domenica 18 settembre 2022

Medea. 4

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Per la conferenza che terrò a San Giorgio del Sannio il 14 ottobre 

Torniamo alla Medea di Euripide
  
 “Dicono di noi che viviamo una vita senza pericoli 248
 in casa, mentre loro combattono con la lancia,
 pensando male: poiché io tre volte accanto a uno scudo-wJ~ tri;~ par j ajspivda
 preferirei stare che partorire una volta sola sth`nai qevloim j a]n ma`llon h] tekei`n a{pax. 251
 
La terribilità del parto
Medea dice di preferire la guerra al parto  inaugurando un tovpo" che arriva alle soldatesse di oggi ed è  passato attraverso Ennio (239-169 a. C.) il quale fa dire alla sua Medea exul :"nam ter sub armis malim vitam cernere/quam semel parere, infatti preferirei decidere la vita sotto le armi che partorire una volta sola.
 
 Le sofferenze del parto sono ricordate nell' Elettra di Sofocle da Clitennestra quando tenta di giustificarsi per il tradimento e l'assassinio del marito il quale sacrificò Ifigenia dopo averla seminata senza avere passato il travaglio della madre quando la partorì:"oujk i[son kamw;n ejmoi;-luvph", o{t' e[speir' , w{sper hJ tivktous' ejgwv" (Elettra, vv. 531-532).
 
Nelle Fenicie di Euripide la Corifea commenta la pena di Giocasta per Polinice dicendo:"deino;n gunaixi;n aiJ di' wjdivnwn gonaiv,-kai; filovteknovn pw" pa'n gunaikei'on gevno"" (vv. 355-356), sono terribili per le donne i parti attraverso le doglie, e tutta la razza femminile è amante dei figli.
Giocasta lo è stata anche troppo (di Edipo); Medea evidentemente fa eccezione.
 
Nell' Ifigenia in Aulide la Corifea comprende la pena di Clitennestra per la figliola  ricordando quale prova terribile sia il parto:"deino;n to; tivktein kai; fevrei fivltron mevga-pa'sivn te koino;n w{sq' uJperkavmnein tevknwn" (vv. 917-918), tremendo è partorire e comporta una grande magia comune a tutte, tanto da lottare per i figli. 
 
Nei Memorabili di Senofonte, Socrate, ricordando al figlio Lamprocle i benefici dei genitori alle proprie creature e il loro dovere gratitudine, fa presente che il nascimento del figlio è rischio di vita della madre:" hJ de; gunh; uJpodexamevnh te fevrei to; fortivon tou'to, barunomevnh te kai; kinduneuvousa peri; tou' bivou" (II, 2, 5), la donna dopo avere concepito porta questo peso, aggravata e con rischio della vita.       
 
In Anna Karenina c'è  il parto doloroso della giovane moglie di Levin il quale partecipa, mentalmente, alla sua sofferenza, forse ingrandendola :" La faccia di Kitty non c'era più. Al posto dov'era prima, c'era qualcosa di terribile e per l'aspetto di tensione e per il suono che di là usciva. Egli lasciò cadere la testa sul legno del letto, sentendo che il cuore gli si spezzava. L'orribile urlo non taceva, si era fatto ancora più orribile, e, come se fosse arrivato all'ultimo limite dell'orrore, a un tratto si spense" (L. Tolstoj, Anna Karenina (del 1877), p. 720)
 
 
Rachele, moglie di Giacobbe e madre di Giuseppe, soffrì e morì di parto nel dare alla luce la seconda creatura: “Quando il dolore travalicò ogni limite umano, ella gridò e fu un gridare terribilmente selvaggio, che non si accordava con il suo volto e non si addiceva alla piccola Rachele. In quell’ora, infatti, in cui ancora una volta fu giorno, ella non era più in sé, non era più lei, lo si udiva da quel suo orrendo muggito: non era più lei, la sua era una voce completamente estranea (…) Erano doglie spasmodiche che non affrettavano l’opera, ma serravano soltanto in una morsa di tormenti infernali quella povera santa, così che la maschera del suo volto contratta nell’urlo era divenuta cianotica e le sue dita artigliavano l’aria (…) E poi da Rachele si levò un ultimo grido, come l’esplosione estrema di una furia demoniaca, quale non si può lanciare una seconda volta senza morire, quale non si può udire una seconda volta senza perdere la ragione (…) il figlio di Giacobbe era uscito, il suo undicesimo e il suo primo, venuto fuori dall’oscuro grembo insanguinato della vita, Dumuzi-Absu, il vero figlio dell’abisso”  (T. Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, Le storie di Giacobbe, pp. 413- 414)
 
Veniamo all’Aulularia di Plauto.
Liconide  fa notare alla madre Eunomia le grida di Fedria la sua ragazza  che partorisce con dolore: un fatto che vale più delle parole. “Tibi rem potiorem verbo: clamat, partŭrit” (693).
Eunomia invita il figlio a seguirla nella casa dello zio Metrodoro. Cercherà di impetrare dal fratello quanto il nipote desidera: sposare la figlia dell’avaro Euclione
 
Di nuovo Medea
Però non vale proprio lo stesso discorso  per te e per me;252
 tu hai questa  tua città e la casa paterna
e  comodità di vita e compagnia di amici,
io, poiché sono isolata e senza città, devo subire oltraggi- e[rhmo~ a[poli~ ou\s j  uJbrivzomai- 255.
da un uomo, dopo essere stata rapita da una terra barbara- ejk gh`~ barbavrou lelh/smevnh 256
senza avere la madre, né un fratello, né un congiunto
per trovare un ancoraggio- meqormivsasqai- fuori da questa sventura 257.
 
 
La straniera dunque è esposta all’ u{bri~ maritale più della donna che non ha cambiato città dove può avere una difesa e un rifugio  dalla prepotenza del coniuge nella propria famiglia.
 
Dotatae e indotatae
Nella famiglia romana la moglie riccamente dotata poteva avere maggior potere del marito.
Riferisco un esempio tornando all’ Aulularia di Plauto
Megadoro dice che nessuna moglie non dotata dal padre rinfaccerebbe al marito di avergli portato un patrimonio maggiore del suo né pretenderebbe purpuram atque  aurum-ancillas, mulos, muliones, pedisequos,-salutigerulos pueros, vehĭcla quī vehar (500-502) porpora e oro, serve, muli, mulattieri, staffieri, valletti che portano i saluti, carrozze per andare a passeggio.
Dunque quae indotata est, ea in protestate est viri (534), mentre le spose “dotatae mactant et malo et damno viros” (535), le donne con dote colpiscono i mariti con misfatti  e perdite.
Sicché Megadoro non chiede la dote e dice all’avaro Euclione :
"Ne duas.Dum modo morata recte veniat, dotata est satis "(239) purché venga con buoni costumi (mores) ha già una bella dote.
 
C’è chi pensa che sia meglio sposare una ragazza povera per dominarla
Lo afferma Marziale (40 ca-104 d.C.) nella clausula di un suo epigramma:" Inferior matrona suo sit , Prisce, marito:/non aliter fiunt femina virque pares " (VIII, 12, 3-4), la moglie, Prisco, stia sotto il marito: non altrimenti l'uomo e la donna diventano pari.
 
Sentiamo una ripresa di questo topos fatta da Dostoevskij: “Ma non è forse vero che voi,” lo interruppe di nuovo Raskolnikov, con una voce tremante d’ira in cui si sentiva il gusto di offendere, “non è forse vero che alla vostra fidanzata…proprio nel momento in cui ricevevate il suo consenso…voi avete detto che più di tutto eravate lieto che fosse povera…perché è più vantaggioso togliere la moglie dalla miseria in cui vive, per poi poterla dominare…e poterle rinfacciare d’averla beneficata?”[14]. Raskolnikov sta parlando al pretendente della sorella, Lùzin.
 
lelh/smevnh (256): veramente Medea non è stata rapita, bensì affascinata da Giasone, che secondo Apollonio Rodio venne aiutato anche da Afrodite e da suo figlio Eros. Sicché la giovinetta perse la testa per il bel seduttore.
 
Erodoto racconta nei primi capitoli delle sue storie racconta che i Persiani fanno risalire le guerre tra Greci e Persiani, noi diremmo tra Occidente e Oriente a ratti di donne compiuti dagli uni e dagli altri. i Fenici rapirono Iò da Argo e la portarono in Egitto, quindi i Cretesi trasportarono Europa, da Tiro fenicia nella loro isola, gli Argonauti Greci rapirono Medea. Infine  Paride portò Elena da Sparta a Troia.
Leggiamo la conclusione nel capitolo IV:
"Fino a questo punto dunque, sostengono (i Persiani) , c'erano solo rapimenti degli uni dagli altri, ma da questo momento i Greci divennero grandemente colpevoli (megavlw" aijtivou"): infatti cominciarono a portare guerra in Asia prima che quelli in Europa. Ora il rapire donne la considerano opera di mascalzoni, ma prendersi cura di avere vendetta per le rapite è da stupidi, mentre non avere premura per le rapite è da saggi: infatti è chiaro che, se esse non volessero, non verrebbero rapite (dh'la ga;r dh; o{ti, eij mh; aujtai; ejbouvlonto, oujk a]n hJrpavzonto).
 
  meqormivsasqai (v. 258): infinito aoristo da meqormivzw: approdo (oJrmivzw) in un altro porto (o{rmo" ). Con questa metafora nautica Medea afferma che la famiglia di origine è  un' ancora di salvezza nel pelago tempestoso dei rapporti umani, bellicosi e feroci.
Analoga riflessione fa Leopardi:"Bellissima è l'osservazione di Ierocle nel libro de Amore fraterno, ap. Stobeo serm. o{ti kavlliston hJ filadelfiva etc. 84. Grot. 82. Gesner[15]. che essendo la vita umana come una continua guerra, nella quale siamo combattuti dalle cose di fuori (dalla natura e dalla fortuna), i fratelli, i genitori, i parenti ci son dati come alleati e ausiliari ec. E io, trovandomi lontano dalla mia famiglia, benché circondato da persone benevole, e benché senza inimici, pur mi ricordo di essere vissuto in una specie di timore (4227) o timidezza continua, rispetto ai mali indipendenti dagli uomini, e questi, sopravvenendomi, avermi spaventato, ed abbattuto e afflitto l'animo assai più del solito, non per altro se non perché io mi sentiva essere come solo in mezzo a nemici, cioè in mano alla nemica natura, senza alleati, per la lontananza de' miei; (Recanati. 16. Nov. 1826.) e per lo contrario, ritornando fra loro, aver provato un vivo e manifesto senso di sicurezza, di coraggio, e di quiete d'animo, al pensiero, all'aspettativa, al sopravvenirmi di avversità, malattie ec."[16].

Bologna 18 settembre 2022 ore 18, 18
giovanni ghiselli

p. s
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[14] F. Dostoevskij, Delitto e castigo, p. 171.
[15] Da questo passo di Ierocle (filosofo stoico del II sec. d. C., autore di Elementi di Etica e di un'altra opera etica di cui Stobeo, che raccolse Excerpta nel V d. C., conserva i frammenti) deriva l'idea dell'unione di tutti gli uomini nella lotta contro la Natura, che Leopardi svilupperà poi ne La ginestra.
[16] Zibaldone , 4226-4227.

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