martedì 12 ottobre 2021

Aristofane, "Gli Acarnesi". Completo

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Aristofane. Gli Acarnesi

Prima parte

 

Partiamo dagli Acarnesi (425): un dramma contro la guerra e i guerrafondai. Da qualche tempo Atene era afflitta da epidemie dovute, probabilmente, all'ammassarsi della popolazione rurale dentro le lunghe mura, in condizioni di stenti, mentre i nemici Peloponnesiaci occupavano e devastavano le campagne. Era la strategia di Pericle che in teoria avrebbe dovuto salvare vite umane lasciando solo gli alberi alla furia nemica[1], ma di fatto costò la vita a molti abitanti dell'Attica che tutte le estati veniva invasa dall'esercito del re spartano Archidamo. Nel 429 era morto lo stesso Pericle, il "re non coronato" della città dove "la bionda Armonia generò le nove Muse" per dirla con Euripide (Medea, 831 - 832).

 

 La visione di Aristofane è meno idealizzante di quella euripidea.

Intanto Pericle, il leader carismatico si direbbe adesso, capace di mantenere una certa concordia tra le classi e un discreto consenso degli intellettuali, era morto, nel settembre del 429, come tanti cittadini comuni, di peste. Il protagonista di questa prima commedia a noi pervenuta è un "certo Diceopoli" (significa il “cittadino giusto”, ed è un contadino) che non ne può più della guerra. Il dramma, ci informa il primo degli argomenti[2] "è di quelli fatti bene ed esorta in tutti i modi alla pace". Diceopoli dunque dichiara guerra alla guerra. Appena entrato in scena se la prende con Cleone, il demagogo più amato dal popolo e più odiato dai personaggi positivi di Aristofane. Ad Atene la gente chiacchiera parecchio: "eijrhvnh d j o{pw" - e[stai protimw's j oujdevn: w\ povli" povli"", ma perché avvenga la pace non c'è nessun pensier: o città o città"(26 - 27).

 

Nel tempo della democrazia ateniese, un periodo di passione politica, la povli", la comunità, viene prima, molto prima della famiglia.

Un analogo grido di doloroso amore per la polis si trova nel contesto tragico dell'Edipo re: " w| poli" povli" (v. 629[3]) .

 

E' interessante notare che i lutti e i guai della tragedia e della commedia sono gli stessi: peste, carestia, guerra.

 

Il contadino Diceopoli manifesta subito la predilezione della campagna e l'odio per la vita urbana (33) i cui valori supremi sono comprare e vendere.

“guardo verso la campagna, bramoso di pace - eijrhvnh" ejrw`n -

stugw`n me; n a[stu, to; n ejmo; n dh`mon poqw`n, odiando il centro della città, soffrendo la mancanza del mio villaggio

o]" oujdepwvpot ei\pen: a[nqraka" privw

 che mai disse: compra il carbone",

oujk o[xo", oujk e[laion, ouujd j h[/dei privw, né l'aceto, né l'olio, e nemmeno conosceva quel "compra”

ma era lui a produrre tutto e il comprare che taglieggia non c'era"(32 - 36).

 

Sono versi tornati attuali: qualche anno fa il regista Bernardo Bertolucci disse che andava a cercare valori in Oriente siccome in Occidente non c'è altro interesse che il vendere e il comprare.

“L’ansia del consumo è un’ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l’ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero: perché questo è l’ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui “deve” obbedire per non sentirsi diverso. Mai la diversità è stata una colpa così spaventosa come in questo periodo di tolleranza”[4].

 


Aristofane. Gli Acarnesi

Seconda parte

 

 

Diceopoli dunque lamenta un altro male aggiunto alla guerra: il mercato che uccide gli affetti.

 

Un disagio analogo viene manifestato da Ulrich protagonista del romanzo L'uomo senza qualità di Robert Musil: " La sua faccia, fino a quel momento ardente e severa, si spense, e l’insidioso pensiero favorito gli parve ridicolo. Come gettando uno sguardo fuori d'una finestra aperta di colpo, egli sentì quello che in realtà lo circondava; i cannoni, i commerci d'Europa"(p. 800).

 

Se è vero dunque che la commedia è legata più degli altri generi alla realtà contemporanea e che quella di Aristofane ci fa toccare con mano l'epoca storica nella quale è ambientata, è altresì innegabile che essa ci porta in una dimensione sovratemporale e universale dove possono riconoscersi gli uomini di tutti i tempi. Anzi in questi drammi, come vedremo, possiamo trovare alcuni elementi eternamente umani che nella poesia eroica e sublime, tragica o epica, non hanno diritto di cittadinanza.

 

Nel romanzo I Buddenbrook di Thomas Mann c’è un personaggio aristocratico che suscita l’interesse di Hanno Buddenbrook di famiglia borghese. “In complesso i rapporti del ragazzo con i suoi piccoli compagni erano lontani ed esteriori; soltanto a uno di loro, e fin dai primi giorni di scuola, lo stringeva un legame più saldo: era costui un ragazzo di nobile famiglia ma molto trascurato nel vestire, un certo conte Mölln, che con un nome frisone si chiamava Kai. Era un giovinetto della statura di Hanno, ma non portava come questi l’abito dei marinai danesi, bensì un misero vestito di colore indefinibile al quale mancava qualche bottone e che mostrava una gran toppa sul fondo dei calzoni”.

 Questo fanciullo viveva con il padre in “una piccola masseria, una minuscola proprietà quasi senza valore che non aveva neanche un nome. Vi si scorgeva un letamaio, un branco di polli, un canile e una povera casupola dal tetto rosso e spiovente. Era la casa padronale, in cui abitava il padre di Kai, il conte Eberhard Mölln (…) Molti rammentavano che per proteggersi dalle noie di richieste, offerte e accattonaggi aveva esposto da tempo sull’umile porta di casa un cartello che diceva: “Qui abita il conte Mölln. E’ solo, non ha bisogno di nulla, non compra nulla e non ha niente da regalare” (p. 331).

 

Diceopoli parla agli ambasciatori ateniesi tornati dalla Persia: costoro hanno approfittato della missione per farsi grandi mangiate e bevute. Si giustificano delle gozzoviglie dicendo

"poiché i barbari stimano uomini solo - a[ndra" hJgou`ntai movnou" - quelli capaci di mangiare e bere moltissimo"(plei`sta dunamevnou" fagei`n te kai; piei`n - 77 - 78).

Questa battuta offre il destro alla replica di Diceopoli:

"noi invece i prostituti e i rottinculo" (79).

 

Aristofane non risparmia le espressioni oscene e io non ritengo necessario né opportuno censurarle.

 

Valga di scusa anche per Aristofane l'apologia della Musa licenziosa di Catullo che si difende contrapponendo la pietas e la castitas della sua vita ai versiculi molliculi: "me ex versiculis meis putastis, /quod sunt molliculi, parum pudìcum. / Nam castum esse decet pium poetam/ipsum, versiculos nihil necessest " (16, 3 - 6), mi consideraste, dai miei versi leggeri, poiché sono lascivi, poco casto. In effetti si addice al pio poeta come persona essere puro, che lo siano i suoi teneri versi non è necessario.

 Su questa linea Marziale scriverà: "lasciva est nobis pagina, vita proba " (I, 4, 8), la mia pagina è licenziosa, la vita onesta.

 

In Aristofane non manca nemmeno la coprolalia o scatologia: l’Ambasciatore racconta che quando la delegazione ateniese giunse alla reggia, il re era andato nella latrina con l’intero esercito e cacò per otto mesi in pitali d’oro (80 - 82). Credo che questo linguaggio estraneo alla tragedia fosse gradito al pubblico intristito dai drammi che grondano sangue.

Quando si alzò dal cesso il re fece imbandire pe i delegati o{lou" bou`" (85 - 86) buoi interi, poi un uccello grande tre volte Cleonimo, di nome fevnax, imbroglione.

 

Aristofane menziona nei suoi drammi personaggi noti al pubblico ateniese e generalmente famigerati. Questo era reputato vigliacco, ghiottone e fanfarone. Sono le berline che fino a non molti anni fa si praticavano in molti paesi contro le persone mal reputate. Allora si poteva girare con la pistola in tasca per sparare ai disgraziati: ci si limitava a motteggiarli.

Diceopoli rinfaccia all’ambasciatore le due dracme intascate per la missione. I conservatori non approvavano la misqoforiva come abbiamo già detto ricordando la critica di Callicle nel Gorgia di Platone.

 

 L’Ambasciatore fa entrare "l'occhio del re" (to; n basilevw" ojfqalmovn, 94) il quale era un altissimo dignitario della corte persiana che Aristofane raffigura, attraverso le parole di Diceopoli (vv. 95 - 97), prendendo alla lettera la metafora e dandole corpo con una figura che sta a metà tra il mascherone carnevalesco e la materializzazione di un sogno.

 

"Esso - scrive U. Albini - è dotato, per vedere, di un unico tondo oblò nel centro del volto e procede fluttuando come un vascello"[5].

 

Diceopoli si rivolge questo strano personaggio Pseudartabas, il falso persiano (ajrtavbh è una misura persiana), dicendogli che guarda come una nave da guerra.

Diceopoli non crede che i Persiani porteranno la pace tra i Greci.

In effetti anni dopo aiuteranno gli Spartani a vincere la guerra del Peloponneso.

L’ Ambasciatore vuole dare a intendere che questo personaggio surreale, il quale parla una lingua incomprensibile, prometta oro agli Ateniesi da parte del re, ma Diceopoli capisce l'inganno: vede che il falso persiano e i due eunuchi che lo accompagnano sono famigerati cittadini di Atene travestiti.

Riconosce Clistene un noto omosessuale: o tu rasato nel focoso culo gli fa - w\ qermovboulon prwkto; n exurhmevne (119), vieni qui con una barba da scimmia vestito da eunuco? L’altro è Stratone, suo degno compagno di merende. Sono entrambi nominati anche nei Cavalieri.

 

L’araldo invita questi pseudo persiani nel Pritaneo dove venivano ospitati gli ambasciatori e i cittadini benemeriti.

Diceopoli protesta, poi si rivolge a un altro pacifista, Anfiteo che precedentemente aveva detto di volere recarsi a Sparta per patteggiare la tregua ma i pritani non gli hanno dati i mezzi per il viaggio - ejfodi’ ouk e[cw: ouj ga; r didovasin oiJ prutavnei" (53 - 54).

 

I Pritani erano i 50 presidenti della Boulhv per una decima parte dell’anno

 

Nell’antica Atene, i 50 consiglieri (buleuti) in carica durante una pritania, periodo di tempo equivalente alla decima parte dell’anno essendo la bulè, o consiglio ateniese, diviso in 10 sezioni corrispondenti alle 10 tribù che detenevano il potere a turno. Almeno un terzo di essi doveva sedere in permanenza nel pritaneo, l’edificio in cui si custodiva il fuoco sacro di Estia e che, in età storica, accoglieva a banchetto gli ambasciatori stranieri e i cittadini ritenuti degni di questo onore, e ospitava a vita i benemeriti o i discendenti di personaggi verso i quali la città aveva alti debiti di riconoscenza. I pritani avevano a capo un epistate (presidente) designato a sorte, che durava in carica da un tramonto al tramonto seguente e che per quel tempo era il capo dello Stato: presiedeva il consiglio dei 500 e l’assemblea popolare in caso di convocazione; era depositario del sigillo di Stato e della chiave dei templi dove era il tesoro pubblico.

 

Il governo dunque non vuole porre termine alla guerra e i pacifisti devono agire per conto proprio

 

Anfiteo riceve otto dramme da Diceopoli che lo manda a Sparta con questo viatico perché faccia con gli Spartani una tregua che preservi dalla guerra lo stesso cittadino giusto con la moglie e i figli.


 

Aristofane, Acarnesi

terza parte

 

Entra Teoro ambasciatore in Tracia, una creatura di Cleone. Diceopoli lo squalifca come ajlazwvn (135), un fanfarone, un gloriosus.

Quindi il cittadino aggiunge che questo mistificatore ha preso misqo; n poluvn, una grossa indennità.

Teoro si giustifica dicendo che si è trattenuto a lungo in Tracia a causa della neve che ha gelato i fiumi.

Poi racconta che beveva con Sitalce principe dei Traci alleato degli Ateniesi. Li amava al punto che scriveva sui muri jAqhnai`oi kaloiv (144), viva gli Ateniesi!

Il figlio lo spingeva a mandare un esercito. E il padre libando agli dèi giurò che avrebbe mandato schiere tanto grandi da far esclamare agli alleati “che gran numero di cavallette arriva!” (150)

Aristofane fa spesso seguire a una prima affermazione una seconda che ne stravolge ironicamente il significato.

Segnalo la crescita della presenza degli animali nelle metafore rispetto alla tragedia.

Il fatto è che i cittadini si stanno imbestiando.

 

L’araldo fa entrare i Traci. Teoro dice che sono Odomanti.

Probabilmente Giudei perché Diceopoli domanda: “chi sbucciò il bischero a costoro? ”

Dovrebbe trattarsi di circoncisione e non certo quella del cuore raccomandata da Paolo.

Teoro propone di dare un misqovn di due dracme a questi traci ma Diceopoli confronta la paga di questi “scappellati” con quells del popolo dei rematori, quello che salva la città. - oj qranivth" lewv" - o swsivpoli" (162 - 163).

 

Nella Costituzione degli Ateniesi pseudosenofontea, scritta da un pubblicista di parte oligarchica, il dialogante A biasima la democrazia come prepotenza del popolo, e sostiene che essa è la conseguenza dell’impero marittimo: i poveri e il popolo contano più dei nobili e dei ricchi logicamente, siccome è il popolo che fa andare le navi o{ti oJ dh'mo; ~ ejstin oJ ejlauvnwn ta; ~ nau'~ (1, 2), assicurando potenza alla città.

Invero la paga dei rematori non era alta, doveva essere inferiore ai quattro oboli, forse anche a tre.

 Tanto è vero che il navarca spartano Lisandro vinse il comandante ateniese Antioco nella battaglia di Nozio del 407 usando il denaro ricevuto da Ciro il Giovane per alzare la paga dei rematori a 4 oboli e attirare così rematori ateniesi.

Ciro domandò a Lisandro quale fosse il favore più grande che poteva fargli e lo Spartano rispose: “portare la paga dei marinai da tre a quatto oboli” (Senofonte, Elleniche, I, 7).

 

Diceopoli dunque si oppone al soldo dei Traci

Escono tutti tranne il cittadino giusto.

Torna Anfiteo: cair j, jAmfivqeo" lo saluta Diceopoli (176)

Anfiteo ha l’affanno perché è dovuto fuggire per salvarsi dagli Acarnesi.

 Sono vecchi cittadini del sobborgo di Acarne, situato qualche chilometro a nord di Atene e costituiscono il coro.

Anfiteo li descrive come "duri Maratonomachi di legno d'acero"(181) nostalgici del buon tempo antico della prima guerra persiana nella quale hanno valorosamente contribuito alla vittoria ateniese.

Costoro dunque hanno aggredito il messaggero di pace:

"allora tutti a gridare: o maledettissimo,

tu porti la tregua, mentre ci sono state tagliate le viti? "(sponda; " fevrei", tw`n ajmevlwn tetmhmevnwn; 181 - 182). Poi si sono riempiti i mantelli di pietre per tirargliele addosso.

C'è da anticipare che questo atteggiamento collerico lo ritroveremo nel vecchio Misantropo (Dyscolos) di Menandro che, pure lui esacerbato, chiama maledetto chiunque gli si avvicini e gli tira in faccia zolle di terra (vv. 108 - 111). E' l'eterno tema dell'anziano disadattato rispetto a una società cambiata che i commediografi del resto non guardano con simpatia: e se Menandro attraverso i personaggi positivi raccomanda la comprensione tra tutti gli umani, Aristofane irride i cretini e denuncia i furbi che traggono profitto dalla dabbenaggine o dalla buona fede del popolo il quale, privo di guide oneste, corre verso la rovina morale e materiale. Secondo alcuni, questo poeta è un reazionario dogmatico, secondo altri, solo, o soprattutto, un pagliaccio che intende fare ridere; a parer mio è pure un moralista che castiga ridendo i costumi.

 

Le viti tagliate sono conseguenza della fase archidamica della guerra. Dal 431 gli Spartani e i loro alleati invadevano l’Attica sotto il comando del re Archidamo appunto e devastavano il paese fino al demo di Acarne provocando così gli Ateniesi a uscire in campo aperto.

 A Pericle però parve terribile - deino; n ejfaivneto dare battaglia a 60 mila opliti peloponnesiaci e beoti - tanti erano nell’anno della prima invasione - . Molti ateniesi volevano combattere per salvare le viti appunto, cioè la campagna dalla devastazione e i raccolti, ma Pericle cercava di calmarli dicendo che gli alberi potati e tagliati ricrescono in breve tempo - levgwn wJ" devndra me; n tmhqevnta kai; kopevnta fuvetai tacevw" - mentre gli uomini una volta morti non è facile che ci siano più (Plutarco, Vita di Pericle, 33, 5)

 

 Anfiteo è comunque riuscito a portare tre assaggi (triva geuvmata v. 187) di tregua, che poi sono tre ampolle: una di validità quinquennale, una decennale ed una trentennale.

Diceopoli naturalmente sceglie la terza il cui gusto, entrato in bocca, dice: bai`n j o{ph/ j qevlei" (198) va’ dove vuoi

Sicché ora io liberato dalla guerra e dai mali – ejgw; de; polevmou kai; kakw`n ajpallageiv" 201 - me ne torno a casa a celebrare le Dionisie agresti.

 


Aristofane Acarnesi

quarta parte

 

Anfiteo dice che scapperà davanti agli Acarnesi (203)

Con il verso 204 inizia la Parodo: il coro entra di corsa nell’orchestra inseguendo il pacifista che ha portato la tregua.

 i vecchi carbonai lamentano il passare degli anni e rimpiangono il tempo quando anche con un peso di carboni tenevano dietro a Faillo di Crotone tre volte vincitore dei giochi pitici e comandante di una nave a Salamina.

 

In quel tempo il latore di tregue non se la sarebbe svignata tanto lestamente.

 

Oramai però - canta il coro - il mio stinco è duro - sterro; n h[dh toujmo; n ajntiknhmion (219), la gamba si è appesantita - to; skevlo" baruvnetai (220) e colui è fuggito. Tuttavia bisogna inseguirlo - diwktevo" dev (221)

 

Nel secondo stasimo dell’Eracle di Euripide c’è un biasimo della vecchiaia che grava sul capo dei vecchi coreuti, compagni d'armi di Anfitrione, come un carico più pesante delle rupi dell'Etna ("to; de; gh'ra" a[cqo" - baruvteron Ai[tna" skopevlwn - ejpi; krati; kei'tai" (vv. 638 - 640).

La giovinezza invece è bellissima pure nella povertà (v. 648).

 

“Se gli dèi avessero intelligenza e sapienza riguardo agli uomini donerebbero una doppia giovinezza come segno evidente di virtù a quanti la posseggono, e una volta morti, di nuovo nella luce del sole, percorrerebbero una seconda corsa, mentre la gente ignobile avrebbe una sola possibilità di vita” (Eracle, vv. 661 - 669).

 

 Nel Miles gloriosus di Plauto si trova un locus similis: "itidem divos dispertisse vitam humanam aequom fuit: qui lepide ingeniatus esset, vitam ei longiquam darent, qui inprobi essent et scelesti, is adimerent animam cito" (vv. 730 - 732), parimenti sarebbe stato giusto che gli dèi distribuissero la vita umana: a colui che avesse un carattere amabile, dovrebbero dare una vita lunga, a quelli che fossero cattivi e scellerati, portargliela via presto. E’ Palestrione il servo del soldato che parla.

 

In effetti chi rispetta il prossimo parte dal rispetto di se stesso, quello della mente e quello del corpo e se confrontiamo questo con chi non si rispetta vediamo che il primo gode davvero di una doppia o anche tripla giovinezza rispetto a chi maltratta il proprio corpo e la propria mente.

 

Il pacifista inseguito dai vecchi fautori della guerra è accusato di essere venuto a patti con i nemici (toi`sin ejcqroi`sin ejspeivsato (225).

Quelli che hanno devastato i campi sono i nemici appunto: perciò devono essere combattuti implacabilmente con le armi, non richiesti di venire a patti (226 - 233).

 

I coreuti, in buona fede, sono stati ingannati dalla propaganda guerrafondaia dei demagoghi che, al pari del Grande Fratello di Orwell[6] inculcava odio per il nemico.

 Lo fa persino il "progressista" Euripide: nell’Andromaca, per esempio, semina odio conto gli Spartani.

Tipi odiosi sono gli Spartani, in diverse tragedie di Euripide, soprattutto nell'Andromaca che risale ai primi anni della grande guerra del Peloponneso[7], ed è un concentrato di malevolenza e maldicenza antispartana. “Gli attacchi contro Sparta (…) a parere di molti la rendono una sorta di pamplhet politico”[8].

La stessa protagonista lancia un anatema contro la genìa dei signori del Peloponneso, chiamati yeudw'n a[nakte~: " o i più odiosi (e[cqistoi) tra i mortali per tutti gli uomini, abitanti di Sparta, consiglieri fraudolenti, signori di menzogne, tessitori di mali, che pensate a raggiri e a nulla di retto, ma tutto tortuosamente, senza giustizia avete successo per la Grecia (Andromaca, vv. 445 - 449).

 

Il corifeo propone di inseguire il pacifista di terra in terra - diwvkein gh`n po; gh`" (Acarnesi, 235). “io non mi sazierei mai di prenderlo a sassate” aggiunge (236)

Diceopoli intima il silenzio rituale - eujfhmei`te - 237 perché vuole celebrare in famiglia la processione sacra delle dionisie agresti. I coreuti si appostano per catturarlo.

Dalla casa del cittadino giusto escono la figlia come canefora, ossia portatrice del canestro - kavneon - con le offerte del sacrificio, mentre Xantia deve inalberare ritto il fallo" (oJ Xanqiva" to; n favllon orqo; n sthvsato, 243).

L’amore insomma invece della guerra.

 

In 1984 di Orwell leggiamo che l’amore per la guerra come l’adorazione dei capi, è tutto sesso andato a male, che diventa acido (“is simply sex gone sour[9])

 

Diceopoli dunque avvia quella processione con canti fallici dalla quale secondo Aristotele (Poetica 1449a) ebbe origine la commedia. Il culto di una religione che esalta la gioia e la vitalità costituisce un'antitesi a quell'adorazione della morte che è la guerra.

Torna a proposito un altro nesso con 1984: "La ragazza bruna veniva verso di lui attraverso i campi. Con un'unica mossa, o che almeno parve tale, si strappò di dosso tutti i vestiti e li gettò sdegnosamente lontano da sé. . . La grazia di quel gesto, e insieme la sua noncuranza, sembrava che quasi annullassero un'intera cultura, un intero sistema filosofico, proprio come se il Grande Fratello e il Partito e la Psicopolizia potessero essere ridotti a nulla da un unico splendido movimento delle braccia. (p. 35)… Era quella la forza che avrebbe ridotto il partito in frantumi (134). Viceversa "Il partito cercava con ogni mezzo di annullare l'istinto sessuale, ovvero, nel caso in cui non fosse riuscito ad annullarlo, di pervertirlo e insudiciarlo" (p. 70).

 

L'esaltazione dell'istinto non appartiene specificamente ai temi della tragedia, sebbene Sofocle non poche volte rappresenti i supplici di Tebe sconciata da carestia e peste in atto di chiedere agli dèi di "raddrizzare" la città in tutti i sensi, mentre è uno dei motivi centrali della commedia aristofanesca che per questo aspetto costituisce l'antitesi di quel Socrate platonico il quale affermava che il suo demone lo tratteneva sempre, non lo incitava mai (Apologia, 31d).

E' quest'affermazione a spingere Nietzsche ad attribuire germi di decadenza al maestro di Platone, uno dei responsabili di quel depotenziamento del turgore vitale iniziato con la morte di Pericle.

Socrate infatti è obiettivo polemico tanto di Aristofane quanto di Nietzsche.

Socrate è visto da Nietzsche come il nemico dell’istinto, o come un individuo dall’istinto rovesciato: “Mentre in tutti gli uomini produttivi l’istinto è proprio la forza creativa e affermativa, e la coscienza si comporta in maniera critica e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma in un critico, la coscienza in una creatrice - una vera mostruosità per defectum! Più precisamente noi scorgiamo qui un mostruoso defectus di ogni disposizione mistica, sicché Socrate sarebbe da definire come l’individuo specificamente non mistico, in cui la natura logica, per una superfetazione, è sviluppata in modo tanto eccessivo quanto lo è quella sapienza istintiva nel mistico”[10].

Quest’idea non verrà rinnegata più avanti da Nietzsche come altri aspetti[11] di questo scritto giovanile. In Ecce homo[12] il filosofo ne rivendica le due “innovazioni decisive: intanto la comprensione del fenomeno dionisiaco fra i Greci - il libro ne dà la prima psicologia, vedendo in esso la radice una di tutta l’arte greca.

L’altra è la comprensione del socratismo: Socrate come strumento della disgregazione greca, riconosciuto per la prima volta come tipico décadent. “Razionalità” contro istinto. La “razionalità” a ogni costo come violenza pericolosa che mina la vita!”[13].

In Ecce homo “quasi alla fine della sua vita lucida, Nietzsche scrive: “Io non sono un uomo, sono dinamite”[14].

Una chiave per spiegare la natura di Socrate ci viene data dal fenomeno del suo demone, una voce che lo dissuadeva sempre.

Cfr. Apologia 31 dove Socrate dice che in lui c’è qei`ovn ti kai; daimovnion, una voce –fwnhv ti~ - che quando si manifesta ajei; ajpotrevpei me, mi distoglie sempre da quello che sto per fare, protrevpei de; ou[pote, mentre non mi spinge mai.

Questo mi impedisce di occuparmi di politica.

 

Negli uomini produttivi l’istinto è la forza creativa e affermativa e la coscienza è la parte critica e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma in un critico, la coscienza in creatrice, una vera mostruosità per defectum!

L’influenza di Socrate dissolveva gli istinti. Socrate provocò la propria condanna a morte e le andò incontro con quella stessa calma con cui si allontanò dal simposio per ultimo (Simposio 223 c - d).

Platone si gettò ai piedi dell’immagine di Socrate morente.

 

La figlia di Diceopoli di occupa del cibo chiedendo alla madre il ramaiolo ejtnhvrusin (245). Le donne sono ostili alla guerra come vedremo bene nella Lisistrata una commedia dedicata tutta a questo argomento.


Aristofane, Acarnesi

quinta parte

 

 Diceopoli continua a "celebrare felicemente le Dionisie agresti liberatosi dal servizio militare"(Acarnesi, 250 - 251) grazie alla tregua trentennale.

Alla figlia chiede di reggere il canestro - to; kanou`n - 253 con faccia seria, ma tale serietà è subito contraddetta dall’augurio alla ragazza di un beato pretendente - makavrio" 254 - che la prenderà in moglie e le farà fare dei gattini che scorreggino all’alba non meno di te.

 

Il matrimonio non è una cosa seria in Aristofane che spesso lo ridicolizza mentre Euripide lo tragicizza, il Socrate di Platone non se ne cura. Senofonte invece gli attribuisce una certa importanza, poi anche Menandro nella Commedia nuova. Eschilo lo presenta grondante sangue in una guerra tra i sessi, Sofocle lo fa apparire meno vincolante dei legami di sangue o pure contratto fra consanguinei per errore, sempre con esiti catastrofici.

Il fatto è che in una democrazia seguita direttamente dal popolo la vita pubblica prevale su quella familiare.

Questa verrà fatta scomparire del tutto da Platone per quanto riguarda le due classi più altre.

 

Diceopoli ricorda ancora una volta al servo Xantia il compito di tener dritto il fallo cui egli stesso che dirige la festa può indirizzare un canto gioioso grazie alla tregua privata che lo ha liberato da "guerre e da Lamachi"(vv. 269 - 270).

 

Lamaco era uno stratego e secondo Aristofane uno dei guerrafondai. Sarà uno dei capi della spedizione in Sicilia dove perderà la vita, nel 414.

 

Diceopoli canta rivolgendosi al fallo personificato in Falh`", compagno di Bacco (263). Il vino favorisce l’amore dirà il protsgonista dell’Asino d’oro di Apuleio.

Il curiosus Lucio, preparandosi a un incontro amoroso con l'ancella Fotide, ricevuta in dono un'anfora di prezioso vino invecchiato, vini cadum in aetate pretiosi, invita l'amante a bere insieme il liquido di Bacco elogiandolo come il miglior viatico per percorrere una lunga rotta sulla barca di Venere: "Ecce - inquam, - Veneris hortator et armĭger Liber advenit ultro! Vinum istud hodie sorbamus omne, quod nobis restinguat pudoris ignaviam et alacrem vigorem libidinis incutiat. Hac enim sitarchĭa navigium Veneris indĭget sola, ut in nocte pervigili et oleo lucerna et vino calix abundet " (II, 11), ecco, dico, che stimolatore e armigero di Venere arriva Libero spontaneamente ! Beviamocelo tutto oggi questo vino che spenga in noi la viltà del pudore e susciti un focoso vigore di libidine. In effetti la barca di Venere ha bisogno soltanto di questo approvvigionamento in modo che, durante la notte di veglia, la lucerna sia piena d'olio e la coppa di vino.

 

Però non bisogna berne troppo.

Il portiere del castello di Macbeth, una specie di portiere dell'inferno come ipotizza di essere con ironia sofoclea[15], disquisisce, intorno agli effetti del bere sulla libidine: la provoca e la disfa; provoca il desiderio ma ne porta via l'esecuzione. " Therefore, much drink may be said to be an equivocator with lechery ", perciò bere molto si può denominare colui che rende equivoca la lascivia: la crea e la distrugge; la spinge innanzi e la tira indietro; la persuade e la scoraggia; "makes him stand to, and not stand to", la mette in piedi e non la tiene su, insomma la equivoca col sonno e dandole una smentita la pianta (Shakespeare, Macbeth, II, 3).

 

Diceopoli continua a cantare ringraziando Falh`" che gli fa incontrare la fiorente (wjrikhvn) serva tracia di Strimodoro qundo torna dalla petraia con legna rubata e lo ispira a sollevarla, poi gettarla a terra e deflorarla.

La violenza della guerra ha contaminato anche l’atto sessuale, pure se questo è molto più dolce - pollw`/ h{dion - 271 a detta di Diceopoli. Non lo condivido ma non censuro i testi.

Falh`" è invitato a bere una coppa di pace mentre lo scudo sarà appeso sopra la brace,

Lo scudo ha avuto uno spazio non piccolo nella letteratura antica - cfr. Archiloco e Tacito (Germania)

 

Il rapporto amichevole con il fallo è tipico delle vitalità esuberanti e ottimistiche reperibili, almeno in letteratura, solo nei momenti di relativo ottimismo come questo dovuto alla pace stipulata: infatti nel Satyricon che secondo Huysmans "dipinge in una lingua da orafo i vizi d' una civiltà decrepita" (A ritroso, p. 45) il protagonista Encolpio, colpito da paralisi sessuale, cerca di punire il pene "contumace" con un'invettiva che inizia con queste parole: "quid dicis. . . omnium hominum deorumque pudor? ", cosa ne dici, vergogna degli uomini e degli dèi? (132).

 

Inizia un amebeo con versi recitati alternatamente

 Diceopoli viene rintracciato dal coro degli Acarnesi i quali entrano in scena inferociti e si esortano a vicenda per dargli una lezione:

"dagli dagli dagli dagli, bavlle bavlle bavlle bavlle - colpisci colpisci il maledetto" (pai'e pai'e to; n miarovn - ouj balei'ς, ouj balei'ς; 281 - 283), facendo uso di una paratassi che ricorda quella ossessiva delle Erinni di Eschilo (labev, labev, labev, fravzon, Eumenidi vv. 130 sgg.).

Diceopoli domanda quale sia l’accusa e gli Acarnesi gli danno dell’infame, svergognato e traditore della patria - w\ prodovta th`" patrivdo" (290)

Per fortuna i coreuti sono vecchi, e Diceopoli riesce a chiedere la parola. Gli anziani non gli tirano le pietre, però manifestano in ogni caso impazienza e odio, ancora più sentito di quello che provano nei confronti di Cleone, il demagogo di cui vogliono fare "suole da scarpe per i cavalieri"(301).

Con questo verso è preannunciata la commedia dell'anno successivo, i Cavalieri appunto, che avrà come bersaglio polemico il beniamino del popolo detestato dalla classe abbiente.

Negli Acarnesi intanto ferve una discussione polemica tra il coro e Diceopoli il quale prova a sostenere che i nemici Spartani non sono causa di tutti i nostri mali né hanno sempre inflitto ingiustizia ma l'hanno anche subita (314).

Questa obiettività cavalleresca nei confronti del nemico deriva dall'epica omerica e prosegue nella storiografia di Erodoto che nel proemio delle sue Storie si propone di raccontare "le imprese grandi e meravigliose messe in luce alcune dagli Elleni altre dai barbari".

 

L’obiettività nei confronti degli Spartani per fare un solo esempio è assente dall’Andromaca di Euripide. Non manca nella Storia di Tucidide che tuttavia non la conserva per il nemico interno, il nemico di classe, cioè Cleone che viene maltrattato e calunniato quanto da Aristofane e con maggiore serietà.

 

Ma i semplici Acarnesi, manipolati dalla propaganda guerrafondaia non sono obiettivi e non sopportano le parole spese per difendere il nemico, al punto che minacciano di morte Diceopoli (324) il quale prova a difendersi affermando di avere in mano degli ostaggi e controminacciando di uccidere questi (327). In realtà l'ostaggio è un cesto pieno di carbone, ma questo per i carbonai di Acarne equivale a un tesoro in pericolo di vita: sicché accettano di ascoltare le ragioni pacifiste di Diceopoli.

Il cittadino giusto premette chr ha paura di parlare in favore dei Lacedemoni perché conosce il carattere delle persone gossolane: godono se un impostore elogia loro e la città e nello stesso tempo non si accorgono di essere trattati come merce - kajntau`qa lanqavnous ’ apempolwvmenoi (374).

 

Così veniamo trattati tutti noi dalla pubblicità ubiqua e da altre ingannevoli propagande che vogliono annientare il nostro pensiero critico e soffocare la nostra umanità.

Con questi miei scritti, le mie conferenze e i miei corsi, cerco di tenere vivo e desto lo spirito critico insegnando a chi mi legge e ascolta a non lasciarsi trattare come merce.

 

I vecchi, aggiunge Diceopoli, non badano ad altro che a mordere con il loro voto - oujde; n blevpousin a[llo plh; n yhfhdakei`n (376). Questo mordere o pungere dei vecchi con il voto sarà raccontato e messo in ridicolo nella commedia le Vespe (del 422) che vedremo più avanti

 

 Il protagonista quindi si rivolge al pubblico identificandosi con l'autore della commedia e ricordando i rischi corsi l'anno prima (426) per i Babilonesi quando Cleone "mi trascinò in tribunale" (m j eij" to; bouleuthvrion - dievballe, 379 - 380); ora, prima di parlare, chiede il permesso di vestirsi nel modo più pietoso (384) per suscitare compassione e limitare il pericolo.

Il coro gli dà il permesso di vestirsi come preferisce.

 

Sicché Diceopoli decide che deve andare da Euripide per farsi dare gli stracci con i quali presenta sulla scena i suoi personaggi pezzenti - kai; moi badiste j ejsti; n wJ" Eujripivdhn - 394


Aristofane Acarnesi

sesta parte

 

Per trovare gli stracci, bisogna andare dal poeta creatore di pezzenti: dunque Diceopoli si reca a casa del drammaturgo creatore di straccioni e lo chiama vezzeggiandolo anche un poco: "Euripide, Euripidino!" (Eujripivdh, Eujripivdion, v. 404).

Euripide in più di una commedia di Aristofane viene accusato di avere presentato al pubblico nei suoi drammi esemplari umani negativi: uomini ordinari e donne sgualdrine.

 Questa critica verrà ripresa da A. W. Schlegel e approfondita da Nietzsche in La nascita della tragedia (1872) sulla quale torneremo.

 

 Il tragediografo dunque appare su un palco raffigurato da una macchina teatrale chiamata ejkkuvklhma, una piattaforma che scorreva su ruote e rappresentava gli interni.

Qui negli Acarnesi compaiono anche diversi cenci: i costumi di alcuni personaggi euripidei. Diceopoli dunque rivolge la sua richiesta al drammaturgo non senza rivolgergli la critica che diverrà più seria nelle Rane:

"Tu crei sospeso per aria mentre potresti farlo

 stando a terra: non è un caso che crei degli zoppi. (cwlou; ς poei'ς)

Allora perché tieni i cenci della tragedia,

le vesti da far compassione? Non è un caso che crei i pezzenti. ptwcou; ς poei'ς

Ma ti supplico per le tue ginocchia, Euripide,

dammi qualche straccio dell'antica tragedia. dovς moi rJakiovn ti tou' palaiou' dravmatoς (415)

Infatti io devo fare davanti al coro un lungo discorso

che mi porta la morte se parlo male"(410 - 417).

Euripide ha creato una folla di antieroi storpi e mendicanti, e Diceopoli ne nomina alcuni: Eneo, Fenice, Filottete, Bellerofonte lo zoppo (oJ cwlov", 427) e Telefo, lo straccione ferito, il più malridotto, del quale appunto viene scelto il costume (430). Era questo un re di Misia il quale venne ferito dalla lancia di Achille che sola poteva guarirlo: per avere il tocco risanatore Telefo si recò alla corte di Argo travestito da mendicante, si impadronì di Oreste e minacciò di sgozzarlo se Agamennone non lo avesse aiutato facendolo guarire dalla stessa lancia che lo aveva ferito.

Diceopoli dunque si traveste ed espone il suo piano: i coreuti non devono capire più niente perché io li possa beffare con delle frasette.

Con queste parole Aristofane lancia un’accusa contro Euripide che sarebbe uno dei poeti mistificatori.

 

Nelle Rane il personaggio Eschilo si rivolge a Euripide chiamandolo “collezionatore di ciarle (stwmuliva), ptwcopoiev creatore di pezzenti, rattoppatore di cenci. Inoltre cwlopoiovς, creatore di storpi che per giunta fa l’insolente (vv. 841 - 843)

Eschilo poi chiede a Euripide che cosa abbia scritto lui di buono e l’avversario risponde: non ippogalli né caprocervi (iJppalektruovnaς, tragelavfouς), ma come ricevetti la tua arte gonfia tevcnhn oijdou'san, di smargiasserie e parole pesanti, i[scnana[16] me; n prwvtiston aujthvn, l’ho snellita subito e le ho tolto pesantezza (kai; to; bavroς ajfei'lon) con paroline e raggiri (ejpullivoiς kai; peripavtoiς (Rane, 939 - 942).

 

Tra i poeti mistificatori personalmente metto tutti quelli che scrivono in maniera incompensibile per il popolo e perfino per chi ha un’educazione accademica. Eppure tra costoro c’è pure chi ha avuto il premio Nobel. Bene fece Sartre a rifiutarlo.

 

Euripide che è il creatore della sottigliezza, oltre che della straccioneria lo asseconda:

"te lo darò: infatti macchini trame sottili con mente accorta"(dwvsw: puknh`/ ga; r lepta; mhcana`/ freniv, 445).

Questo non è sempre un difetto: deficit peggiore è la mente grossolana di chi macchina imbrogli colossali.

 

Diceopoli prende tutta l'attrezzatura da mendicante, poi, prima di andarsene, infila una battuta sulla umiltà del mestiere della madre di Euripide, Cleitò, che avrebbe fatto l'erbivendola:

"Euripiduccio dolcissimo e carissimo,

possa morire nella maniera peggiore, se ti chiederò ancora qualche cosa,

tranne una soltanto, questa soltanto:

dammi il cerfoglio che ti ha lasciato la mamma!"(475 - 479) skandikav moi dovs (skavndix hJ).

Euripide si offende:

"Quest'uomo mi oltraggia. Chiudi i serrami della casa"(479) dice al servo e Diceopoli si allontana con tragica disperazione dicendo:

"O cuore, bisogna andarsene senza il cerfoglio!"(480) ajjneu skavndikoς.

Quindi si appresta ad affrontare l'agone con il coro.


 

Aristofane Acarnesi

settima parte

 

Inizia l’Agone tra il Coro e Diceopoli

Gli Acarnesi invitano il cittadino giusto a parlare chiamandolo ajnaivscunto" sidhrou`" t j ajnhvr (491) uomo impudente e di ferro. Tu che vuoi da solo dire il contrario di quello di tutti gli altri - a[pasi mevllei" ei\" levgein tajnantiva -

Aristofane si presenta come Leopardi, dirò quello che penso: “ben ch’io sappia che obblio - preme chi troppo all’età popria increbbe” (La ginestra, 68 - 69).

I carbonai di Acarne riconoscono comunque del coraggio a Diceopoli - Aristofane: “ajnh; r ouj trevmei to; pra`gmm j”, costui non trema davanti all’impresa.

Andare contro l’opinione dei più, cioè i luoghi comuni è davvero percoloso. Si perde molto in termini di rispettabilità da parte dei più.

 

Diceopoli a questo punto identificandosi ancora con Aristofane, si rivolge agli spettatori - a[ndre" oiJ qewvmenoi 496 e si presenta come ptwcov", il mendicante dell’ascolto da parte del pubblico, quindi premette che anche la commedia chiamata trugw/diva il canto della feccia –truvx - parodia di tragwdiva - conosce ciò che è giusto, e lui dunque l’autore dirà"cose spiacevoli ma giuste"(ejgw; de; lexw deina; mevn, divkaia dev, 501).

Aristofane sa che quanto è piacevole per i più, spesso non è giusto.

Aggiunge che Cleone non potrà calunniarlo e trascinarlo un'altra volta in giudizio poiché

"siamo soli per il concorso Leneo,

e non ci sono ancora i forestieri" (504 - 505),

Le feste Lenèe avvenivano a fine gennaio: ai concorsi prevalentemente comici gli alleati non potevano intervenire a causa della stagione.

Erano presenti invece al concorso primaverile delle grandi Dionisie quando vennero rappresentati i Babilonesi.

 Non siamo mescolati. I meteci vengono chiamati sono “la pula dei cittadini”, e non mi è chiaro se fossero presenti solo come pula o non ci fossero proprio.

Diceopoli aggiunge che non ama i Lacedemoni; anzi li odio molto (de; misw` sfodra, 509): anche le mie vigne infatti sono state tagliate (512). Il vino come si è detto è il viatico della gioia e dell’amore e il taglio delle vigne è quasi una metafora della castrazione.

 

Eziologia della guerra Aristofane, Erodoto e Tucidide.

 

Tuttavia la guerra non è scoppiata per causa dei Lacedemoni.

Ci fu un primo boicottaggio della merce di Megara che veniva sequestrata da parte di

 "omiciattoli - ajndravria - mascalzoni, contraffatti, disonorati, falsificati, mezzi stranieri"(517 - 518).

 

Aristofane se la prende spesso con quelli che considera falsi cittadini ateniesi

Nelle Rane il corifeo dirà con rammarico: noi disprezziamo (prouselou'men) i cittadini educati, i galantuomini allevati nelle palestre e nei cori trafevntaς ejn palaivstraiς kai; coroi'ς (cfr. l’educazione fatta di ginnastica e musica nella Repubblica di Platone), mentre ci serviamo per ogni uso di queste facce di rame, stranieri rossi di pelo - toi'" de; calkoi'" kai; xevnoi" kai; purrivai" - crwvmeqa, 730 - 731, farabutti discendenti da farabutti, ultimi arrivati che prima la città non avrebbe usato nemmeno come farmakoiv.

Ora dunque ravvedetevi.

 

Farmakovς era il mostro cacciato da Atene per espellere il guazzabuglio umano. Avveniva in maggio, il giorno della festa dell’eijresiwvnh durante le Targelie, celebrate per Apollo e Artemide.

 

I rossi.

Nei Cavalieri Paflagone - Cleone viene chiamato Puvrrandro", il Rosso (901). Rossi di capelli erano in genere gli schiavi importati dal nord.

L' aggettivo rubicundus, rosso, sembra qualificare la rozzezza anche in latino.

Plauto lo usa per dipingere la faccia del rufus schiavo Pseudolus tanto geniale quanto volgare: "ore rubicundo" (Pseudolo, v. 1219).

 

Questi farabutti dinque requisivano mantelli, cocomeri leprotti e altro, dicendo che erano merci provenienti da Megara, poi le vendevano nel giorno stesso a borsa nera.

 

Quindi ci fu il ratto di una prostituta megarese da parte di giovani ateniesi ubriachi e la rappresaglia dei Megaresi che

" rapirono alla loro volta due puttane - porna duo - di Aspasia

E allora di qui scoppiò il principio della guerra

per tutti i Greci: da tre prostitute.

ejjk triw'n laikastriw'n (laikazw =pratico la fellatio)

E allora Pericle l'olimpio, per l'ira - ojrgh`/ -

lampeggiava tuonava e metteva sottosopra la Grecia "(527 - 531) e, nel 432, decretò il blocco dei porti della lega delio - attica nei confronti dei Megaresi. Questi, affamati, ricorsero alla protezione degli Spartani i quali chiesero a Pericle la revoca dell'embargo ma ricevettero un rifiuto. Si tenga conto che nelle tragedie l’ira viene spesso attribuita all’irrazionalità del tiranno. Pericle non veniva attaccato direttamente ma attraverso condanne inflitte ai suoi amici come Anassagora e Fidia. Aspasia venne accusata di lenocinio ma Pericle riuscì a salvarla

Cfr. Tucidide e l’eziologia della guerra I, 140, 3.

Il primo libro si chiude con il primo dei discorsi di Pericle: " ajnh; r kat j ejkei'non to; n crovnon prw'to" w]n jAqhnaivwn, levgein te kai; pravssein dunatwvtato""(I, 139, 4), che in quel tempo era il primo degli Ateniesi e il più capace di parlare e di agire, di muoversi bene cioè nei due campi non divisibili dove si manifesta la grandezza dell'uomo antico.

 

Nel 431 Pericle parla agli Ateniesi dopo l'ultimatum inviato dagli Spartani che, con una terza ambasceria, offrivano la pace a condizione che Atene lasciasse liberi i Greci loro prigionieri.

Il figlio di Santippo dunque chiede ai suoi concittadini che non si ceda agli Spartani (mh; ei[kein Peloponnhsivoi", I, 140, 1) proponendo l'atteggiamento eroico di Achille cedere nescius [17], e pure motivandolo con ragioni pratiche e razionali.

L'irrazionalità viene trovata tanto negli esiti delle azioni quanto nel pensiero, altrettano imprevedibile, degli uomini, e noi siamo soliti accusare la fortuna per quello accade contro il ragionato calcolo (para; lovgon, I, 140, 1).

Maddalena ne inferisce che Pericle " mentre afferma l'esistenza del paralogo nella storia, mostra di giudicare superabile la cattiva fortuna quando l'animo sia costante, e dunque mostra di giudicare la razionalità preminente sulla fortuna"[18].

 Gli Spartani, continua Pericle, oramai vengono a darci ordini (ejpitavssonte" h[dh. . . pavreisin, I, 140, 2). Essi ingiungono di togliere l'assedio da Potidea, di lasciare autonoma Egina, e soprattutto di abrogare il decreto di Megara (to; Megarevwn yhvfisma kaqairei'n, I, 140, 3) ; ebbene cedere su questi punti significherebbe essere considerati paurosi e ricevere altri ordini: "oi|" eij xugcwrhvsete, kai; a[llo ti mei'zon eujqu; " ejpitacqhvsesqe wJ" fovbw/ kai; tou'to uJpakouvsante"" (I, 140, 5).

 

Torniamo al discorso di Diceopoli: Pericle irato decretò che i megaresi non potevano rimanere né in terra, né sul mercato né sul continente. Questi erano affamati - jpeivnwn - 535, e chiesero ai Lacedemoni che venisse cambiata la legge fatta a causa di tre puttane, ma noi pur pregati non volemmo

"E allora ecco già il fracasso degli scudi" (pavtagoς tw'n ajspivdwn, 539).

Questa eziologia della guerra dunque ne denuncia le cause come assurde.

 

Tucidide indica la causa più vera (ajlhqestavthn provfasin,) della guerra del Peloponneso, anche se la meno dichiarata a parole (ajfanestavthn de; lovgw, / I, 23, 6), nel fatto, plausibile, che gli Ateniesi, divenendo potenti e incutendo timore agli Spartani, li costrinsero a combattere.

 

Erodoto e le cause della guerra di Troia

Erodoto nel primo libro delle sue Storie racconta che i Fenici rapirono Iò da Argo e la vendettero in Egitto, poi i Cretesi trascinarono Europa da Tiro fenicia nella loro isola, gli Argonauti Greci rapirono Medea dalla Colchide

"Fino a questo punto dunque, sostengono i Persiani, c'erano solo rapimenti degli uni dagli altri, ma da questo momento i Greci divennero grandemente colpevoli (megavlw" aijtivou"): infatti cominciarono a portare guerra in Asia prima che quelli in Europa. Ora il rapire donne la considerano opera di mascalzoni, ma prendersi cura di avere vendetta per le rapite è da stupidi, mentre non avere premura per le rapite è da saggi: infatti è chiaro che, se esse non volessero, non verrebbero rapite (dh'la ga; r dh; o{ti, eij mh; aujtai; ejbouvlonto, oujk a]n hJrpavzonto" (I, 4)

Ebbene dicono i Persiani che loro dell'Asia non fecero alcun conto delle donne rapite, mentre i Greci per una donna spartana (Lakedaimonivh" ei{neken gunaiko; ") radunarono una grande flotta, poi, giunti in Asia, abbatterono la potenza di Priamo. Dopo questo, considerarono sempre ciò che è greco come loro nemico. Infatti i Persiani pensano che siano loro l'Asia e i popoli barbari che vi abitano, mentre l'Europa e la Grecità le ritengono separate (I, 4).

"Così dunque i Persiani dicono che sia andata, e trovano che l'origine della loro inimicizia per i Greci stia nella presa di Troia. A proposito di Iò, i Fenici non sono d'accordo con la versione dei Persiani; infatti dicono di averla condotta in Egitto senza fare ricorso a un rapimento, ma che in Argo si era unita con il comandante della nave; poi, quando si accorse di essere incinta, vergognandosi davanti ai genitori, allora si mise in mare volontariamente con i Fenici, per non venire scoperta. Queste cose dunque dicono i Persiani e i Fenici. Io su questo non vengo a dire che queste vicende siano andate così o in qualche altra maniera, ma dopo avere fatto conoscere quello[19] di cui io so che per primo diede inizio a opere ingiuste contro i Greci (to; n de; oi\da aujto; " prw'ton uJpavrxanta ajdivkwn e[rgwn ej" tou; " [Ellhna"), procederò nel seguito della storia, passando in rassegna ugualmente le piccole e le grandi città degli uomini (I, 5).

 


Aristofane Acarnesi

parte ottava

 

Contro la guerra. Aristofane e i tragici

 

Dopo tutto gli Spartani non hanno avuto torto nel difendere i loro alleati Megaresi, conclude Diceopoli.

Il coro a questo punto (557 e sgg.) si divide in due semicori: uno convinto da Diceopoli, mentre l’altro continua a dargli torto e ad approvare la guerra, tanto che chiama in aiuto lo stratego guerrafondaio:

"Lamaco sguardo di folgore

tu che sull'elmo hai la Gorgone, soccorrici

o Lamaco, caro, compagno di tribù" (566 - 568).

Lamaco interviene con atteggiamenti da miles gloriosus cioé da spaccone e gradasso: apostrofa Diceopoli chiamandolo pezzente - ptwcov" - e minacciandolo.

Questo si difende ricordando di essere

 "buon cittadino - polivth" crhstov" - 595 e non un intrigante,

 e da quando c'è la guerra un buon soldato stratwnivdh" mentre tu sei un misqarcivdh" (596 - 597), un signore dalla paga alta.

 

La truppa e il capo nelle guerre. Euripide e Brecht.

Il diverso trattamento nei conflitti del povero soldato rispetto al signore della guerra viene denunciato come ingiusto anche da Euripide, quindi da Brecht

 

Nell’ Andromaca, Peleo si scaglia contro Menelao: lo chiama infame assassino di Achille (v. 615). E aggiunge che non vale nulla (v. 641), che non ha avuto nessun merito nella presa di Troia. In Grecia c’è l’usanza sbagliata di riconoscere solo ai capi il vanto delle imprese, e il comandante, non facendo niente più di uno solo, ottiene una fama maggiore

 oujde; n plevon drw'n eJno; " e[cei pleivw lovgon” (v. 698).

 

La Medea di Euripide rinfaccia a Giasone l’aiuto che gli ha dato per compiere l’impresa: “ il drago, che avvolgendo il vello tutto d'oro/lo sorvegliava con le spire contorte senza dormire, /io l’ho ucciso e ho sollevato per te la luce della salvezza (Medea, vv. 480 - 482).

 

Bertolt Brecht fa eco a questa critica: “Il giovane Alessandro conquistò l’India. /Da solo? /Cesare sconfisse i Galli. /Non aveva con sé nemmeno un cuoco? ”[20].

 

 

 “Per lo schifo - continua Diceopoli - ho fatto una tregua separata - tau`t j ou\n ejgw; bdeluttovmeno" ejspeisavmhn (599) "vedendo uomini canuti nei ranghi

e giovani come te che scappavano via " (600 - 601),

poi quelli in Tracia ricevere la paga di tre dracme (misqoforou`nta" trei`" dracmav" 602).

 

 E’ l'eterna critica diretta ai profittatori delle guerre: quelli dell'"armiamoci e partite" che abbiamo sentito qui in Italia a proposito della guerra del golfo.

Un canto anarchico di moda nel '68 malediceva Gorizia e gli ufficiali che (al tempo della prima guerra mondiale) restavano "con le mogli nei letti di lana" mentre la truppa andava a versare il sangue.

 

 

Contro la guerra cfr. le tragedie: Edipo re, Agamennone, Troiane, Elena.

Nell'Edipo re[21] Ares viene deprecato dal religiosissimo Sofocle come "il dio disonorato tra gli dei" (ajpovtimon ejn qeoi'" qeovn, v. 215).

 

Ares è, già per Zeus nell'Iliade il più odioso tra gli dèi (" e[cqisto" dev moi ejssi qew'n", V, 890); questo anti - dio è, secondo Eschilo, nell'Agamennone, il cambiavalute dei corpi ("oJ crusamoibo; " d& [Arh" swmavtwn", 437) e gli uomini che partono per la guerra tornano a casa in forma di ceneri dentro le urne[22].

 

Anche Euripide, che pure aizza spesso l'odio ateniese contro Spartani e Spartane, attribuisce a Poseidone una condanna delle devastazioni belliche nel prologo delle Troiane[23]: "mw'ro" de; qnhtw'n oJvsti" ejkporqei' povlei", - naou; " te tuvmbou" q, JJjj iJera; tw'n kekmhkovtwn, - ejrhmivvva/ dou; " aujto; " w[leq ' u{steron"(v. 95 - 97), è stolto tra i mortali chi distrugge le città, gettando nella desolazione templi e tombe, sacri asili dei morti; tanto poi egli stesso deve morire.

Nell'Elena [24](vv. 37 - 40) e nell'Oreste[25] (vv. 1640 - 1642) il tragediografo afferma che la guerra è un mezzo voluto dagli dèi per alleggerire il mondo oberato dalla massa troppo numerosa dei mortali.

Tale giudizio contro la guerra si trova anche alla fine dell’Elettra euripidea, quando Castore annuncia a Oreste che Elena sta arrivando, insieme con Menelao, dall'Egitto, dalla casa di Proteo, poiché a Troia non è mai andata, “Zeu; ~ d j, wJ" e[ri" gevnoito kai; fovno" brotw'n, - ei[dwlon JElevnh~ ejxevpemy j ej~ [Ilion ” (Elettra, vv. 1282 - 1283), ma Zeus mandò a Ilio un'immagine (ei[dwlon) di lei, affinché ci fosse guerra e strage dei mortali.

 

Mi sembra particolarmente opportuno ricordare tali giudizi sull'assurdità della guerra che viene imposta agli uomini comuni, se non dagli dèi, dall'alto dei palazzi del potere, affinché i mortali poveri, servano a interessi che sicuramente non sono i loro. "Sì sì, lei non era qui". Dice di Elena la Cassandra di Christa Wolf. E aggiunge: "Il re d'Egitto l'aveva tolta a Paride, quello stupido ragazzo. Lo sapevano tutti nel palazzo, perché io no? E ora? Come ne usciamo, senza perdere la faccia? . Padre, dissi, con un fervore col quale non gli parlai mai più. Una guerra condotta per un fantasma, può solo essere perduta"[26].

 

Diceopoli interpella uno del coro un uomo per bene, lavoratore, già canuto (poliov" 610) e gli domanda se sia mai andato a fare l'ambasciatore al pari dei personaggi della nomenclatura del regime. Quello fa segno di no.

 

Poi rinfaccia a Lamaco il ricco stipendio che prende. Lo Quindi lo stratego ribadisce la propria volontà di fare sempre la guerra contro i Pelponnesiaci - ajll j ou\n ejgw, me; n pa`si Peloponnhsivoi" - ajei, polemhvsw (620 - 621)

 

Diceopoli invece proclama ai presunti nemici "Peloponnesii, Megaresi e Beoti"(623 - 624) di vendere pwlei`n e commerciare ajgoravzein con lui, e di escludere Lamaco 625

 

 

Bologna 28 luglio 2021 ore 11, 35

Aristofane Acarnesi

parte nona

 

 Prima Parabasi (626 - 718): il coro si toglie i mantelli e viene agli anapesti (breve breve lunga 627).

Aristofane parla di sé in terza persona:

"calunniato dai nemici tra i volubili Ateniesi (diaballovmeno" d’ ujpo, tw`n ejcqrw` ejn j Aqhnaivoiς tacubouvloiς),

in quanto motteggia la nostra città con le commedie e offende il popolo/

deve rispondere davanti ai mutevoli Ateniesi" (pro; ς j Aqhnaivouς metabouvlouς, 630 - 632).

La Parabasi è dunque "il cantuccio" nel quale il poeta può esprimersi più personalmente. Aristofane rivendica a sé il merito della schiettezza e della capacità educativa:

"egli dice che vi insegnerà molte cose buone, in maniera che siate felici/

non adulando né promettendo mercedi sotto banco, né ingannando/

né facendo il farabutto né coprendovi di elogi, ma insegnandovi le cose migliori - ajlla; ta; bevltista didavskwn"(656 - 658).

 

Questo compito pedagogico del poeta verrà ribadito nelle Rane del 405:

"ai bambini infatti

è maestro colui che insegna, per gli adulti ci sono i poeti

e noi dobbiamo dire cose assolutamente oneste" (pavnu dh; dei' crhsta; levgein hJma'ς, 1053 - 1055) afferma Eschilo discutendo con Euripide.

 

Sicuro di essere nel giusto dunque, Aristofane afferma, passando alla prima persona, che continuerà per la sua strada dove:

"il bene e il giusto saranno

alleati con me, e mai verrò preso

ad agire verso la città come quel

vigliacco e pederasta sfondato" (w{sper ejkei'noς deilo; ς lakkatapuvgwnpughv è culo e lakavw mi apro, lavkkoς oJ lat lacus, inglese lake, Acarnesi, 661 - 665).

Si tratta del demagogo Cleone.

Aristofane lo presenta più volte (cfr. soprattutto i Cavalieri - del 424 - come un ladro sfrontato: Tucidide ne fa il capo di una potenza imperialistica quale era diventata Atene: "turannivda e[cete th; n ajrchvn", (La guerra del Peloponneso, III 37, 2) avete un impero che è una tirannide dice in un discorso agli Ateniesi.

“Devesi riconoscere che Sparta godeva simpatie più numerose; poiché di Atene, mentre ognuno sentiva il fascino di bellezza e di splendore che da essa emanava, i più cercavano di sfuggire il contatto politico e l’alleanza, che finiva quasi sempre per cambiarsi in esoso legame di dipendenza: e del resto la storia insegna che, in ogni tempo, gli imperialismi più sfrenati e odiosi, più presuntuosi e intollerabili, furono spesso quelli esercitati dalle democrazie più liberali. Una siffatta politica di assoluto primato ateniese Pericle perseguiva fin quasi dall’inizio della sua carriera politica”[27].

Già Pericle aveva detto ai cittadini: “Non potete tirarvi indietro dall’impero (ajrch'" ejksth'nai, Tucidide, 2, 63, 2).

wJ" turannivda ga; r h[dh e[cete aujthvn, oramai infatti l’avete come una tirannide, e averlo preso può sembare ingiusto, ma lasciarlo sarebbe pericoloso. L’inerzia infatti non salva - to; ga; r a[pragmon ouj swv/zetai se non è schierata con l’attività

 

Questo imperialismo di Atene come ogni tirannide escludeva la pietà:

 

Lo dichiara Agamennone nell’Aiace di Sofocle: “tov toi tuvrannon eujsebei'n ouj rJa/dion” (v. 1350), non è facile che un tiranno sia anche una persona pia. Insomma tirannide e pietà sono incompatibili.

 

“La logica del tiranno non può permettergli alcuna “opra pietosa”[28].

Lo stesso vale per la tirannide collettiva di una città.

 

Il coro chiede ispirazione all’ardente musa di Acarne - Mou`s j jAcarnikhv 9(665 - 666)

Segue il biasimo alla città la quale trascura i vecchi.

Noi vecchi antichi oiJ gevronte" oij palaioiv (676), lamentano i coreuti, non veniamo assistiti nella vecchiaia - ouj ghroboskouvmeqj – 678 in maniera degna di quelle famose battaglie che abbiamo combattuto sul mare. Anzi, subiamo maltrattamenti tremendi: permettete che veniamo derisi - eja`te katagela`sqai - da giovani oratori insolenti (680).

 

L’orrore della derisione è uno dei principali motivi che spingono l’Aiace di Sofocle a suicidarsi e la Medea di Euripide a uccidere i propri figli. Cfr. la cività di vergogna di Dodds (i Greci e l’irrazionale).

 

Noi balbettiamo per la vecchiaia e stando presso il pulpito della Pnice, della giustizia vediamo solo l’ombra. Nei processi il giovanotto che si è dato da fare per divenire avvocato colpisce velocemente mettendo insieme un’accusa con parole rotonde poi tirato sulla tribuna interroga l’accusato collocando trappole di parole e dilania, tormenta, squassa un uomo vecchio come Titone.

Il vecchio biascica poi, condannato a pagare - ojflw`n - ojfliskavnw - se ne va piangendo e dice agli amici: me ne vado multato di questo denaro di cui avevo bisogno per comprarmi una bara. Si può pensare ai rottamatori nostrani e della spietatezza da loro inaugurata verso i vecchi, a partire naturalmente dagli indifesi.

I vecchi lamentano l’ingiustizia che subiscono pur dopo avere meritato assai nella battaglia di Maratona quando inseguivamo dicono - ejdiwvkomen - 697 - il nemico, mentre ora siamo perseguiti in tutti i modi - sfovdra diwkovmeqa - 700 - da uomini malvagi, poi per giunta veniamo dichiarati colpevoli.

 

Una colpevole calunnia contro la vecchiaia si trova nella Retorica (1389b) dove Aristotele sparlando, a proposito e a sproposito dei vecchi, dice che sono fivlautoi ma'llon h] dei', egoisti più del dovuto e che questa è una forma di mikroyuciva, meschinità: kai; pro; ~ to; sumfevron zw'sin, ajll j ouj pro; ~ to; kalovn, vivono per l’utile e non per il bello, proprio per il fatto che sono egoisti: l’utile infatti è un bene individuale, mentre il bello è un bene assoluto (to; de; kalo; n aJplw'~).

 

I vecchi sono mal reputati siccome mettono davanti agli occhi dei meno attempati quello che diventeranno se non moiranno prima.

 

Il corifeo propone che le cause siano separate: cwri; " ei\nai ta; " grafav" (714): un vecchio sdentato deve essere difensore di un vecchio e mentre quel culo aperto e chiacchierone eujruvprwkto" kai; lavlo" (716) – del figlio di Clinia sarà il difensore dei giovani. Alcibiade verrà canzonato più volte.

 Si tratta del grande trasgressore, quello cui, secondo D'Annunzio, "parve più fiera la gioia/ d'abbattere il limite alzato"(Maia, Laus vitae ").

Nella Vita di Plutarco troviamo, tra le altre, notizie sulla sua dissolutezza che del resto non inficiava le grandi capacità dell'uomo: "alle doti politiche e oratorie. . . si univano grandi difetti: menava una vita dissoluta, era dedito al bere, amoreggiava senza ritegni, vestiva con effeminatezza, strascicando, per esempio, la veste"(16).

Ma nel Simposio di Platone il grande seduttore dell'intera Atene deve riconoscere che la bellezza di cui andava fiero era solo di bronzo in confronto a quella aurea di Socrate il quale "disprezzò e derise e umiliò" tanta venustà non contraccambiando i desideri del discepolo (219c).


Aristofane Acarnesi

parte decima

 

Le due “porcelline” di Megara

 

Finita la prima parabasi, seguono scene episodiche (719 - 1149).

Diceopoli segna i confini del suo mercato personale – o{roi me; n ajgora`" eijsin oi{de th`" ejmh`" 719 - dove possono commerciare - ajgoravzein - "Peloponnesii, Megaresi e Beoti"(721 - 722), mentre non devono mettervi piede i guerrafondai come Lamaco né i sicofanti, cioé i delatori, le spie del regime.

 

Questi confini anticipano in modo meno stretto il giardino e il lavqe biwvsa" di Epicuro.

 

Arriva un Megarese seguito da due ragazzine,

" povere figlie di padre disgraziato"(731).

Il babbo fa una domanda:

"volete essere vendute o soffrire dolorosamente la fame?

 h] peinh'n kakw'ς;

"vendute, vendute!" pepra'sqai pepra'sqai - pf m p da pipravskw - gridano le fanciulle (734 - 735).

 

Segue una delle scene più tragiche del teatro greco. Il padre fa sapere alle figlie che le trasformerà in porcelline.

Dice loro: “mettetevi questi zoccoli di porci perché possiate sembrare figlie di una troia onesta - o{pw" de; doxei`t j ei\men –infinito dorico - ejx ajgaqa`" ujov" 741. Un buffo ossimoro tragico.

Altrimenti dovrete tornare a casa a soffrire la mala fame.

 

Nella storia e nella letteratura mancano casi di cannibalismo come rimedio estremo per evitare questa sofferenza

L'ultimo frammento del Satyricon ne ricorda tre esempi forse per persuadere Gorgia, l'heredipeta riluttante a trangugiare la carne del cadavere del vecchio Eumolpo: "quod si exemplis quoque vis probari consilium, Saguntini obsessi ab Hannibale humanas edere carnes nec hereditatem expectabant. Petelini idem fecerunt in ultima fame, nec quicquam aliud in hac epulatione captabant nisi tantum ut esurirent. cum esset Numantia a Scipione capta, inventae sunt matres quae liberorum suorum tenerent semesa in sinu corpora" (141, 9 - 11), che se tu vuoi che il mio progetto sia avvalorato da esempi, i Saguntini assediati da Annibale mangiavano carne umana e nemmeno si aspettavano un'eredità. Lo stesso fecero i Petelini ridotti alla fame estrema, e in questo banchetto non andavano a caccia di altro che di non morire di fame. Quando Numanzia fu presa da Scipione, si trovarono madri che tenevano in seno corpi mezzi rosicchiati dei propri figlioli.

"Quell'esempio tripartito è il degno finale epico di un libro, che al di sotto di vicende oscene, triviali, mirabolanti, o aridamente finanziarie, fa udire il trascorrere imperterrito e solenne della storia"[29]. La storia come mattatoio di carne umana.

 

Il rimedio delle figlie vendute dunque non è estremo: c’è stato di peggio.

 

Sicché dopo gli zoccoletti da porcelline il babbo ordina alle fanciulle di mettersi sulla faccia anche un paio di grugnetti ta; rugciva - 743 - quindi le fa entrare nel sacco che ha lì pronto eij" to; n savkkon (745) dove devono grugnire e fare coì tirando fuori la voce dei porcellini misterici - fwna; n coirivwn musthrikw`n (747), quelli che venivano sacrificati a Demetra nei misteri eleusini.

 

 Poi va da Diceopoli e gli domanda: “h\ lh`" privasqai coiriva; ”(749) vuoi comprare porcelline?

Diceopoli domanda se al Megarese se porti sale (a{la") o agli (skovroda)

“Agli non è possibile perché gli ateniesi invadendo la nostra terra ha sradicato tutto con un piolo” è la risposta.

Dunque il Megarese può portare solo porcelline misteriche (764), di quelle cioé che si sacrificavano ai misteri di Demetra. La scena, pesante, siccome risente della comicità grossolana della farsa megarese, gioca sul doppio senso della parola coi'ro" che, come il latino porcus indica tanto il maiale quanto l'organo sessuale femminile.

La guerra tra gli altri “effetti collaterali” ha spesso, quasi sempre, anche questo dello stupro, della compra vendita, della postituzione delle donne.

Il Megarese dunque mostra le ragazzine e ne dà una in mano a Diceopoli elogiando la merce da vendere: ajlla; ma; n kalaiv. - a[nteinon, aij lh/": wJ" pacei`a kai, kalav - (766 - 767), sono proprio belle. Sollevala, se vuoi: come è soda e bella. Le parole hanno una patina dorica.

L’Ateniese obietta che è di razza umana - all’j e[stin ajnqrwvpou ge (774). Una obiezione da fare sempre a chi cerca di trattare donne e uomini come cose da mercaneggiare e da usare quali strumenti,

Una fanciulla minacciata dal padre prova anche a fare il verso del porco (coì coì, 780) e Diceopoli commenta:

"ora sembra davvero una maialina, coi'roς oJ

ma una volta cresciuta sarà una fica kuvsqoς oJ lat. cunnus"(781 - 782). Pevoς tov è il latino penis.

 

Entro cinque anni sarà come la madre fa il padre venditore.

 

A proposito di “legittima difesa”

 

Al babbo megarese che vuole vendere le sue figliole come porcelline e ne porge una bella grassa in mano a Diceopoli, il protagonista degli Acarnesi di Aristofane obietta che la maialina non è sacrificabile –oujci; quvsimov" ejstin, perché non ha la coda - kevrkon oujk e[cei (785).

Bisognerebbe sempre usare questo tipo di obiezioni sacastiche a quanti cercano di giustificare un assassinio. Quando per coonestare l’ omicidio di un uomo in fuga si invoca la “legittima difesa” si dovrebbe obiettare: l’hai ammazzato come si può fare con un cane arrabbiato, o una iena, eppure questo morto kevrkon oujk e[cei, non ha la coda.

 

Il padre ribatte che non ha la coda perché è piccola, ma le crescerà, quindi porge l’altra a Diceopoli ma questo nota oj kuvsqo", la fica come nell’altra.

Il Megarese promette che diverrà grassa e piena di setole dunque una porca in piena regola da sacrificare ad Afrodite.

Diceopoli obietta che non è alla dea dell’amore che si sacrifica una porcella

Il Megarese replica che invece alla sola Afrodite va sacrificata perché la carne delle porcelle ta`n coivrwn to; krh`" diventa soavissima –a{diston - una volta infilata nello spiedo" (ajna; to; n ojdelovn 795 - 796). Cfr. L'uomo senza qualità di Musil: "Egli vedeva la figura di lei sotto le vesti come un gran pesce bianco che è vicino alla superficie dell'acqua. Gli sarebbe piaciuto fiocinarlo virilmente e vederlo dibattersi, e v'era in quel desiderio tanta ripulsione quanta attrazione"(p. 849).


Aristofane, Acarnesi

parte undicesima

 

Seguono altri doppi sensi a base di ceci e fichi.

Diceopoli domanda alla porcella se sgranocchierebbe i ceci “trwvgoi" a]n ejrebivnqou"; ” (801) e la maialina risponde con il verso koiv ripetuto tre volte

Poi i fichi secchi usati per ingrassare i maiali il cui h|par sukwtovn, iecur ficatum fegato ingrassato con fichi era pregiato

 

Alla fine di questa trattativa il megarese vende le figlie - porcelle per una treccia d'agli l'una e una misura di sale l'altra (813 - 814).

 

 Arriva un sicofante, un delatore professionista che vorrebbe fare la spia, ma Diceopoli lo caccia in malo modo e il Megarese denunzia a sua volta questa genìa come la piaga della città:

"quale sciagura è questa in Atene!" (oi|on kakovn ejn tai`" j Aqavnai" touu`t j e[ni (829).

 

Diceopoli dunque conclude l'affare e il corifèo lo proclama felice per questa sua estraneità a sicofanti e demagoghi, veri malanni di Atene.

Invece Diceopoli farà un bel raccolto stando seduto al mercato - karpwvsetai ga; r ajnh; r ejn tajgora`/ kaqhvmeno" (837 - 838).

E Iperbolo ncontrandoti non ti riempirà di liti si congratula il corifeo (846 - 847).

 

La rivolta di Samo all’impero ateniese e la rivolta ungherese del 1956 a quello sovietico hanno alcuni aspetti comuni.

 

Samo si era ribellata nel 441 all’oppressione ateniese. In quell’occasione i democratici partigiani degli Ateniesi “furono letteralmente massacrati, tranne beninteso quelli che trovarono scampo fuggendo. Esattamente come i comunisti ungheresi nei giorni della rivolta popolare tra il 23 ottobre ed il 3 novembre del 1956…Nella guerra contro Samo Atene si impegnò con una flotta comprendente anche forze alleate (per dare l’impressione che tutta la “lega” puniva l’alleato ribelle) ed inviò alla testa di questa grande flotta che penò non poco a sopraffare tutti i ribelli, tutto il collegio degli strateghi, compreso il poeta Sofocle che in quell’anno ricopriva tale carica. L’intervento contro l’Ungheria fu anch’esso “corale”, per le stesse ragioni propagandistiche…Dopo la sconfitta del 440 - 439, a Samo tornò, imposto dagli Ateniesi, un governo “popolare”, che fece piazza pulita della fazione che aveva alimentato la ribellione e condotto senza esclusione di colpi la guerra. A partire da quel momento Samo fu il più fedele alleato di Atene. Quando, per pochi mesi, nel 411 gli oligarchi prendono il potere ad Atene, è a Samo che si crea quello che potremmo chiamare un “governo popolare ateniese in esilio”. E da Samo parte alla riconquista politica e militare della città”[30].

Nel 411 venne repressa a Samo una congiura oligarchica ma solo dopo l’uccisione di Iperbolo avvenuta in aprile

 Iperbolo, il demagogo succeduto a Cleone morto nel 422, era un malvagio, secondo Tucidide ("mocqhro; n a[nqrwpon") e venne ostracizzato da Atene per la sua disonestà e anche perché portava vergogna alla patria: "dia; ponhrivan kai; aijscuvnhn th'" povlew""(VIII, 73, 3). Questo demagogo nel 417 era stato ostracizzato da un accordo trasformistico di Alcibiade con Nicia: avevano fatto convergere i voti controllati da loro sul comune avversario che aveva proposto l'esilio per i suoi rivali, responsabili, per un motivo o per un altro, della sconfitta di Mantinea del 418. Ebbene quest'uomo soffre la cattiva stampa non solo di Tucidide ma anche di Aristofane che già negli Acarnesi (del 425) lo menziona come un guerrafondaio attaccabrighe (vv. 846 - 847) e nei Cavalieri (del 425) lo definisce "a[ndra mocqhro; n", come fa Tucidide, e, irrisoriamente, aggiunge "ojxivnhn", acido (v. 1304).

 

Ma torniamo agli Acarnesi.

Sul mercato privato di Diceopoli arriva un tebano a offrire la sua mercanzia: il nostro eroe è attirato soprattutto dalle anguille di Copaide, un lago della Beozia, oggi prosciugato:

"o tu che porti le fette di pesca più gradite agli uomini,

 w\ terpnotavton su; tevmacoς ajnqrwvpoi" fevrwn (881)

permetti che io saluti le anguille - ta; " ejgcevlei" - se davvero le porti"(882).

Grande è la gioia del pacifista ateniese nel vedere "l'ottima anguilla th; n ajrivsthn e[gcelun (889)

 giungere bramata dopo cinque anni finalmente"(890).

 Dicepoli è tanto felice che utilizza, in travestimento derisorio, due mezzi versi pronunciati da Admeto nei riguardi dell'adorata Alcesti (367 - 368): "che nemmeno morto io sia mai separato da te… cotta in mezzo alle bietole"(892 - 893 mhde; ga; r qanwvn - pote - sou' cwri; ς ei[hn” citato da Alcesti 367 - 368.

Admeto concludeva il secondo verso con th`" movnh" pisth`" ejmoiv, tu sola fedele a me, mentre Diceopoli lo chide con enteteutlanwmevnhς, ejnteutlanovomai, teu'tlon = bietola) .

Il fatto di citare nel 425 il verso di una tragedia rappresentata nel 438 significa che i versi di questi drammi erano molto popolari e conosciuti dagli spettatori.


Aristofane. Acarnesi

Parte dodicesima

 

Il Tebano in cambio dell’anguilla vorrebbe qualche cosa che da loro non si trova mentre abbonda ad Atene. La proposta pronta di Diceopoli è: "allora portati via un sicofante

dopo averlo imballato come un vaso"(903 - 904).

Il tebano lo equipara una scimmia piena tanta malvagità (908)

Arriva un sicofante, Nicarco, piccolo ma tutta maignità.

Dichiara subito che vuole denunziare la merce del tebano come robs nemica - faivnw polevmia tau`ta - (911)

Quindi accusa il tebano di introdurre un lucignolo per dare fuoco all’arsenale. E’ la storia delle armi di distruzione di massa attribuiti agli Stati canaglia che non possono nemmeno difendersi.

Basta infilarlo in una blatta poi dargli fuoco e ci penserebbe il vento di tramontana a portarlo fino alle navi che brucerebbero.

Diceopoli non sopporta tali assurdità e chiede aiuto al tebano per tappargli la bocca con dei trucioli, poi imballarlo come un vaso. Le menzogne e le assurdità spacciate per scatenare le guerre andrebbero dovrebbero essere ridotte al silenzio. Ne abbiamo sentite tante. Ridotto a un vaso da esportare potrà essere usato come kath; r kakw`n, una coppa di mali, tripth; r dikw`n, un tino di processi, (937), una lanterna responsabile di denunce, un calice pe mescolarvi gli affari - kuvlix ta; pravgmsat j ejgkuka`sqai (939). Gli affari e gli affaristi non sono mai estranei alla guerra.

Ricordo che Eschilo nell'Agamennone definisce il dio della guera sprezzantemente "il cambiavalute dei corpi" (oJ crusamoibo; ς d j [Arhς swmavtwn. 437, cambia gli uomini in cadaveri e favorisce i profitti degli affaristi. Eppure quelli che si avviano la guerra dalla quali torneranno trasormati in cenere dentro le urne partono cantando contenti come se andassero a fare l’amore tanto sono suggestionati dalla propaganda. Pensate anche alle manifestazioni di piazza in favore delle due guerre mondiali.

Il tebano si porta via il sicofante imballato, capace di tutto ma nulla di buono

 

Capace di tutto dunque il sicofante: perciò il tebano se lo porta via.

La polemica contro i sicofanti è presente nell'opera di Aristofane quasi quanto quella contro Euripide, Socrate, Cleone e i demagoghi in genere. Segnalo un paio di esempi.

 

Negli Uccelli (414), l' alata e allegra utopia costruita per fuggire dalla dura realtà politica sociale e militare, viene fondata la nuova città dei cuculi tra le nuvole (Nefelokokkugiva), da Pistetero ed Evelpide, i due Ateniesi disgustati dei concittadini e guidati dai volatili.

Nella nuova polis arriva, con altri sgraditi ciarlatani, fanfaroni e assassini (tra cui uno spacciatore di oracoli e un parricida, altrettante caricature di esistenze moderne e deformi) anche un sicofante il quale reclama delle ali (1420): gli servono per denunziare, sostenere l'accusa e tornare indietro volando (1455). Naturalmente Pistetero lo caccia non senza averlo prima picchiato perché impari quanto "amara è l'arte di stravolgere la giustizia"(1468).

 

 I sicofanti, come si vede, sono legati ai processi: non potevano dunque non essere almeno menzionati nelle Vespe (del 422) che poi sono gli Eliasti, i giudici del tribunale popolare chiamato Eliea. Costoro erano seimila e secondo Aristofane avevano la mania dei processi con i quali perseguitavano le persone invise a loro e a Cleone che li corteggiava: il demagogo aveva anche alzato l' indennità eliastica da due a tre oboli al giorno. In compenso questi giudici infliggevano pene e multe agli oppositori del regime; ma non avrebbero potuto agire tanto efficacemente (Guido Fassò ha visto una dittatura del proletariato ante litteram esercitata attraverso questo tribunale) se non ci fossero stati i delatori cui bastava muovere l'accusa generica di aspirante tiranno. E chiunque provasse qualsiasi antipatia per chiunque, poteva denunciarlo. In questa commedia che mette in berlina giudici e processi, Aristofane racconta che al mercato

"se uno compra scorfani e non vuole sardine,

subito quello che lì vicino vende sardine dice:

"quest'uomo evidentemente vuole fare provviste (di scorfani) per la tirannide!"(Vespe, 493 - 495).

 

Ma torniamo agli Acarnesi. Uscito il tebano che, da vero beota, si porta via il sicofante, entra un servo di Lamaco, lo stratego guerrafondaio il quale ha dato l'ordine di comprare tordi e anguille da Diceopoli.

 Il nostro eroe però non si lascia intimidire dalla prosopopèa guerresca dell'uomo e tiene tutto per sé il frutto della pace separata (960 e sgg.) . Il coro intanto si convince delle buone ragioni del protagonista e giura:

"io non accoglierò mai in casa Polemo"(977) che poi è la personificazione del conflitto, visto come "un uomo ubriaco"(981) il quale "ha operato tutti i mali e sconvolgeva, e rovinava"(983) e, pur invitato a fare la pace,

"bruciava ancora di più con il fuoco i pali delle viti

 e rovesciava a forza il nostro vino fuori dalle vigne"(986 - 987).

La guerra dunque è odiata dai contadini poiché distrugge alberi, raccolti e impoverisce la vita di quanti lavorano la terra e vivono dei suoi prodotti. In pratica di tutti.

Virgilio nella prima Georgica (511) squalifica "Mars come impius ", empio Marte, e Orazio in Carmina, II, 14, 13, come cruentus, insanguinato.

 

Maledetta la guerra da Diceopoli, dal coro e da noi, arriva la Pace, salutata come "compagna di Cipride la bella e delle Grazie" (Aristofane, Acarnesi, 989). Mostra il suo bel volto kalo; n to; provswpon (990) tenuto nascosto per troppo tempo.

 

Attualizzazione. Il rimedio dal bel volto. Aristofane, sofocle e i sindaci pistoleri.

 

Se i pistoleri come quello di Voghera guardassero in faccia un uomo prima di sparargli, forse esiterebbero a farlo, e magari non lo farebbero punto

 

Il volto bello è visto come antitesi e rimedio della guerra anche dal coro dell’Edipo re di Sofocle (inter poetas non surrexit maior)

"E la città muore senza tenere più conto di questi/e progenie prive di compianto giacciono/ a terra portatrici di morte senza compassione/e intanto le spose e anche le madri canute/di qua e di là, presso la sponda dell'altare/gemono supplici/per le pene luttuose/ e il peana lampeggia/ e la voce lamentosa del flauto concorde, /per cui, o aurea figlia di Zeus, / manda un aiuto dal bel volto - eujw`pa pevmyon ajlkavn - (179 - 189).

 

Il Coro vede aleggiare intorno alla bella donna amore e lavoro, i beni negati dalla guerra. Intanto Diceopoli comincia a preparare un banchetto a base di lepri e tordi (Acarnesi, 1005 - 1006). Poi entra un povero contadino vestito a lutto (in bianco, v. 1024) poiché ha perduto i buoi. Vorrebbe che Diceopoli gli ungesse con una goccia di pace gli occhi rovinati dal pianto, ma il nostro eroe bada solo a dare ordini per il banchetto:

"tu sulla salsiccia (cordhv) versa del miele (mevli) e friggi le seppie (shpivaς)… voi arrostite le anguille (ojpta`te tajgcevleia 1040 - 1043) con un compiacimento che fa pensare a carenze alimentari patite dai Greci, sia per la guerra, sia perché l'aridità del suolo li costringeva a lottare per trarne l'estremo, non abbondante, prodotto.

Tutti invidiano Diceopoli e vorrebbero la sua pace: uno sposo gli manda della carne del banchetto nuziale per avere in cambio una "coppa di pace: per non andare in guerra ma restare in casa a fare l'amore"(i{na mh; strateuvoitj ajlla; kinoivh mevnwn - 1052 - 1053).

 

 Diceopoli rilutta, ma arriva anche una messaggera con la richiesta della sposa:

" che il pene del marito rimanga a casa" (o{pwς a}n oijkourh'/ to; pevoς tou' numfivou, 1060). Questa preghiera fa breccia nel cuore del protagonista:

"perché una donna non merita di soffrire per la guerra"(1062). Cfr. la commedia Lisistrata

 

Abbiamo qui una variante della figura femminile rispetto a quella facies barbarica e feroce che Eschilo ha attribuito a Clitennestra o Euripide a Medea, le due "leonesse" omicide.

Questa sposina di Aristofane, se vorrà tenere il marito con sé, di notte dovrà spalmargli il liquido della pace sul pene (nuvktwr ajlefeivtw to; pevo" tou` numfivou - 1066), un organo che infatti le veterofemministe degli anni Settanta chiamavano "guerrafondaio".


Aristofane. Acarnesi

parte tredicesima

 

Niente di bello né di buono c’è nella guerra

 

Esce di casa ed entra in scena lo stratego Lamaco. Un messaggero lo informa che deve andare a sorvegliare le frontiere del nord, sotto la neve (threi`n neifovmenon - 1075). Egli ne è contrariato assai; intanto Diceopoli viene invitato ad un banchetto da un messo inviato dal sacerdote di Dioniso: c'è cibo in abbondanza non mancano già pronte aiJ povrnai pavra, focacce, schiacciate, torte di sesamo, paste, dolci, danzatrici - ojrchstrivde" 1094.

Diceopoli invece fette di pese: infatti le cipolle mi fanno schifo - ejmoi, de; temavch: krommuvoi" ga; r a[cqomai - (1100)

Lamaco chiede le due penne per l’elmo, Diceipoli le colombe e i tordi cicciottelli. Lamaco li guarda con desiderio e Diceopoli gli intima di non fissarli.

Quindi ordina un piatto di lepre e scommette che Lamaco sarà costretto a preferire ta; " cavallette - ta; " ajkrivda" (1117). A Lamaco la lancia to; dovru - 1118, mentre Diceopoli odina th; n cordhvn, la salsiccia.

Lamaco estrae l’asta dal fodero, Diceopoli prepara il bischero.

Lamaco lo scudo tondo con la Gorgone, Diceopoli la torta tonda di formaggio.

Lamaco si muove sotto la neve e un aria di tempesta, Diceipoli si appresta al simposio.

Quindi si svolgono contemporaneamente i due preparativi contrastanti: per la guerra e per l'orgia. Dei due naturalmente Lamaco che si fa portare "il tondo scudo con la Gorgone"(1124) è infelice.

Ordina al servo di portargli ta; krovmmua, le cipolle.

 Diceopoli, che ordina "il tondo piatto di focaccia col formaggio"(turovς 1125), è felice.

Il corifèo sottolinea l'enorme disparità delle condizioni, ovviamente per indurre gli Ateniesi a desiderare la pace:

"a uno spetta bere incoronato di fiori,

a te fare la guardia tremando dal freddo,

a lui dormire

con una ragazza splendidissima

stropicciandosi il coso!"(1144 - 1148).

 

 Viene del tutto smontato il fascino che la propaganda ingannevole attribuisce alla guerra dove non c'è niente di eroico, bello, invidiabile.

 

Anche Dino Buzzati nel romanzo Il deserto dei Tartari la demitizza, seppure in modo diverso. Giovanni Drogo, un personaggio da tragedia greca, ha passato la vita nell'attesa della gloria militare. Ebbene, quando arrivano i Tartari a portare la guerra, il protagonista, malato a morte, non può prendervi parte. Allora, invece di cedere alla disperazione accetta il suo destino come un eroe sofocleo e, in punto di morire, completamente solo, " benché nessuno lo veda, sorride" poiché ha compreso di avere affrontato e superato una prova ben più difficile di quella di coloro che muoiono in battaglia: " Tutto succederà nella stanza di una locanda ignota, al lume di una candela, nella più nuda solitudine. Non si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra sorrisi di giovani donne. Non c'è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo. Oh, è una ben più dura battaglia di quella che lui un tempo sperava"(p. 147). Insomma anche Buzzati, come Aristofane, dice che c'è qualcosa di più eroico della guerra.


Aristofane Acarnesi

parte quattordicesima

 

Seconda parabasi. Mi ha fatto ridere

 

Negli Acarnesi segue la seconda Parabasi, breve (1150 - 1173), nella quale l'autore se la prende con un suo nemico cui augura buffe disavventure culinarie e scatologiche.

Si tratta di un certo Antimaco, un corego alle Lenee, che una volta mandò via il coro senza cena - a[deipnon. 1156.

I coreuti degli Acarnesi lo maledicono con il cattivo augurio di vederlo un giorno voglioso di una seppia - teuqivdo" deovmenon (1157), la quale però, arrostita e sfrigolante, si troverà posta sulla tavola dove c’è il sale e quando Antimaco famelico andrà per prenderla gliela imbolerà una cagna più affamata di lui e scapperà via. Un buffo contrappasso di giusta punizione dell affamatore.

 

Ma non solo questo deve capitargli.

Sarebbe bello che una notte mentre torna dal maneggio febbricitante, un ubriaco - mequvwn - 1166, una specie di Oreste pazzo, gli spaccasse la testa e Antimaco cercasse di prendere una pietra ma nell’oscurità dell’aria e del suo cervello prendesse in mano uno stronzo cacato di fresco - ejn skovtw/ lavboi - th`/ ceiriv pevleqon ajrtivw" kecesmevnon - (1169 - 1170. cevzw= caco.

Ancora meglio se poi scagliando questo reperto fecale colpisse Cratino. Il collega di Aristofane


Aristofane, Acarnesi, Esodo (1174 - 1233)

 

Un servo chiede cure mediche per Lamaco che si è riempito di ferite. Sono traumi fisici molto diversi dal vulnus amoroso che abbiamo segnalato nella Didone di Virgilio e anche dall’ulcus, la piaga, pure questa causata dall’amore che Lucrezio depreca.

L’uomo ajnhvr, cioè lo stratego scemo, tetrwvtai 1178 si è ferito contro un palo saltando in una trincea diaphdw`n tafron - la caviglia si è slogata e girata all’indietro, si è rotta la testa cadendo su un sasso e ha risvegliato la Gorgone dello scudo.

I comandanti di questo conflitto sono degli incapaci eletti probabilmente per la loro demagogìa lusinghevole e fallace. Tale inettitudine diverrà rovinosa non solo per tali duces gloriosi ma per l’intera città di Atene durante la pedizione in Sicilia (415 - 413) voluta da Alcibiade che dovrà allontanarsene e condotta male dallo stesso Lamaco e da Nicia che vi perderanno la vita.

Caduto sulle pietre il gran pennacchio dello spaccone ptivlon de; to; mevga kompolakuvqou peso; n - pro; " tai`" pevtraisi (1182 - 1183), Lamaco si diede a cantare una canzone tremenda: “inclito occhio del giorno ora vedo la tua luce per l’ultima volta: non sono più io” - oujkevt j ei[m j ejgwv - (1184 - 1185). La guerra serve se non altro a smontare i fanfaroni che si sono pavoneggiati nell’intraprenderla: toglie loro la maschera di eroismo, grandezza e autorevolezza rivelandoli quali poveri uomini.

Quindi lo stratego ferito entra in scena malconcio e sorretto da due soldati.

Si lamenta per “questi odiosi dolori agghiaccianti” - stugera; tavde ge kruera; pavqea - resi visibili dal trucco sull’attore, quindi esagera non senza del resto prevedere la propria fine che avverrà nel 413: “diovllumai doro; " ujpo; polemivou tupeiv"” (1194), muoio colpito da una lancia nemica.

La sofferenza aumenterebbe se Diceopoli lo vedesse poi sghignazzasse sulle sue sventure.

L’orrore della derisione è dichiarato insopportabile da Aiace che nella tragedia di Sofocle arriva a uccidersi e da Medea che in quella di Euripide ammazza i propri figli dopo avere detto a se stessa:

“Su via, non risparmiare nulla di quello che sai,

Medea, nel progettare e nell'ordire:

procedi verso l’orrore: adesso è una prova di ardimento.

Vedi quello che subisci? non devi dare motivo di derisione

 ai discendenti di Sisifo per queste nozze di Giasone,

tu che sei nata da nobile padre e discendi dal Sole.

E poi lo sai: oltretutto noi donne siamo

per natura assolutamente incapaci di nobili imprese,

ma le artefici più sapienti di tutti i mali” (Medea, 401 - 409).

 

Entra in scena appunto Diceopoli tra due cortigiane discinte

Palpa due tettine dure come mele cotogne - tw`n tutqivwn, wj" slhra; kai; kudwvnia - 1199.

I meli cotogni erano alberi sacri ad Afrodite come si legge nel frammento più famoso di Ibico (seconda metà del VI secolo): "in primavera firiscono i meli cotogni, alberi sacri ad Afrodite, irrigati dalle correnti dei fiumi dov'è il giardino intatto delle vergini, e i fiori della vite crescendo sotto i tralci ombrosi dei pampini sbocciano, ma per me Eros rimane sveglio e tormentoso. Come Borea tracio bruciante sotto la folgore, egli avventandosi dalla parte di Cipride con aride follie, oscuro e impudente, con prepotenza e senza tregua fa la guardia al mio cuore" (6 D.) .

 

L’amore di Ibico è tormentoso, mentre il sesso fatto da Diceopoli è ilare.

Il pacifista di Aristofane non si fa mancare il vino per inebriare il suo festeggiamento mentre lo stratego vulnerato lamenta le proprie tormentose ferite - ijwv ijwv, traumavtwn ejpwduvnwn (1205).

I piccoli traumi di Diceopoli sono leggeri e piacevoli punture amorose: tiv me su, davknei"; (1209), tu perché mi mordi?

Lamaco: “lavbesqe, mou, lavbesqe tou` skevlou": papai`, - proslavbesqj, w\ fivloi ” (1214 - 1215), tenetemi, tenetemi la gamba, ahi, ahi, tiratela al posto giusto o cari.

Il controcanto del pacifista: “ejmou` dev ge sfw; tou` pevou" a[mfw mevsou - proslavbesq j, w\ fivlai ” (1216 - 1217), a proposito voi due prendetemi il bischero nel mezzo, e tiratelo come si deve o care.

Lamaco lamenta ancora vertigini e capogiro per avere battuto la testa.

Diceopoli replica: “kajgw; kaqeuvdein bouvlomai kai; stuvomai - kai; skotobiniw` ” (1220 - 1221) e io voglio andare a letto, ce l’ho duro e non ci vedo dalla voglia di fottere

Seguono altri lamenti del guerrafondaio e grida di giubilo dell’amante della pace, delle donne e del vino.

Il portavoce del coro, oramai del tutto convito, sta dalla parte di Diceopoli ed esulta con lui (1233 - 1235).

Fine degli Acarnesi di Atristofane

Mie sono le traduzioni e miei i commenti. Ne prendo la responsabilità “sanza tema d’infamia”.

 

giovanni ghiselli



[1] Cfr. Plutarco, Vita di Pericle, 38

[2] Specie di riassunti che risalgono all'edizione di Aristofane di Bisanzio, non l'autore ovviamente ma un filologo, prefetto della biblioteca di Alessandria, vissuto tra il 245 e il 168 a. C.

[3] Questo verso dell’Edipo re di Sofocle fa parte di una breve ajntilabhv con uno scambio concitato di battute polemiche tra Edipo e Creonte: Edipo invoca la città come fosse una donna amata molto, poiché l'amante molto le ha dato. Egli l'ha salvata già una volta ed ora sta mettendo a repentaglio la sua vita per salvarla di nuovo.

[4] P. P. Pasolini, Scritti corsari, p. 76

[5] Nel nome di Dioniso, p. 82

[6] 1984, p. 1, p. 47.

[7] 429 a. C.

[8] Caterina Barone (a cura di) Euripide Andromaca, p. 7.

[9] G. Orwell, 1984, parte Ii, cap. 3.

[10] La nascita della tragedia, cap. XIII

[11] Hegeliani e schopenhaueriani

[12] Del 1888.

[13] F. Nietzsche, Ecce homo, La nascita della tragedia, p. 49.

[14] Ecce homo, “Perché sono un destino”, 1

[15] Egli esordisce dicendo: questo si chiama bussare per davvero! Se un uomo fosse portiere dell'inferno (if a man were porter of hell - gate) avrebbe l'abitudine antica di girare la chiave (II, 3). Non "possiamo fare a meno di sentire che nel far finta di essere il portiere dell'inferno egli è terribilmente vicino alla verità" (Bradley, op. cit. , p. 424).

[16] ijscnaivnw, termine del lessico ippocrateo, come se la poesia di Eschilo, gonfia e malata, avesse bisogno di cure

[17] Cfr. , Orazio Odi, I, 6, 6: "Pelidae stomachum cedere nescii ", l'ira di Achille incapace di cedere) .

[18] A. Maddalena, Thucydidis Historiarum Liber Primus, p. 61.

[19]"Creso come punto di partenza", Canfora - Corcella, Lo Spazio Letterario Della Grecia Antica, vol. I, tomo, I, p. 439.

[20] Domande di un lettore operaio, vv. 16 - 19, da Poesie di Svendborg, 1939, , in Brecht, Poesie, p. 157.

[21] Propendo per una datazione bassa, posteriore al 415 a. C.

[22]Eschilo, Agamennone, vv. 434 - 437).

[23] Del 415 a. C.

[24] Del 412 a. C.

[25] Del 408 a. C.

[26]C. Wolf, Cassandra, p. 85.

[27] G. Giannelli, Le grandi correnti della storia antica, p. 101.

[28] Cfr. Alfieri, Antigone, V, 2, v. 76.

[29] Luca Canali, op. cit. , p. 61.

[30] L. Canfora, Esportare la libertà, p. 40 e p. 44.

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