
oratori insolenti (680).
L’orrore
della derisione è uno dei principali motivi che spingono l’Aiace di Sofocle a
suicidarsi e
Noi
balbettiamo per la vecchiaia e stando presso il pulpito della Pnice, della
giustizia vediamo solo l’ombra. Nei processi il giovanotto che si è dato da
fare per divenire avvocato colpisce velocemente mettendo insieme un’accusa con
parole rotonde poi tirato sulla tribuna interroga l’accusato collocando
trappole di parole e dilania, tormenta, squassa un uomo vecchio come Titone.
Il
vecchio biascica poi, condannato a pagare - ojflw`n - ojfliskavnw - se ne
va piangendo e dice agli amici: me ne vado multato di questo denaro di cui
avevo bisogno per comprarmi una bara. Si può pensare ai rottamatori nostrani e
della spietatezza da loro inaugurata verso i vecchi, a partire naturalmente dagli
indifesi.
I
vecchi lamentano l’ingiustizia che subiscono pur dopo avere meritato assai
nella battaglia di Maratona quando inseguivamo dicono - ejdiwvkomen - 697 - il
nemico, mentre ora siamo perseguiti in tutti i modi - sfovdra diwkovmeqa - 700 - da
uomini malvagi, poi per giunta veniamo dichiarati colpevoli.
Una colpevole calunnia contro la
vecchiaia si trova nella Retorica
(1389b) dove Aristotele sparlando, a proposito e a sproposito dei vecchi, dice
che sono fivlautoi
ma'llon h] dei',
egoisti più del dovuto e che questa è una forma di mikroyuciva, meschinità:
kai; pro; ~
to; sumfevron zw'sin, ajll j ouj pro; ~ to; kalovn, vivono per l’utile e non per il bello, proprio
per il fatto che sono egoisti: l’utile infatti è un bene individuale, mentre il
bello è un bene assoluto (to; de; kalo; n aJplw'~).
I vecchi sono mal reputati siccome
mettono davanti agli occhi dei meno attempati quello che diventeranno se non
moiranno prima.
Il corifeo propone che le cause
siano separate: cwri;
" ei\nai ta; " grafav" (714): un vecchio sdentato deve
essere difensore di un vecchio e mentre quel culo aperto e chiacchierone eujruvprwkto" kai;
lavlo" (716)
– del figlio di Clinia sarà il difensore dei giovani. Alcibiade verrà canzonato
più volte.
Si tratta del grande trasgressore, quello cui,
secondo D'Annunzio, "parve più fiera la gioia/ d'abbattere il limite
alzato"(Maia, Laus vitae ").
Nella Vita di Plutarco troviamo, tra le altre,
notizie sulla sua dissolutezza che del resto non inficiava le grandi capacità
dell'uomo: "alle doti politiche e oratorie. . . si univano grandi difetti:
menava una vita dissoluta, era dedito al bere, amoreggiava senza ritegni, vestiva
con effeminatezza, strascicando, per esempio, la veste"(16).
Ma
nel Simposio di Platone il grande
seduttore dell'intera Atene deve riconoscere che la bellezza di cui andava fiero
era solo di bronzo in confronto a quella aurea di Socrate il quale
"disprezzò e derise e umiliò" tanta venustà non contraccambiando i
desideri del discepolo (219c).
Aristofane
Acarnesi
parte
decima
Le
due “porcelline” di Megara
Finita
la prima parabasi, seguono scene episodiche (719 - 1149).
Diceopoli
segna i confini del suo mercato personale – o{roi me; n ajgora`" eijsin oi{de th`"
ejmh`" 719
- dove possono commerciare - ajgoravzein - "Peloponnesii, Megaresi e
Beoti"(721 - 722), mentre non devono mettervi piede i guerrafondai come
Lamaco né i sicofanti, cioé i delatori, le spie del regime.
Questi
confini anticipano in modo meno stretto il giardino e il lavqe biwvsa" di
Epicuro.
Arriva
un Megarese seguito da due ragazzine,
"
povere figlie di padre disgraziato"(731).
Il
babbo fa una domanda:
"volete
essere vendute o soffrire dolorosamente la fame?
h] peinh'n kakw'ς;
"vendute,
vendute!" pepra'sqai pepra'sqai - pf m p
da pipravskw - gridano
le fanciulle (734 - 735).
Segue
una delle scene più tragiche del teatro greco. Il padre fa sapere alle figlie
che le trasformerà in porcelline.
Dice
loro: “mettetevi questi zoccoli di porci perché possiate sembrare figlie di una
troia onesta - o{pw"
de; doxei`t j ei\men –infinito dorico - ejx ajgaqa`" ujov" 741. Un
buffo ossimoro tragico.
Altrimenti
dovrete tornare a casa a soffrire la mala fame.
Nella
storia e nella letteratura mancano casi di cannibalismo come rimedio estremo
per evitare questa sofferenza
L'ultimo
frammento del Satyricon ne ricorda
tre esempi forse per persuadere Gorgia, l'heredipeta riluttante a
trangugiare la carne del cadavere del vecchio Eumolpo: "quod si
exemplis quoque vis probari consilium, Saguntini obsessi ab Hannibale humanas
edere carnes nec hereditatem expectabant. Petelini idem fecerunt in ultima fame,
nec quicquam aliud in hac epulatione captabant nisi tantum ut esurirent. cum
esset Numantia a Scipione capta, inventae sunt matres quae liberorum suorum tenerent
semesa in sinu corpora" (141, 9 - 11), che se tu vuoi che il mio
progetto sia avvalorato da esempi, i Saguntini assediati da Annibale mangiavano
carne umana e nemmeno si aspettavano un'eredità. Lo stesso fecero i Petelini
ridotti alla fame estrema, e in questo banchetto non andavano a caccia di altro
che di non morire di fame. Quando Numanzia fu presa da Scipione, si trovarono
madri che tenevano in seno corpi mezzi rosicchiati dei propri figlioli.
"Quell'esempio
tripartito è il degno finale epico di un libro, che al di sotto di vicende
oscene, triviali, mirabolanti, o aridamente finanziarie, fa udire il
trascorrere imperterrito e solenne della storia"[29]. La
storia come mattatoio di carne umana.
Il
rimedio delle figlie vendute dunque non è estremo: c’è stato di peggio.
Sicché
dopo gli zoccoletti da porcelline il babbo ordina alle fanciulle di mettersi
sulla faccia anche un paio di grugnetti ta; rugciva - 743 - quindi le fa entrare nel sacco
che ha lì pronto eij"
to; n savkkon
(745) dove devono grugnire e fare coì tirando
fuori la voce dei porcellini misterici - fwna; n coirivwn musthrikw`n (747), quelli che
venivano sacrificati a Demetra nei misteri eleusini.
Poi va da Diceopoli e gli domanda: “h\ lh`" privasqai
coiriva;
”(749) vuoi comprare porcelline?
Diceopoli
domanda se al Megarese se porti sale (a{la") o agli (skovroda)
“Agli
non è possibile perché gli ateniesi invadendo la nostra terra ha sradicato
tutto con un piolo” è la risposta.
Dunque
il Megarese può portare solo porcelline misteriche (764), di quelle cioé che si
sacrificavano ai misteri di Demetra. La scena, pesante, siccome risente della
comicità grossolana della farsa megarese, gioca sul doppio senso della parola coi'ro" che, come
il latino porcus indica tanto il
maiale quanto l'organo sessuale femminile.
La
guerra tra gli altri “effetti collaterali” ha spesso, quasi sempre, anche
questo dello stupro, della compra vendita, della postituzione delle donne.
Il
Megarese dunque mostra le ragazzine e ne dà una in mano a Diceopoli elogiando
la merce da vendere: ajlla; ma; n kalaiv. - a[nteinon, aij lh/": wJ" pacei`a
kai, kalav
- (766 - 767), sono proprio belle. Sollevala, se vuoi: come è soda e bella. Le
parole hanno una patina dorica.
L’Ateniese
obietta che è di razza umana - all’j e[stin ajnqrwvpou ge (774). Una obiezione da fare
sempre a chi cerca di trattare donne e uomini come cose da mercaneggiare e da
usare quali strumenti,
Una
fanciulla minacciata dal padre prova anche a fare il verso del porco (coì coì, 780) e Diceopoli commenta:
"ora
sembra davvero una maialina, coi'roς oJ
ma
una volta cresciuta sarà una fica kuvsqoς oJ lat. cunnus"(781
- 782). Pevoς tov è il
latino penis.
Entro
cinque anni sarà come la madre fa il padre venditore.
A
proposito di “legittima difesa”
Al
babbo megarese che vuole vendere le sue figliole come porcelline e ne porge una
bella grassa in mano a Diceopoli, il protagonista degli Acarnesi di Aristofane obietta che la maialina non è sacrificabile
–oujci; quvsimov"
ejstin, perché
non ha la coda - kevrkon oujk e[cei (785).
Bisognerebbe
sempre usare questo tipo di obiezioni sacastiche a quanti cercano di
giustificare un assassinio. Quando per coonestare l’ omicidio di un uomo in
fuga si invoca la “legittima difesa” si dovrebbe obiettare: l’hai ammazzato
come si può fare con un cane arrabbiato, o una iena, eppure questo morto kevrkon oujk e[cei, non ha la
coda.
Il
padre ribatte che non ha la coda perché è piccola, ma le crescerà, quindi porge
l’altra a Diceopoli ma questo nota oj kuvsqo", la fica come nell’altra.
Il
Megarese promette che diverrà grassa e piena di setole dunque una porca in
piena regola da sacrificare ad Afrodite.
Diceopoli
obietta che non è alla dea dell’amore che si sacrifica una porcella
Il
Megarese replica che invece alla sola Afrodite va sacrificata perché la carne
delle porcelle ta`n
coivrwn to; krh`" diventa soavissima –a{diston - una volta infilata nello spiedo"
(ajna; to;
n
ojdelovn 795 - 796).
Cfr. L'uomo senza qualità di Musil: "Egli
vedeva la figura di lei sotto le vesti come un gran pesce bianco che è vicino
alla superficie dell'acqua. Gli sarebbe piaciuto fiocinarlo virilmente e
vederlo dibattersi, e v'era in quel desiderio tanta ripulsione quanta
attrazione"(p. 849).
Aristofane,
Acarnesi
parte
undicesima
Seguono
altri doppi sensi a base di ceci e fichi.
Diceopoli
domanda alla porcella se sgranocchierebbe i ceci “trwvgoi" a]n
ejrebivnqou"; ” (801) e la maialina risponde con il verso koiv ripetuto
tre volte
Poi
i fichi secchi usati per ingrassare i maiali il cui h|par sukwtovn, iecur ficatum fegato
ingrassato con fichi era pregiato
Alla
fine di questa trattativa il megarese vende le figlie - porcelle per una
treccia d'agli l'una e una misura di sale l'altra (813 - 814).
Arriva un sicofante, un delatore
professionista che vorrebbe fare la spia, ma Diceopoli lo caccia in malo modo e
il Megarese denunzia a sua volta questa genìa come la piaga della città:
"quale
sciagura è questa in Atene!" (oi|on kakovn ejn tai`" j Aqavnai" touu`t j
e[ni (829).
Diceopoli
dunque conclude l'affare e il corifèo lo proclama felice per questa sua
estraneità a sicofanti e demagoghi, veri malanni di Atene.
Invece
Diceopoli farà un bel raccolto stando seduto al mercato - karpwvsetai ga; r ajnh;
r ejn tajgora`/ kaqhvmeno" (837 - 838).
E
Iperbolo ncontrandoti non ti riempirà di liti si congratula il corifeo (846 - 847).
La
rivolta di Samo all’impero ateniese e la rivolta ungherese del
Samo
si era ribellata nel 441 all’oppressione ateniese. In quell’occasione i democratici
partigiani degli Ateniesi “furono letteralmente massacrati, tranne beninteso
quelli che trovarono scampo fuggendo. Esattamente come i comunisti ungheresi
nei giorni della rivolta popolare tra il 23 ottobre ed il 3 novembre del 1956…Nella
guerra contro Samo Atene si impegnò con una flotta comprendente anche forze
alleate (per dare l’impressione che tutta la “lega” puniva l’alleato ribelle)
ed inviò alla testa di questa grande flotta che penò non poco a sopraffare
tutti i ribelli, tutto il collegio degli
strateghi, compreso il poeta Sofocle che in quell’anno ricopriva tale
carica. L’intervento contro l’Ungheria fu anch’esso “corale”, per le stesse
ragioni propagandistiche…Dopo la sconfitta del 440 - 439, a Samo tornò, imposto
dagli Ateniesi, un governo “popolare”, che fece piazza pulita della fazione che
aveva alimentato la ribellione e condotto senza esclusione di colpi la guerra. A
partire da quel momento Samo fu il più fedele alleato di Atene. Quando, per
pochi mesi, nel 411 gli oligarchi prendono il potere ad Atene, è a Samo che si
crea quello che potremmo chiamare un “governo popolare ateniese in esilio”. E
da Samo parte alla riconquista politica e militare della città”[30].
Nel
411 venne repressa a Samo una congiura oligarchica ma solo dopo l’uccisione di
Iperbolo avvenuta in aprile
Iperbolo, il demagogo succeduto a Cleone morto
nel 422, era un malvagio, secondo Tucidide ("mocqhro; n a[nqrwpon") e
venne ostracizzato da Atene per la sua disonestà e anche perché portava
vergogna alla patria: "dia; ponhrivan kai; aijscuvnhn th'" povlew""(VIII,
73, 3). Questo demagogo nel 417 era stato ostracizzato da un accordo
trasformistico di Alcibiade con Nicia: avevano fatto convergere i voti
controllati da loro sul comune avversario che aveva proposto l'esilio per i
suoi rivali, responsabili, per un motivo o per un altro, della sconfitta di
Mantinea del 418. Ebbene quest'uomo soffre la cattiva stampa non solo di
Tucidide ma anche di Aristofane che già negli Acarnesi (del 425) lo menziona come un guerrafondaio attaccabrighe
(vv. 846 - 847) e nei Cavalieri (del
425) lo definisce "a[ndra mocqhro; n", come fa Tucidide, e, irrisoriamente,
aggiunge "ojxivnhn", acido
(v. 1304).
Ma
torniamo agli Acarnesi.
Sul
mercato privato di Diceopoli arriva un tebano a offrire la sua mercanzia: il
nostro eroe è attirato soprattutto dalle anguille di Copaide, un lago della
Beozia, oggi prosciugato:
"o
tu che porti le fette di pesca più gradite agli uomini,
w\ terpnotavton su; tevmacoς ajnqrwvpoi"
fevrwn (881)
permetti
che io saluti le anguille - ta; " ejgcevlei" - se
davvero le porti"(882).
Grande
è la gioia del pacifista ateniese nel vedere "l'ottima anguilla th; n ajrivsthn
e[gcelun (889)
giungere bramata dopo cinque anni finalmente"(890).
Dicepoli è tanto felice che utilizza, in
travestimento derisorio, due mezzi versi pronunciati da Admeto nei riguardi
dell'adorata Alcesti (367 - 368): "che
nemmeno morto io sia mai separato da te… cotta in mezzo alle bietole"(892
- 893 mhde;
ga; r qanwvn - pote - sou' cwri; ς ei[hn” citato da Alcesti 367 - 368.
Admeto
concludeva il secondo verso con th`" movnh" pisth`" ejmoiv, tu sola
fedele a me, mentre Diceopoli lo chide con enteteutlanwmevnhς, ejnteutlanovomai, teu'tlon =
bietola) .
Il
fatto di citare nel 425 il verso di una tragedia rappresentata nel 438
significa che i versi di questi drammi erano molto popolari e conosciuti dagli
spettatori.
Aristofane.
Acarnesi
Parte
dodicesima
Il
Tebano in cambio dell’anguilla vorrebbe qualche cosa che da loro non si trova
mentre abbonda ad Atene. La proposta pronta di Diceopoli è: "allora
portati via un sicofante
dopo
averlo imballato come un vaso"(903 - 904).
Il
tebano lo equipara una scimmia piena tanta malvagità (908)
Arriva
un sicofante, Nicarco, piccolo ma tutta maignità.
Dichiara
subito che vuole denunziare la merce del tebano come robs nemica - faivnw polevmia tau`ta - (911)
Quindi
accusa il tebano di introdurre un lucignolo per dare fuoco all’arsenale. E’ la
storia delle armi di distruzione di massa attribuiti agli Stati canaglia che
non possono nemmeno difendersi.
Basta
infilarlo in una blatta poi dargli fuoco e ci penserebbe il vento di tramontana
a portarlo fino alle navi che brucerebbero.
Diceopoli
non sopporta tali assurdità e chiede aiuto al tebano per tappargli la bocca con
dei trucioli, poi imballarlo come un vaso. Le menzogne e le assurdità spacciate
per scatenare le guerre andrebbero dovrebbero essere ridotte al silenzio. Ne
abbiamo sentite tante. Ridotto a un vaso da esportare potrà essere usato come kath; r kakw`n, una
coppa di mali, tripth;
r dikw`n, un
tino di processi, (937), una lanterna responsabile di denunce, un calice pe
mescolarvi gli affari - kuvlix ta; pravgmsat j ejgkuka`sqai (939). Gli
affari e gli affaristi non sono mai estranei alla guerra.
Ricordo
che Eschilo nell'Agamennone definisce
il dio della guera sprezzantemente "il cambiavalute dei corpi" (oJ crusamoibo; ς d j [Arhς swmavtwn. 437, cambia
gli uomini in cadaveri e favorisce i profitti degli affaristi. Eppure quelli
che si avviano la guerra dalla quali torneranno trasormati in cenere dentro le
urne partono cantando contenti come se andassero a fare l’amore tanto sono
suggestionati dalla propaganda. Pensate anche alle manifestazioni di piazza in
favore delle due guerre mondiali.
Il
tebano si porta via il sicofante imballato, capace di tutto ma nulla di buono
Capace
di tutto dunque il sicofante: perciò il tebano se lo porta via.
La
polemica contro i sicofanti è presente nell'opera di Aristofane quasi quanto
quella contro Euripide, Socrate, Cleone e i demagoghi in genere. Segnalo un
paio di esempi.
Negli
Uccelli (414), l' alata e allegra
utopia costruita per fuggire dalla dura realtà politica sociale e militare, viene
fondata la nuova città dei cuculi tra le nuvole (Nefelokokkugiva), da Pistetero ed Evelpide, i due
Ateniesi disgustati dei concittadini e guidati dai volatili.
Nella
nuova polis arriva, con altri sgraditi ciarlatani, fanfaroni e assassini (tra
cui uno spacciatore di oracoli e un parricida, altrettante caricature di esistenze
moderne e deformi) anche un sicofante il quale reclama delle ali (1420): gli
servono per denunziare, sostenere l'accusa e tornare indietro volando (1455). Naturalmente
Pistetero lo caccia non senza averlo prima picchiato perché impari quanto
"amara è l'arte di stravolgere la giustizia"(1468).
I sicofanti, come si vede, sono legati ai
processi: non potevano dunque non essere almeno menzionati nelle Vespe (del 422) che poi sono gli Eliasti,
i giudici del tribunale popolare chiamato Eliea. Costoro erano seimila e
secondo Aristofane avevano la mania dei processi con i quali perseguitavano le
persone invise a loro e a Cleone che li corteggiava: il demagogo aveva anche
alzato l' indennità eliastica da due a tre oboli al giorno. In compenso questi
giudici infliggevano pene e multe agli oppositori del regime; ma non avrebbero
potuto agire tanto efficacemente (Guido Fassò ha visto una dittatura del
proletariato ante litteram esercitata
attraverso questo tribunale) se non ci fossero stati i delatori cui bastava
muovere l'accusa generica di aspirante tiranno. E chiunque provasse qualsiasi
antipatia per chiunque, poteva denunciarlo. In questa commedia che mette in
berlina giudici e processi, Aristofane racconta che al mercato
"se
uno compra scorfani e non vuole sardine,
subito
quello che lì vicino vende sardine dice:
"quest'uomo
evidentemente vuole fare provviste (di scorfani) per la tirannide!"(Vespe,
493 - 495).
Ma
torniamo agli Acarnesi. Uscito il
tebano che, da vero beota, si porta via il sicofante, entra un servo di Lamaco,
lo stratego guerrafondaio il quale ha dato l'ordine di comprare tordi e
anguille da Diceopoli.
Il nostro eroe però non si lascia intimidire
dalla prosopopèa guerresca dell'uomo e tiene tutto per sé il frutto della pace
separata (960 e sgg.) . Il coro intanto si convince delle buone ragioni del
protagonista e giura:
"io
non accoglierò mai in casa Polemo"(977) che poi è la personificazione del
conflitto, visto come "un uomo ubriaco"(981) il quale "ha
operato tutti i mali e sconvolgeva, e rovinava"(983) e, pur invitato a
fare la pace,
"bruciava
ancora di più con il fuoco i pali delle viti
e rovesciava a forza il nostro vino fuori
dalle vigne"(986 - 987).
La
guerra dunque è odiata dai contadini poiché distrugge alberi, raccolti e
impoverisce la vita di quanti lavorano la terra e vivono dei suoi prodotti. In
pratica di tutti.
Virgilio
nella prima Georgica (511) squalifica
"Mars come impius ", empio Marte, e Orazio in Carmina, II, 14, 13, come cruentus,
insanguinato.
Maledetta
la guerra da Diceopoli, dal coro e da noi, arriva la Pace, salutata come "compagna
di Cipride la bella e delle Grazie" (Aristofane, Acarnesi, 989). Mostra il suo bel volto kalo; n to; provswpon (990)
tenuto nascosto per troppo tempo.
Attualizzazione.
Il rimedio dal bel volto. Aristofane, sofocle e i sindaci pistoleri.
Se
i pistoleri come quello di Voghera guardassero in faccia un uomo prima di
sparargli, forse esiterebbero a farlo, e magari non lo farebbero punto
Il
volto bello è visto come antitesi e rimedio della guerra anche dal coro dell’Edipo re di Sofocle (inter poetas non surrexit maior)
"E
la città muore senza tenere più conto di questi/e progenie prive di compianto
giacciono/ a terra portatrici di morte senza compassione/e intanto le spose e
anche le madri canute/di qua e di là, presso la sponda dell'altare/gemono
supplici/per le pene luttuose/ e il peana lampeggia/ e la voce lamentosa del
flauto concorde, /per cui, o aurea figlia di Zeus, / manda un aiuto dal bel
volto - eujw`pa
pevmyon ajlkavn - (179 - 189).
Il
Coro vede aleggiare intorno alla bella donna amore e lavoro, i beni negati
dalla guerra. Intanto Diceopoli comincia a preparare un banchetto a base di
lepri e tordi (Acarnesi, 1005 - 1006).
Poi entra un povero contadino vestito a lutto (in bianco, v. 1024) poiché ha
perduto i buoi. Vorrebbe che Diceopoli gli ungesse con una goccia di pace gli
occhi rovinati dal pianto, ma il nostro eroe bada solo a dare ordini per il
banchetto:
"tu
sulla salsiccia (cordhv) versa del miele (mevli) e friggi le seppie (shpivaς)… voi
arrostite le anguille (ojpta`te tajgcevleia 1040 - 1043) con un compiacimento che fa
pensare a carenze alimentari patite dai Greci, sia per la guerra, sia perché l'aridità
del suolo li costringeva a lottare per trarne l'estremo, non abbondante, prodotto.
Tutti
invidiano Diceopoli e vorrebbero la sua pace: uno sposo gli manda della carne
del banchetto nuziale per avere in cambio una "coppa di pace: per non
andare in guerra ma restare in casa a fare l'amore"(i{na mh; strateuvoitj
ajlla; kinoivh mevnwn - 1052 - 1053).
Diceopoli rilutta, ma arriva anche una
messaggera con la richiesta della sposa:
"
che il pene del marito rimanga a casa" (o{pwς a}n oijkourh'/ to; pevoς tou' numfivou, 1060). Questa
preghiera fa breccia nel cuore del protagonista:
"perché
una donna non merita di soffrire per la guerra"(1062). Cfr. la commedia Lisistrata
Abbiamo
qui una variante della figura femminile rispetto a quella facies barbarica e feroce che Eschilo ha attribuito a Clitennestra
o Euripide a Medea, le due "leonesse" omicide.
Questa
sposina di Aristofane, se vorrà tenere il marito con sé, di notte dovrà
spalmargli il liquido della pace sul pene (nuvktwr ajlefeivtw to; pevo" tou` numfivou - 1066),
un organo che infatti le veterofemministe degli anni Settanta chiamavano
"guerrafondaio".
Aristofane.
Acarnesi
parte
tredicesima
Niente
di bello né di buono c’è nella guerra
Esce
di casa ed entra in scena lo stratego Lamaco. Un messaggero lo informa che deve
andare a sorvegliare le frontiere del nord, sotto la neve (threi`n neifovmenon - 1075).
Egli ne è contrariato assai; intanto Diceopoli viene invitato ad un banchetto
da un messo inviato dal sacerdote di Dioniso: c'è cibo in abbondanza non
mancano già pronte aiJ povrnai pavra, focacce, schiacciate, torte di sesamo, paste,
dolci, danzatrici - ojrchstrivde" 1094.
Diceopoli
invece fette di pese: infatti le cipolle mi fanno schifo - ejmoi, de; temavch: krommuvoi"
ga; r a[cqomai
- (1100)
Lamaco
chiede le due penne per l’elmo, Diceipoli le colombe e i tordi cicciottelli. Lamaco
li guarda con desiderio e Diceopoli gli intima di non fissarli.
Quindi
ordina un piatto di lepre e scommette che Lamaco sarà costretto a preferire ta;
"
cavallette - ta;
" ajkrivda" (1117). A Lamaco la lancia to; dovru - 1118, mentre
Diceopoli odina th;
n cordhvn,
la salsiccia.
Lamaco
estrae l’asta dal fodero, Diceopoli prepara il bischero.
Lamaco
lo scudo tondo con la Gorgone, Diceopoli la torta tonda di formaggio.
Lamaco
si muove sotto la neve e un aria di tempesta, Diceipoli si appresta al simposio.
Quindi
si svolgono contemporaneamente i due preparativi contrastanti: per la guerra e
per l'orgia. Dei due naturalmente Lamaco che si fa portare "il tondo scudo
con
Ordina
al servo di portargli ta; krovmmua, le cipolle.
Diceopoli, che ordina "il tondo piatto di
focaccia col formaggio"(turovς 1125), è felice.
Il
corifèo sottolinea l'enorme disparità delle condizioni, ovviamente per indurre
gli Ateniesi a desiderare la pace:
"a
uno spetta bere incoronato di fiori,
a
te fare la guardia tremando dal freddo,
a
lui dormire
con
una ragazza splendidissima
stropicciandosi
il coso!"(1144 - 1148).
Viene del tutto smontato il fascino che la
propaganda ingannevole attribuisce alla guerra dove non c'è niente di eroico, bello,
invidiabile.
Anche
Dino Buzzati nel romanzo Il deserto dei
Tartari la demitizza, seppure in modo diverso. Giovanni Drogo, un
personaggio da tragedia greca, ha passato la vita nell'attesa della gloria
militare. Ebbene, quando arrivano i Tartari a portare la guerra, il
protagonista, malato a morte, non può prendervi parte. Allora, invece di cedere
alla disperazione accetta il suo destino come un eroe sofocleo e, in punto di
morire, completamente solo, " benché nessuno lo veda, sorride" poiché
ha compreso di avere affrontato e superato una prova ben più difficile di
quella di coloro che muoiono in battaglia: " Tutto succederà nella stanza
di una locanda ignota, al lume di una candela, nella più nuda solitudine. Non
si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra sorrisi
di giovani donne. Non c'è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo. Oh, è
una ben più dura battaglia di quella che lui un tempo sperava"(p. 147). Insomma
anche Buzzati, come Aristofane, dice che c'è qualcosa di più eroico della
guerra.
Aristofane Acarnesi
parte
quattordicesima
Seconda
parabasi. Mi ha fatto ridere
Negli
Acarnesi segue la seconda Parabasi, breve
(1150 - 1173), nella quale l'autore se la prende con un suo nemico cui augura
buffe disavventure culinarie e scatologiche.
Si
tratta di un certo Antimaco, un corego alle Lenee, che una volta mandò via il
coro senza cena - a[deipnon. 1156.
I
coreuti degli Acarnesi lo maledicono
con il cattivo augurio di vederlo un giorno voglioso di una seppia - teuqivdo"
deovmenon (1157),
la quale però, arrostita e sfrigolante, si troverà posta sulla tavola dove c’è
il sale e quando Antimaco famelico andrà per prenderla gliela imbolerà una
cagna più affamata di lui e scapperà via. Un buffo contrappasso di giusta
punizione dell affamatore.
Ma
non solo questo deve capitargli.
Sarebbe
bello che una notte mentre torna dal maneggio febbricitante, un ubriaco - mequvwn - 1166, una
specie di Oreste pazzo, gli spaccasse la testa e Antimaco cercasse di prendere
una pietra ma nell’oscurità dell’aria e del suo cervello prendesse in mano uno
stronzo cacato di fresco - ejn skovtw/ lavboi - th`/ ceiriv pevleqon ajrtivw"
kecesmevnon
- (1169 - 1170. cevzw= caco.
Ancora
meglio se poi scagliando questo reperto fecale colpisse Cratino. Il collega di
Aristofane
Aristofane,
Acarnesi, Esodo (1174 - 1233)
Un
servo chiede cure mediche per Lamaco che si è riempito di ferite. Sono traumi
fisici molto diversi dal vulnus amoroso
che abbiamo segnalato nella Didone di Virgilio e anche dall’ulcus, la piaga, pure questa causata
dall’amore che Lucrezio depreca.
L’uomo
ajnhvr, cioè lo
stratego scemo, tetrwvtai 1178 si
è ferito contro un palo saltando in una trincea diaphdw`n tafron - la caviglia si è slogata e
girata all’indietro, si è rotta la testa cadendo su un sasso e ha risvegliato
I
comandanti di questo conflitto sono degli incapaci eletti probabilmente per la
loro demagogìa lusinghevole e fallace. Tale inettitudine diverrà rovinosa non
solo per tali duces gloriosi ma per
l’intera città di Atene durante la pedizione in Sicilia (415 - 413) voluta da
Alcibiade che dovrà allontanarsene e condotta male dallo stesso Lamaco e da
Nicia che vi perderanno la vita.
Caduto
sulle pietre il gran pennacchio dello spaccone ptivlon de; to; mevga kompolakuvqou peso; n - pro;
" tai`" pevtraisi (1182 - 1183), Lamaco si diede a cantare una
canzone tremenda: “inclito occhio del giorno ora vedo la tua luce per l’ultima
volta: non sono più io” - oujkevt j ei[m j ejgwv - (1184 - 1185). La guerra serve se
non altro a smontare i fanfaroni che si sono pavoneggiati nell’intraprenderla: toglie
loro la maschera di eroismo, grandezza e autorevolezza rivelandoli quali poveri
uomini.
Quindi
lo stratego ferito entra in scena malconcio e sorretto da due soldati.
Si
lamenta per “questi odiosi dolori agghiaccianti” - stugera; tavde ge
kruera; pavqea
- resi visibili dal trucco sull’attore, quindi esagera non senza del resto
prevedere la propria fine che avverrà nel 413: “diovllumai doro; " ujpo; polemivou
tupeiv"”
(1194), muoio colpito da una lancia nemica.
La
sofferenza aumenterebbe se Diceopoli lo vedesse poi sghignazzasse sulle sue
sventure.
L’orrore
della derisione è dichiarato insopportabile da Aiace che nella tragedia di
Sofocle arriva a uccidersi e da Medea che in quella di Euripide ammazza i
propri figli dopo avere detto a se stessa:
“Su
via, non risparmiare nulla di quello che sai,
Medea,
nel progettare e nell'ordire:
procedi
verso l’orrore: adesso è una prova di ardimento.
Vedi
quello che subisci? non devi dare motivo di derisione
ai discendenti di Sisifo per queste nozze di
Giasone,
tu
che sei nata da nobile padre e discendi dal Sole.
E
poi lo sai: oltretutto noi donne siamo
per
natura assolutamente incapaci di nobili imprese,
ma
le artefici più sapienti di tutti i mali” (Medea,
401 - 409).
Entra
in scena appunto Diceopoli tra due cortigiane discinte
Palpa
due tettine dure come mele cotogne - tw`n tutqivwn, wj" slhra; kai; kudwvnia - 1199.
I meli cotogni erano alberi sacri
ad Afrodite come si legge nel frammento più famoso di Ibico (seconda metà del
VI secolo): "in primavera firiscono i meli cotogni, alberi sacri ad
Afrodite, irrigati dalle correnti dei fiumi dov'è il giardino intatto delle
vergini, e i fiori della vite crescendo sotto i tralci ombrosi dei pampini
sbocciano, ma per me Eros rimane sveglio e tormentoso. Come Borea tracio
bruciante sotto la folgore, egli avventandosi dalla parte di Cipride con aride
follie, oscuro e impudente, con prepotenza e senza tregua fa la guardia al mio
cuore" (6 D.) .
L’amore di Ibico è tormentoso, mentre
il sesso fatto da Diceopoli è ilare.
Il pacifista di Aristofane non si
fa mancare il vino per inebriare il suo festeggiamento mentre lo stratego
vulnerato lamenta le proprie tormentose ferite - ijwv ijwv, traumavtwn ejpwduvnwn (1205).
I piccoli traumi di Diceopoli sono
leggeri e piacevoli punture amorose: tiv me su, davknei"; (1209), tu
perché mi mordi?
Lamaco: “lavbesqe, mou, lavbesqe
tou` skevlou": papai`, - proslavbesqj, w\ fivloi ” (1214
- 1215), tenetemi, tenetemi la gamba, ahi, ahi, tiratela al posto giusto o cari.
Il controcanto del pacifista: “ejmou` dev ge sfw; tou`
pevou" a[mfw mevsou - proslavbesq j, w\ fivlai ” (1216
- 1217), a proposito voi due prendetemi il bischero nel mezzo, e tiratelo come
si deve o care.
Lamaco lamenta ancora vertigini e
capogiro per avere battuto la testa.
Diceopoli replica: “kajgw; kaqeuvdein
bouvlomai kai; stuvomai - kai; skotobiniw` ” (1220 - 1221) e io voglio andare
a letto, ce l’ho duro e non ci vedo dalla voglia di fottere
Seguono altri lamenti del guerrafondaio
e grida di giubilo dell’amante della pace, delle donne e del vino.
Il portavoce del coro, oramai del
tutto convito, sta dalla parte di Diceopoli ed esulta con lui (1233 - 1235).
Fine degli Acarnesi di Atristofane
Mie sono le traduzioni e miei i commenti.
Ne prendo la responsabilità “sanza tema d’infamia”.
giovanni ghiselli
[1] Cfr. Plutarco, Vita di Pericle, 38
[2] Specie di riassunti che risalgono
all'edizione di Aristofane di Bisanzio, non l'autore ovviamente ma un filologo,
prefetto della biblioteca di Alessandria, vissuto tra il 245 e il 168 a. C.
[3] Questo verso dell’Edipo
re di Sofocle fa parte di una breve ajntilabhv con uno scambio concitato di battute
polemiche tra Edipo e Creonte: Edipo invoca la città come fosse una donna amata
molto, poiché l'amante molto le ha dato. Egli l'ha salvata già una volta ed ora
sta mettendo a repentaglio la sua vita per salvarla di nuovo.
[4] P. P. Pasolini, Scritti corsari, p. 76
[5] Nel nome di Dioniso, p. 82
[6] 1984, p. 1, p. 47.
[7] 429 a. C.
[8] Caterina Barone (a cura di) Euripide Andromaca, p. 7.
[9] G. Orwell, 1984, parte Ii, cap. 3.
[10] La nascita della tragedia, cap. XIII
[11] Hegeliani e schopenhaueriani
[12] Del 1888.
[13] F. Nietzsche, Ecce homo, La nascita della tragedia, p. 49.
[14] Ecce homo, “Perché sono un destino”, 1
[15] Egli esordisce dicendo: questo si
chiama bussare per davvero! Se un uomo fosse portiere dell'inferno (if a man
were porter of hell - gate) avrebbe l'abitudine antica di girare la chiave
(II, 3). Non "possiamo fare a meno di sentire che nel far finta di essere
il portiere dell'inferno egli è terribilmente vicino alla verità" (Bradley,
op. cit. , p. 424).
[16] ijscnaivnw, termine
del lessico ippocrateo, come se la poesia di Eschilo, gonfia e malata, avesse
bisogno di cure
[17] Cfr. , Orazio Odi, I, 6, 6: "Pelidae stomachum cedere nescii ", l'ira di Achille incapace
di cedere) .
[18] A. Maddalena, Thucydidis
Historiarum Liber Primus, p. 61.
[19]"Creso come punto di
partenza", Canfora - Corcella, Lo
Spazio Letterario Della Grecia Antica, vol. I, tomo, I, p. 439.
[20] Domande di un lettore operaio, vv. 16 - 19,
da Poesie di Svendborg, 1939, , in
Brecht, Poesie, p. 157.
[21] Propendo per una datazione bassa, posteriore
al 415 a. C.
[22]Eschilo, Agamennone, vv. 434 - 437).
[23] Del 415 a. C.
[24] Del 412 a. C.
[25] Del 408 a. C.
[26]C. Wolf, Cassandra, p. 85.
[27] G. Giannelli, Le grandi correnti della storia antica, p. 101.
[28] Cfr. Alfieri, Antigone, V, 2, v. 76.
[29] Luca Canali, op. cit. , p. 61.
[30] L. Canfora, Esportare la libertà, p. 40 e p. 44.
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