Parrhsiva potrebbe essere scelta come parola chiave
e considerata a partire dallo Ione[1]
di Euripide dove il protagonista esprime il desiderio di ereditare da una
madre ateniese questo privilegio, recandosi ad Atene, poiché lo straniero che
piomba in quella città, anche se a parole diventa cittadino, ha schiava la
bocca senza la libertà di parola ("tov ge stovma-dou'lon pevpatai[2] koujk e[cei
parrhsivan", vv.
674-675).
Analogo concetto si trova nelle Fenicie[3]
quando Polinice risponde alla madre
sulla cosa più odiosa per l'esule:" e{n me;n mevgiston, oujk e[cei parrhsivan" (v. 391), una soprattutto, che non
ha libertà di parola.
Infatti, conferma Giocasta, è cosa da
schiavo non dire quello che si pensa.
"La
parresìa è l'elemento che il Greco avverte come ciò che massimamente lo
distingue dal barbaro. L'esule soffre della perdita della parresìa
come della mancanza del bene più grande (Euripide, Fenicie, 391).
Inutile ricordare che il valore della parresìa svolgerà un ruolo
decisivo nell'Annuncio neo-testamentario. E dunque entrambe le componenti della
cultura europea vi trovano fondamento"[4].
Su questa parola chiave gioca Victor Hugo quando riporta queste
parole “ingenuamente sublimi” scritte da padre Du Breul nel sedicesimo secolo:
“Sono parigino di nascita e parrisiano di lingua, giacché parrhysia in greco significa librtà di parola della quale feci uso
anche verso i monsignori cardinali”[5].
Vediamo ora una critica della parresia per
rendere problematica anche questa.
Un biasimo della parresia, giudicata fuori
luogo, troviamo in Arriano il quale
celebra l’impresa e la persona di Alessandro Magno, e pur muovendogli qualche
critica, tende a giustificarlo per i suoi atti tirannici. Nell’ Anabasi di Alessandro dunque l’autore
accusa di “ajkaivrw/… parrhsiva/ ”[6], inopportuna libertà di parola, lo storico
Callistene che rifiutò di prostrarsi davanti al re e ne chiarì, invero non
ignobilmente, le ragioni.
La guerra, allora come ora, era fatta pure di propaganda e i duci ne erano consapevoli. Alessandro Magno, dopo la scoperta della seconda congiura: quella “dei paggi”[7] affermò che ricevere il nome di figlio di Giove aiuta a vincere le guerre: “Famā[8] enim bella constant, et saepe etiam, quod falso creditum est, veri vicem obtinuit” ( Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni, 8, 8, 15), le guerre sono fatte di quello che si fa sapere (attraverso la propaganda), e spesso anche quanto si è creduto per sbaglio, ha fatto le veci della verità.
Cfr. Historiae Alexandri Magni, 3, 8, 7 dove pure Dario, prima della battaglia di Isso (novembre 333), dice “famā bella stare”. Come nelle Eumenidi di Eschilo, le parti in conflitto hanno un pensiero comune.
Dopo la conquista della rupe di Aorno (326 a. C.) Alessandro magnae victoriae speciem fecit[9], creò l’apparenza di una grande vittoria con sacrifici e cerimonie in onore degli dèi.
Nelle Storie di Livio, il console Claudio Nerone, in rapida marcia contro Asdrubale, che verrà sconfitto poco dopo, sul fiume Metauro (tra Fano e Senigallia, 207 a. C.) arringa brevemente i soldati dicendo: “Famam bella conficere, et parva momenta in spem metumque impellere animos” (27, 45), quanto si dice decide le guerre e circostanze anche piccole spingono gli animi alla speranza e alla paura.
Pesaro 13 settembre 2022
giovanni ghiselli
ore 17, 54
[1] Del 411 a. C.
[2] Forma poetica equivalente a kevkthtai.
[3]Rappresentata poco tempo dopo lo Ione. Tratta la guerra dei Sette contro Tebe.
[4] M. Cacciari, Geofilosofia dell'Europa, p. 21 n. 2.
[5] Notre-Dame de Paris, p. 38.
[6] Arriano, Anabasi di Alessandro, 4, 12, 7.
[7] Avvenuta in Sogdiana, l’attuale Uzbekistan, nella primavera 327 a. C
[8] Cfr. fhmiv. La gente non solo vive e mangia ma pure fa e interpreta la guerra seguendo il “si dice”. Seneca:"nulla res nos maioribus malis implicat quam quod ad rumorem componimur " (De vita beata , 1, 3), nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci secondo il "si dice".
[9] Curzio Rufo, Historiae
Alexandri Magni, 8, 11, 24.
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