martedì 13 settembre 2022

Parresía e propaganda


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Parrhsiva potrebbe essere scelta come parola chiave e considerata a partire dallo Ione[1] di Euripide dove il protagonista esprime il desiderio di ereditare da una madre ateniese questo privilegio, recandosi ad Atene, poiché lo straniero che piomba in quella città, anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la bocca senza la libertà di parola ("tov ge stovma-dou'lon pevpatai[2] koujk e[cei parrhsivan", vv. 674-675).
 Analogo concetto si trova nelle Fenicie[3] quando  Polinice risponde alla madre sulla cosa più odiosa per l'esule:" e{n me;n mevgiston, oujk e[cei parrhsivan" (v. 391), una soprattutto, che non ha libertà di parola.
Infatti, conferma Giocasta, è cosa da schiavo non dire quello che si pensa.
"La parresìa è l'elemento che il Greco avverte come ciò che massimamente lo distingue dal barbaro. L'esule soffre della perdita della parresìa come della mancanza del bene più grande (Euripide, Fenicie, 391). Inutile ricordare che il valore della parresìa svolgerà un ruolo decisivo nell'Annuncio neo-testamentario. E dunque entrambe le componenti della cultura europea vi trovano fondamento"[4].
Su questa parola chiave gioca Victor Hugo quando riporta queste parole “ingenuamente sublimi” scritte da padre Du Breul nel sedicesimo secolo: “Sono parigino di nascita e parrisiano di lingua, giacché parrhysia in greco significa librtà di parola della quale feci uso anche verso i monsignori cardinali”[5].
Vediamo ora una critica della parresia per rendere problematica anche questa.
Un biasimo della parresia, giudicata fuori luogo, troviamo in Arriano il quale celebra l’impresa e la persona di Alessandro Magno, e pur muovendogli qualche critica, tende a giustificarlo per i suoi atti tirannici. Nell’ Anabasi di Alessandro dunque l’autore accusa di  ajkaivrw/… parrhsiva/[6], inopportuna libertà di parola, lo storico Callistene che rifiutò di prostrarsi davanti al re e ne chiarì, invero non ignobilmente, le ragioni.
 
Spesso la propaganda e perfino l’astuta chiacchiera pubblicitaria vengono spacciate come discorsi liberi fatti di parole franche e disinteressate.
 
La guerra, allora come ora, era fatta pure di propaganda e i duci ne erano consapevoli. Alessandro Magno, dopo la scoperta della seconda congiura: quella “dei paggi”[7] affermò che ricevere il nome di figlio di Giove aiuta a vincere le guerre: “Famā[8] enim bella constant, et saepe etiam, quod falso creditum est, veri vicem obtinuit” ( Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni,  8, 8, 15), le guerre sono fatte di quello che si fa sapere (attraverso la propaganda), e spesso anche quanto si è creduto per sbaglio, ha fatto le veci della verità.
Cfr. Historiae Alexandri Magni, 3, 8, 7 dove  pure Dario, prima della battaglia di Isso (novembre 333),  dice “famā bella stare”. Come nelle Eumenidi di Eschilo, le parti in conflitto hanno un pensiero comune.
 
 Dopo la conquista della rupe di Aorno (326 a. C.) Alessandro magnae victoriae speciem fecit[9], creò l’apparenza di una grande vittoria con sacrifici e cerimonie in onore degli dèi.
Nelle Storie di Livio, il console Claudio Nerone, in rapida marcia contro Asdrubale, che verrà sconfitto poco dopo, sul fiume Metauro (tra Fano e Senigallia, 207 a. C.) arringa brevemente i soldati dicendo: “Famam bella conficere, et parva momenta in spem metumque impellere animos” (27, 45), quanto si dice decide le guerre e circostanze anche piccole spingono gli animi alla speranza e alla paura.  
 
Pesaro 13 settembre 2022 
giovanni ghiselli 
ore 17, 54
 
 
 


[1] Del 411 a. C.
[2] Forma poetica equivalente a kevkthtai.
[3]Rappresentata poco tempo dopo lo Ione. Tratta la guerra dei Sette contro Tebe.
[4] M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, p. 21 n. 2.
[5] Notre-Dame de Paris, p. 38.
[6] Arriano, Anabasi di Alessandro, 4, 12, 7.
[7] Avvenuta in Sogdiana, l’attuale Uzbekistan, nella primavera 327 a. C 
[8] Cfr. fhmiv. La gente non solo vive e mangia ma pure fa e interpreta la guerra seguendo il “si dice”. Seneca:"nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De vita beata , 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il "si dice".
[9] Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 8, 11, 24.

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