domenica 6 ottobre 2024

Il nodo di Gordio. Alessandro e Cesare interpretano i segni ciascuno pro domo sua.


 

Libro II di Arriano.

Intanto Mèmnone a capo della flotta persiana occupava Chio e Lesbo, tranne Mitilene. Mentre ne blocca il porto però muore di malattia e questo fatto danneggiò molto il re di Persia. “Se ancora si poteva salvar qualcosa, Memnone sembrava l’uomo indicato per questo scopo”[1].

Farnabazo, nipote di Memnone prese la città di Mitilene dopo un accordo. Farnabazo occupò anche Tenedo (isola presso Troia).

Antipatro il reggente di Macedonia intanto faceva presidiare l’Eubea e il Peloponneso.

Al. si informò sul nodo di Gordio in Frigia.

 Gordio era un uomo povero: aveva poca terra e due buoi: con uno arava, con l’altro tirava il carro. Un giorno mentre arava, sul giogo si posò un’aquila e vi rimase fino allo scioglimento dei buoi. Gordio andava a Telmesso per consultare gli indovini e incontrò una ragazza che si recava a prendere acqua: questa gli consigliò come sacrificare a Zeus, e Gordio la sposò. Da loro nacque Mida. Questi, nobile e bello, giunse su un carro con il padre e la madre tra i Frigi travagliati da lotte intestini ed essi, secondo il responso oracolare, lo fecero re. Mida fece cessare la stavsi~ e dedicò il carro del padre sulla rocca come ringraziamento a Zeus che gli aveva mandato l’aquila. Oltre questo, si narrava, sul carro, che chi avesse sciolto il nodo del giogo del carro avrebbe necessariamente dominato l’Asia (II, 3, 6) tou`ton crh`nai a[rxai th`~ j Asiva~. Il nodo era di corteccia di corniolo[2] (ejk floiou` kraniva~, 2, 3, 7) e non se ne vedeva la fine né il principio. A. era in difficoltà e temeva che non slegarlo producesse movimenti nella massa: secondo alcuni lo tagliò con la spada (tw`/ xivfei dievkoye) e disse che era sciolto, mentre Aristobulo scrive che estrasse la caviglia del timone. Comunque si allontanò come se la profezia si fosse avverata. Tuoni e lampi di notte e un sacrificio di ringraziamento il giorno dopo confermarono il tutto (2, 3, 89.

 

Curzio Rufo.

Scrisse sotto il regno di Claudio, poco dopo la morte di Caligola. Compose le Historiae Alexandri Magni in dieci libri. Non ci sono arrivati i primi due. Abbiamo già detto che è molto più critico di Arriano nei confronti di Alessandro.

 

Il terzo libro di Curzio Rufo inizia dalla primavera del 333 con la presa di Celene, in Frigia. C’è subito l’episodio del nodo di Gordio che invece Diodoro ignora. I Macedoni temevano un cattivo presagio. Ma Alessandro disse: “Nihil interest quomŏdo solvantur (III, 1, 18) e tagliò con un colpo tutte le cinghie.

“Come per l’uovo di Colombo, non è il risultato, ma la novità della soluzione, che porta l’impronta del genio”[3].

 

Alessandro si fa profeta di se stesso, dando,  non prendendo gli auspici sul suo destino.

In Plutarco, Vita 14, 6 "Volendo poi consultare il dio sulla spedizione andò a Delfi e poiché per caso erano giorni nefasti, nei quali non è in uso dare oracoli, dapprima mandava a chiamare la sacerdotessa".-

Poiché quella si rifiutava e metteva avanti la norma, egli stesso, salito, la trascinava a forza nel tempio, ed ella come vinta dalla risolutezza disse:"sei invincibile, figliolo” ajkivnhto~ ei\ w\ pai`

 

Excursus su Cesare

 

Così Cesare "Ne religione quidem ulla a quoquam incepto absterritus umquam vel retardatus est. Cum immolanti aufugisset hostia, profectionem adversus Scipionem et Iubam non distulit. Prolapsus etiam in egressu navis, verso ad melius omine, Teneo te, inquit, Africa "(Svetonio, Caesaris Vita , 59), non si lasciò distogliere da qualsiasi impresa neppure da alcuno scrupolo religioso. Sebbene gli fosse sfuggita una vittima mentre sacrificava, non rimandò la spedizione contri Scipione e Giuba. Scivolato per giunta nell'uscita dalla nave, girato al positivo il presagio, disse:"Ti tengo, Africa!".

Cesare In Gallia fana templaque deum donis referta expilavit (Svetonio, 54) e durante il primo consolato (59) rubò tre mila libbre d’oro dal Campidoglio, e sostenne le guerre civili evidentissimis rapinis ac sacrilegis. Risale ad Ecateo il problema se sia lecito toccare i tesori dei templi.

 

Nel De bello civili Cesare ritorce questa accusa di sacrilegio facendo il processo alle intenzioni dei suoi nemici: “egli costruisce la storia della Ephesia pecunia “il denaro di Efeso” che i suoi avversari, Scipione e Ampio Balbo (III, 33; 105, 1) avrebbero avuto in animo di rubare”[4]. Ma l’arrivo di Cesare, o addirittura, nel primo caso, l’annuncio del suo arrivo lo impedirono: “In duobus temporibus Ephesiae pecuniae Caesar auxilium tulit ” (De Bello civili, III, 105).

“Quanto a Roma, Cesare insiste sulla volontà dei pompeiani, di procurarsi, nel 49 a. C., al momento della fuga (18 gennaio), il denaro custodito nell’”erario santo” …in tutti questi casi, Cesare vuole mostrare che i suoi avversari hanno tentato il “sacrilegio”; in realtà, in nessuno di essi il “sacrilegio” fu precisamente compiuto”[5]. Anche questa volta fu la notizia dell’arrivo di Cesare a fermare il gesto sacrilego del console Lentulo che voleva dare la pecunia a Pompeo ex senatusconsulto (D. B. C. !, 14).  Ma a Roma si sparse un tale panico ut…Lentulus…protinus aperto sanctiore aerario ex urbe profugeret.

“Al contrario, proprio l’”erario santo” fu violato da Cesare in quello stesso 49 a. C., in aprile; Cesare sorvola su questo suo atto di forza, mentre insiste sulle non realizzate analoghe intenzioni dei suoi nemici”[6]. Floro e Appiano accusano Cesare di avere saccheggiato l’erario.

 E’ la deformazione storica dei Commentarii che hanno intenti apologetici verso se stesso, mentre vi ricorrono formule polemiche contro i nemici: all’inizio del D. B. C. Cesare afferma: “pecuniae, a municipiis exiguntur, e fanis tolluntur, omnia divina humanaque iura permiscentur” (I, 6). Questo avviene contra omnia vetustatis exempla. Ma i suoi avversari chiamavano sacrilego proprio lui: “Postea vero evidentissimis rapinis ac sacrilegis et onera bellorum civilium et triumphorum ac munerum sustinuit impendia” (Svetonio, I, 54).

 Dunque il prendere denaro dai templi sarebbe tabù. Cesare non nega tale tabù, ma a volte si mostra spregiudicato: i pompeiani divennero troppo baldanzosi dopo la vittoria di Durazzo poiché dimenticavano come portano grandi danni  piccole cause o di ipotesi false, o di improvviso terrore, o di religione posta contro (parvulae saepe causae…obiectae religionis, D. B. C. III, 72) . Cesare arrivò a dire, con un’immagine di sapore catilinario”[7]. “Nihil esse rem publicam, appellationem modo sine corpore ac specie”, solo una denominazione (Svetonio, Vita, 77). “Eoque arrogantiae progressus est, ut, haruspice tristia et sine corda exta quondam nuntiante, futura diceret laetiora, cum vellet; nec pro ostento ducendum, si pecŭdi cor defuisset”(77), e giunse a tal punto di arroganza che, dicendogli una volta un aruspice che le viscere apparivano infauste e mancava il cuore, replicò che sarebbero stati propizi quando avesse voluto, e che non doveva considerare un prodigio la mancanza di cuore di una bestia.

“Cesare dunque non osservava rigorosamente l’aruspicina: ciò che per Ampio Balbo era uno scandalo”[8]. Ampio Balbo aveva scritto una biografia di Cesare utilizzata da Svetonio (77=T. Ampius Balbus, frg. 1 Pet). “Tanusio Gemino …nella sua opera storica (che andava, forse, dal 78 ad almeno il 55 a. C.)…illustrò la proposta di Catone nel 55, di consegnare Cesare ai Germani per la sua azione “sacrilega” contro Usipĕti e Tenctĕri”[9]. Sono tribù germaniche del basso Reno. Secondo Catone Uticense quello di Cesare era un bellum iniustum.

“Tra Cesare e Alessandro Magno c’è una differenza, che è anche un segno dei tempi. A differenza del giovane Alessandro, questo maturo eroe romano dagli occhi neri, epilettico e indomito tuttavia, non prendeva le mosse da una concezione mitica della vita; si rifaceva ad un’idea razionale dell’uomo e della storia: distingueva, come Tucidide, tra la calcolata deliberazione e lo scrupolo religioso, che secondo Tucidide rovinò Nicia. Ma…non poteva contentarsi di opporre ragione a superstizione: doveva opporre una sua religione, quella del monarca dio, alle mordenti critiche della classe degli ottimati, contro cui aveva combattuto sempre…un’altra e più profonda differenza tra Cesare pensatore e Cesare uomo politico. Nella sua opera sulla Guerra civile, questo condottiero non fa cenno a quell’ispirazione divina a cui i suoi contemporanei ricondussero la sua grande decisione della notte fra il 10 e l’11 gennaio: il passaggio del Rubicone. Il Cesare di tutti noi, è, ancor oggi, l’uomo che disse allora: “il dado è tratto”; questo non è il Cesare del Bellum civile, ma il Cesare delle Historiae scritte dal suo ufficiale più “indipendente” e acuto: Asinio Pollione.

Nel suo racconto Cesare aveva voluto esporre le ragioni storico-giuridiche della decisione presa, “condensate” in un’arringa ai soldati (B. C. I, 7)”[10].

Caesar apud milites contionatur . Si lamenta del fatto che nella repubblica si sia introdotto novum exemplum…ut tribunicia intercessio armis notaretur atque opprimeretur” (I, 7), il veto dei tribuni veniva censurato e soffocato con le armi.  Perfino Silla che aveva spogliato la tribunicia potestas, tamen intercessionem liberam reliquisse.    

“Asinio, che ancora portava nell’animo il ricordo fascinoso del capo, e tuttavia voleva a suo modo esercitare una critica “indipendente”, dipinse invece un “passaggio del Rubicone” in cui il lettore ritrovava ancora l’ansia e la gravità di quella decisione suprema”. Il racconto di Asinio lo ricostruiamo attraverso storici più tardi. “Tra il racconto di Cesare, scritto forse verso il 46 a. C., e quello di Asinio, che cominciò le sue Historiae verso il 30, corrono quindici anni, o più; ma la differenza non è solo nelle date; è più significativa e radicale; Cesare, scrittore “tucididèo”, ossia razionale, non poteva intendere abbastanza i momenti irrazionali della sua stessa impresa…le Historiae di Asinio potevano riflettere la vera situazione, in maniera più adeguata, senza preoccupazioni apologetiche…Il Cesare autentico è però un incontro della razionalità tucididèa…con la passione politica, che lo animò in questi momenti decisivi”[11].

 

Un altro momento decisivo è il discorso di Vesonzio del 58 che mostra una continuità fra Cimbri, Spartachisti e Ariovisto, rex Germanorum.

I Romani temevano i Germani per la ingenti magnitudine corporum (De bello gallico, I, 39). Il timore è sine causa poiché la constantia prevale sul furore barbarico e servile. Un’altra arma vincente è l’officium imperatoris, il senso del dovere del comandante. Inoltre la sua innocentia e la sua felicitas, il disinteresse e la buona fortuna. Se gli altri non lo seguiranno andrà con la sua coorte pretoria: la decima legione, la preferita.

“Cesare era nobile, Asinio d’origine “borghese”; ma proprio la vittoria di Cesare sugli ottimati aprì la via, definitivamente, ad una svolta “borghese” nella storia del mondo romano”[12]. 

 

  Bruto Maggiore addirittura simulò una caduta: quando l'oracolo delfico infatti preconizzò che avrebbe avuto il sommo potere a Roma quello che per primo avesse baciato la madre, Bruto, avendo capito, "velut si prolapsus cecidisset, terram osculo contigit, scilicet  quod ea communis mater omnium mortalium esset " (Livio,  I, 56, 12) come se fosse caduto per una scivolata, diede un bacio alla terra, evidentemente poiché quella era la madre comune di tutti i mortali.

"Il momento è fondamentale, si parla di accedere al regno - e Bruto cade! Ma la sua superiore intelligenza gli permette di rovesciare il massimo della disgrazia o dell'errore - il prolabi, il peccare, lo scelus - nel massimo della fortuna….Cesare, sbarcando in Africa, scivolò e cadde a terra: creando panico fra i soldati per il malum omen di quella caduta in un momento così cruciale. Ma riuscì a salvare la situazione, e con grande prontezza, perché "verso ad melius omine 'teneo te' inquit Africa! [13]"(volto a suo favore il presagio disse:"ti tengo, Africa!".

 

Nel racconto di Frontino[14] morto sotto Traiano Cesare se ne esce addirittura in un "teneo te, terra mater!" (ti tengo, terra madre!).

 

 

Mentre, secondo Cassio Dione (160-235)  egli afferrò e baciò la terra, gridando poi:"Ti tengo, Africa!"[15]. Ci sembra francamente di leggere cose note. Una caduta in un momento cruciale, poi, subito un "tenere" la terra: per non parlare della terra "madre" , o del "bacio" dato alla terra. Al fine di neutralizzare il cattivo omen, Cesare si comporta da Bruto. Applica lo schema di chi, cadendo, e quindi producendo un cattivo augurio, stabilisce in realtà un rapporto privilegiato con la madre di tutti gli uomini[16]. Ecco dunque un esempio concreto di come può agire, sotto forma di ripetizione, un paradigma offerto dal mito"[17].

 

In Cassio Dione (II-III sec. d. C. Storia di Roma dalle origini al 229 d. C.) Cesare, appena toccò terra, inciampò, e i soldati, avendolo visto cadere bocconi, si scoraggiarono e, turbati, rumoreggiarono, ma Cesare non restò imbarazzato, anzi wJ" kai; eJkw;n dh; peswvn, anzi, come se fosse caduto apposta, afferrò la terra, la baciò e gridando  disse: “ e[cw se, jAfrikhv” , ti tengo, Africa (42, 58, 3).

Viene  rivendicata dignità alla scivolata, come Prometeo di Eschilo fa con il delitto. Le Oceanine si impietosiscono per la sorte dell’Incatenato e lo stesso Titano si sente meritevole di tanta compassione (v.246), eppure è tutt'altro che pentito e prorompe nel grido di ribellione con il quale afferma la dignità del suo delitto:"io sapevo tutto questo:/di mia volontà, di mia volontà ho compiuto la trasgressione, non lo negherò (eJkw;n eJkw;n h{marton, oujk ajrnhvsomai)/ aiutando i mortali ho trovato io stesso le pene (aujto;~ huJrovmhn povnou~ )"(Prometeo incatenato, vv. 265-267).

L’eroe non si impressiona per il presagio sinistro: “Ma dal mio padre appresi/ che il presagio sinistro/è mirra nella coppa dell’eroe”, dice Ippolito nella Fedra di D’Annunzio (del 1909, atto II).

Fine excursus

 

Pesaro 6 ottobre 2024 ore 11, 29 giovanni ghiselli.

 

 

 

 

 



[1] J. G. Droysen, Alessandro Il Grande, p. 117.

[2] Il materiale delle sarìsse.

[3] J. G. Droyse, op. cit., p. 142 n. 1.

[4] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 195.

[5] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 195

[6] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 196.

[7] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 198

[8] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 198.

[9] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 183.

[10] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 199-200.

[11] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 201.

[12] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, 2, p. 201.

[13] Svetonio, Divus Iulius, 59.

[14] Frontino, Stratagemmata, I, 21, 2. Qui Cesare sta salendo sulla nave, non sbarcando.

[15] Cassio Dione, 42, 58, 3.

[16] Che si tratti di uno schema topico, appare molto probabile. Cfr. Frontino, Stratagemmata, I, 21, 1, dove un aneddoto solo leggermente variato (terram opprimere stavolta, non tenere) è attribuito a Scipione.

[17] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, Einaudi Torino, 2000, p. 104.

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