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lunedì 26 settembre 2022

Giuseppe Moscatt: "Goethe e l'Italia del Rinascimento. All'inizio di un nuovo mondo"

Goethe e l'Italia del Rinascimento.
All'inizio di un nuovo mondo
di Giuseppe Moscatt

In un nostro precedente intervento avevamo rilevato le origini della tragedia moderna nel Torquato Tasso del Goethe maturo, quando da alto funzionario dell'amministrazione del Granducato maturò l'idea di liberarsi spiritualmente dalle pastoie della cd. camarilla di Corte, verificando in Italia la sua passione classica stemperante il suo titanismo ben noto, ma ormai raffreddatosi sulle vicende di Corte, quando già l'Europa sentiva la necessità di riformare le istituzioni della società barocca. La critica nazionalista tedesca, da Gundolf a Strich, insistette sulle motivazioni personali del suo viaggio in Italia: una fuga per evitare chiacchiere nel suo rapporto con la Baronessa Charlotte von Stein? Oppure per riposarsi dalle fatiche di Governo che il granduca Karl August gli  assegnava fidando della sua ottima capacità di mediazione fra opposti interessi sociali, anche per impedire conflitti prodromici a una prevedibile rivoluzione.
Certo, Goethe, quasi di nascosto, partì dalla stazione termale di Karlsbad, portando con sé le bozze del Tasso, con l'anima di ritrovare l'anima classica di quell'autore a lui tanto simile nella ricerca di autenticità all'interno di quel nido di vipere che era la Corte, dove perfino il suo dichiarato amico Wieland sparlava della sue avventure e dove anche il fidato Herder non osava difenderlo. Aveva anche un'altra progetto di opera classica che andava limando, una rilettura dell' Ifigenia in Tauride di Euripide e una copia della “Divina Commedia”. Forse voleva rileggere anche quel poema, visitando direttamente i luoghi di Dante, che giudicava orrido l'inferno, tiepido il Purgatorio, aulico il Paradiso.
Di quest'ultimo e su Dante, insistette nella grandiosa poetica, ma della forma fino al 1821 ebbe un senso di sgradevolezza, una simbologia truce, da turbarlo e da fargliela sembrare prima di barocchismo gotico, una poetica “vomitevole”. Piuttosto, lungo il viaggio da Verona a Palermo, andò verificando la validità classica del Tasso e dell'Ariosto, le loro fedi in Dio nella natura, quali di loro avesse meglio sentito la vera cultura italiana, lo spirito e le passioni. Ecco perché scrutava il territorio, gli usi, le vestigia classiche. E nella corrispondenza che teneva con gli amici francesi, propendette per la classicità del Tasso, riversando in Ifigenia i caratteri dell'amore, della lotta e della sublimazione della morte in sacrificio dell'amato proprio della Clorinda della Gerusalemme liberata. Una figura che solo Shakespeare e poi l'amico Schiller avevano avuto la maestria nel raffigurare poeticamente, negando nel contempo il sottile sarcasmo dell'Ariosto, in cui Goethe vedeva  un aristocratico freddo calcolatore, un Voltaire dal quale si era allontanato all'epoca del titanismo lipsiano.
La natura solare del paesaggio italiano - nel mezzo del quale Wolfgang sta beatamente disteso nel famoso ritratto del Tischbein - rappresenta la sua olimpica persona dentro la campagna romana, intento a pensare, non tanto turbato, né sorridente, né preoccupato, ma riflessivo, contemplante anche se nel vortice di una tragedia. Un idealismo vivente, che quasi alla fine nella sua vita (1827) l'editore Adolf Wagner, ammaliato dalla filosofia hegeliana, non mancò d porre sul frontespizio di una raccolta di saggi del vecchio Vate su Dante, Petrarca, Ariosto e Tasso, il c.d. “Parnaso italiano” dove il Rinascimento divenne nell'ultimo periodo il modello culturale della sua amata Weimar e che  sarà inteso come il prodromo del suo messaggio finale, la Weltliteratur. Volume che però non ebbe subito che critiche: non mancarono romantici che lo umiliarono nel ripetere contro di lui quello che da giovane aveva egli stesso contrastato, quando da novello Prometeo dello Sturm und Drang si era scagliato contro le forme plastiche accademiche che negli anni '70 del '700 avevano sclerotizzato la cultura tedesca divenuta schiava dell'arte razionalista e borghese di Racine e Corneille, classica solo di maniera e vuota nel messaggio di verità e utilità. vacua nello spirito eroico e di mero sacrificio già in un altro nostro intervento su Wieland e la satira di Goethe (1774), Götter, Helden und Wieland  (Dei, Eroi e Wieland) avevamo stigmatizato tale reazione parodistica e ironica di quella fase culturale.
Ma la analoga reazione proprio contro di Lui, opposta al suo classicismo in versione cosmopolita, capeggiata da Tieck e dallo Immermann, lo angustiarono, ma non lo fecero deflettere. Poco tempo dopo la pubblicazione del Viaggio in Italia (1815). Opera faticosamente rielaborata unitariamente i trenta anni dopo sulla base di appunti sparsi e di un diario personale naturalmente impreciso.
Nel saggio diede alle stampe una robusta replica alle critiche superficiali astrattezza e di artificiosità di quella rielaborazione, dove a loro dire si peccava di realismo, oppure si taceva della vera situazione di esperienza quotidiana, che i romantici privilegiavano nelle moderne rappresentazioni. Goethe li tacciò di presunzione e di superficialità, perché il suo estro poetico non si era affatto adagiato su gli allori; né si era fermato agli eroici furori del Werther, che aveva tanto plasmato la gioventù tedesca rivoluzionaria del primissimo ottocento. In una magnifica difesa e come migliore contrattacco e implementare il messaggio cosmopolita della Weltliteratur, riaprì il discorso su Dante, di cui rinnovò la lodevole capacità poetica proprio nella parte seconda del Faust dove al senso di rabbrividimento, affiancò una salda plasticità classica che, abbinata alla rivalutazione della pietà cristiana, avrebbe riedificato una nuova estetica soggettiva idonea al nuovo mondo tanto da informarlo come era stato col Werther. A Eckermann, nel dialogo biografico del 1827, segnalò questo passaggio ideale - non lontano dalle discussioni con Schiller che lo avevano spinto a rivedere il Wilhelm Meister, da semplice diario di un aspirante attore, a un uomo in pellegrinaggio nel mondo, quasi una ripresa del viaggiatore titanico delle origini - proprio partendo da una canzone popolare che udì in una bettola romane, mentre inseguiva le procaci forme della bella Faustina. Fu una metafora, divenuta poco dopo realtà quando convisse con la Christiane Vulpius, sua donna di servizio. Il Canto notturno - che ci rammenta il Pianoforte 'e notte di Salvatore Di Giacomo di più di un secolo dopo - così musicalmente esprimeva, pur nel suo letterale significato, una libera e autentica manifestazione universale e astorica d'amore non più solo espressione della cultura locale, ma una lirica d'amore e morte tipica di un Anacreontica, ma anche di un sonetto shakespeariano, di un ritornello di Bellini e oggi un De Andrè. Così infatti, scriveva Goethe:
 
“Presto dal letto morbido, sognante, un vago orecchio! Al suono delle corde dormi! Che vuoi di meglio?/Al suono delle mie corde celebra il firmamento i sentimenti eterni. Dormi! Che vuoi di meglio?/ I sentimenti eterni sublimi mi sollevano dalla ressa del mondo. Dormi! Che vuoi di meglio?/Dalla ressa del mondo mi separi fin troppo; mi chiudi in questo freddo. Dormi! Che vuoi di meglio?/ Mi chiudi in questo freddo, mi ascolti solo in sogno. Ah, in quel letto morbido dormi! Che vuoi di meglio?”
(Dalle raccolte di poesia diretta da P. Di Palmo, nella collana, I grandi poeti, ed. speciale del Sole24/ore, 2008, pagg. 182-183 con testo a fronte)
 
Era una forma epica, cui faceva da contrappunto il dramma dell'esistere, con la mediazione tragica. Un modo di versificare che Goethe aveva maturato non solo dei brevi “Gazhel” del Divano Occidentale/orientale; ma anche all'ode “al suono della Campana di Schiller” che il Vate dettò in commemorazione dei 10 anni dalla morte dell'amico e al monologo di Faust nel finale del poema. Si può così confermare come la sua discesa in Italia avesse lo scopo spontaneo di riannodare arte e cultura e natura, di rivestire il suo eterno spirito femminino – testimoniato dagli innumerevoli amori che lo infatuarono; dalla piccola Grecht a 14 anni, fino alla giovanissima Lotte di Weimar, come ci raccontò Thomas Mann - con le forme dell'Italia classica, specialmente quando scrisse un poco conosciuto saggio di critica teatrale nel 1788, “la figura femminile nel Teatro Romano” proprio durante il più volte citato viaggio sulla base dell'etica di Spinoza - che il filosofo Mendelsohn e il collega Lessing avevano resuscitato in Germania all'epoca della guerra dei 7 anni, che Wolfgang giovane aveva vissuto con apprensione quando la soldataglia francese aveva invaso la sua Francoforte. L'olimpico ipotizzò la superiorità della natura come uno spirito femminile che aveva pervaso tutta l'estetica da Omero a Virgilio, soprattutto la commedia di Aristofane e soprattutto Plauto e La Mandragola di Machiavelli, che riteneva la matrice delle commedie elisabettiane di Shakespeare e di Calderon. Qui la Natura non solo era vista come anche autenticità, ma anche un luogo vivente e reale. E poi nel 1789, un altro saggio indicativo di quanto detto, “la semplice imitazione della Natura nei modi e negli stili poetici, dove faceva una penetrante storia dello spirito materialistico italiano nell'arte rinascimentale. Un elemento classico, o neoclassico, rinvenuto da Winckelmann, rivoluzionario quanto creativo e breve.
Per Goethe fu un miracolo della Natura, madre della verità e che è per lui il valore assoluto pari a Dio. Scriveva a sinterizzare di quel viaggio favoloso per la sua vita, il cappello di un vestito che indosserà fino alla fine, quando chiese più luce nel letto di morte. Tutto passa in questo mondo, perciò desidererei di impegnarmi a perseguire ciò che non muta, tanto che da quando compresi Spinoza ben presto il mio spirito vide l'eterno in forma di Madre. Quell'Edda madre pagana che l'amico e ispiratore Herder gli aveva fatto balenare nella taverna di Auerbach a Lipsia vent'anni prima. Come l'etica kantiana protestante avrà in Schiller predominanza estetica; così l'etica spinoziana guidò la morale artistica di Goethe. Proprio dalla loro collaborazione  nacque qualche anno  l'età dell'oro di Weimar. I mesi italiani di Wolfgang così favorirono questo nuovo tassello della costruzione della sua Bildung.
Riprese così sulle ore di Winckelmann i caratteri assoluti di semplicità e grandezza degli Dei classici e li riversò nelle due opere che concluse in Italia, il Tasso e Ifigenia drammi figli naturali del suo sentimento acquisito lungo quel viaggio, profetico per la sua notevole interiorizzazione, che lo portò di nuovo a Weimar poco prima della Rivoluzione Francese.  Dopo un iniziale curiosità e benevolenza, questa lo atterrì per la inaudita violenza successiva  tale da alterare appena raggiunta pace dell'animo, dove il pensiero politico era ormai orientato alla lenta, ma inesorabile scelta di graduali riforme sociali, nel solco che il Principe Karl August aveva già avviato. Ma ritornando alle serate romane della primavera del 1788, nei giardini di villa Borghese, Goehte aveva ripreso in mano le bozze del vecchio Faust e lo riadattò alla luce del nuovo orientamento, né malinconico, né nostalgico, né titanico alla Werther, come poteva apparire nell'edizione del frammento dell'Urfaust prima di andare a Sud.
Perché non era un mero sogno di un tempo che fu, un ritorno all'ordine arcaico, che Goethe aveva già studiato in Germania nella figura del Cavaliere Marino, che nel 1690 aveva proclamato “Noi siamo gli Arcadi” cioè i nostalgici dell'età classica. Invece il classico di Goethe emergerà al rientro dall'Italia nel secondo Faust, rappresentato subito in Italia non a caso. Se questo sarà simbolico di un progetto di lungo respiro; esso lo si capirà perché continuò nel suo secondo viaggio a Roma nel 1799, dove ricompose la scena della “cucina di una strega”, in cui il professore  ringiovanì dopo aver bevuto un filtro magico, una scena che risulterà a cavallo fra il mito nordico e la leggenda italiana, dove spirito, streghe e diavoli in coro non erano da meno. In suo commento, qui il Dante dell'inferno, tanto orridamente valutato, in gioventù, riappare all'improvviso e sicuramente con maggiore simpatia del precedente. Per ben comprendere  questo cambio di passo, foriero di un futuro progetto di vita  presentato al genere umano - la c.d. Weltliteratur – è opportuno rieleggere  i versetti:
 
Fausto e Mefistofele (dalla cucina dei una strega)
“Le sciocche stregherie mi sono a noia; E piacer mi prometti in tale ammasso/di scempiaggini? Avvisi ad una vecchia/chiedere io debbi?E tanti anni dal dorso/Una laida mistura ho da lavarmi?/ Tristo di meglio tu non hai!/La speranza mi lascia … e la Natura/O la virtù d'un nobile intelletto/Balsamo no trovò che all'uom potesse/ Riferire la giovinezza?”
(traduzione di A. Maffei, Firenze, 1866, pag. 147)
 

Non era il tradizionale linguaggio di Goethe. L'esperienza italiana ha  ora lasciato il segno. L'Italia lo aveva cambiato nel raffigurare il diavolo  e le sue donne.  una passione  Ora si vede invece tutta l'ironia e la speranza dell'uomo del sud. E fra poco, quando la influenza morale di Schiller sarà più evidente, il secondo Faust, costituirà un disegno di rinnovamento globale del mondo. Quella Weltliteratur – vd. in questo blog, il già citato nostro intervento del 30.5.2015 - metafora allegorica del suo pensiero mai tramontato e che oggi può essere ripreso in un'ottica di letteratura europea.

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