giovedì 10 ottobre 2024

Ifigenia LXXXII. Perché tardi son giunto.


 

Ero salito fino a Someda il paesino posto sulla pendice del Pizmeda volta verso sud ovest.

Qualche ora più tardi sarei andato alla stazione di Trento, a

prendere ifigenia.

A un tratto mi aggredì il pensiero malato della verginità. Dovevo

respingerlo. Camminavo sulla strada stretta e sterrata che si affaccia sull’erto pendio che scende e termina sul Rio San Pellegrino. A un tratto mi fermai a osservare quel torrente che scorre circa chilometro sotto. Notai un piccolo

ponte di legno che una volta non c'era. Vi giunsero alcuni bambini

che cominciarono a giocare: gettavano palle di neve e pezzi di

ghiaccio nell'acqua corrente che li trascinava verso l'Avisio

 Li dentivo strillare ma ma non riuscivo a capire le parole.

Allora mi sorprese il ricordo del pomeriggio di un agosto remoto.

Mi trovavo sullo stesso sentiero, e pure allora osservavo dall'alto lo scorrere

eterno del rio San Pellegrino. Quand'ecco che sul greto vidi

arrivare un gruppetto di bambini della mia età che subito dopo si

misero a giocare con l'acqua e con i sassi. Mentre li guardavo, mi

accorsi che uno di loro era Gianluca, un amico dell'anno

prima. Insieme eravamo scesi giù per diversi prati con una slitta di

legno, avevamo seguito le partite di bocce, e avevamo parlato

 dei nostri parenti  in un giorno di pioggia, riparati sotto un

castagno dalle foglie grandi, lucide, scure, simili a ombrelli. Mi

piaceva passare il tempo con lui. Quell'estate però, sebbene fosse

già la fine di agosto, non lo avevo ancora incontrato. Come lo vidi,

provai gioia. Cominciai a chiamarlo, ma non mi sentiva. Mi diedi

ad agitare le braccia, mentre gridavo il suo nome con tutta la mia

esile e acuta voce di bimbo. Ero troppo lontano, troppo in alto, e

Gianluca non guardava in su siccome tutto  impegnato a giocare

con gli altri e con i ciottoli del greto.

Dopo  alcuni tentativi, fui certo che  di lì non potevo attirare la sua

attenzione; allora mi precipitai giù per il pendìo. Correvo, saltavo,


mi rotolavo: mi graffiai, mi sbucciai, mi ammaccai in più punti.

 Volevo arrivare presto, il prima possibile. Desideravo tanto parlare con quell'unico amico, e conoscere gli altri. Ma quando fui giunto, non c'era più

nessuno. Mi trovai solo, a fissare il torrente che con la schiuma

lamentosa tormentava le pietre. Girai per tutta la zona, poi per

l'intero paese cercandoli: invano. Ne fui addolorato: dovetti

passare in solitudine anche quel pomeriggio e  gli altri che

rimanevano.

"Sono stato molto solo a Moena", pensavo il sei marzo del 1981

ricordando l'episodio antico. "In quelle estati lontane, tra questi

monti, si prefigurava la mia vita di adulto".

Volli riprovare a percorrere quel pendio per avvicinarmi ai

bambini, per ascoltarli e raccogliere segni del volere divino

attraverso le loro voci, forse profetiche. Mentre

scendevo, continuavo a guardarli. Ebbene, quando fui a metà, i fanciulli

andarono via di corsa.

Allora mi dissi: "Che cosa significa questo?"

"La mia tendenza a giungere tardi".

Mi vennero in mente alcuni versi di un poeta magiaro , Juhàsz

Gjula, morto suicida nel  1937:

"Perché tardi son giunto.

So già il peso della mia sorte,

la segreta tristezza e perché non v'è speranza,

perché è pallido l'arcobaleno sul cielo del mio destino

e presto viene la notte. Perché tardi son giunto...

Perciò nessun dizionario mi dà nuovi verbi

perché tardi son giunto.

Perciò non ebbi nella schiera delle fanciulle

un cuore a me devoto...Perché tardi son giunto"

Juhàsz si era ammazzato con il veronal, mi dissero a Debrecen, in quanto non era riuscito a rompere il cerchio della solitudine.

"Devo farlo anche io?" Mi domandai. "No", mi risposi. "Dal mio

arrivare tardi posso trarre un senso positivo. Significa, è vero,

restare solo, dolorosamente,  ma questo mi porta anche a riflettere

sul mio esse strano, sulle mie sofferenze, fino a farne mezzi di

crescita personale e di solidarietà umana. Se negli anni Cinquanta

a Moena non fossi stato tanto solo, non mi sarei abituato fino da


allora a indagarmi, ed ora non avrei coscienza di me: sarei un'altra

persona, e non credo migliore.

Più tardi, con le donne, il mio giungere tardi si è ripetuto.

Helena era incinta di un altro, Ifigenia, se l'avessi

incontrata con qualche mese di anticipo, forse avrebbe cambiato la

mia vita solitaria. Aveva detto che quando mi vide la prima volta,

 le ero piaciuto assai, ma lei allora non ebbe il coraggio  di farsi avanti, e come mi incontrò una seconda volta  mi trovò  conciato male.

 Allora iniziò con un altro, e anche per questo non mi

sono sentito in dovere di fermarmi con lei. Mi vergogno ad

ammetterlo ma è  così. D'altra parte, se l'avessi sposata, non sarei

andato avanti su questa mia strada che mi porta a educare i giovani

con tutta la forza, parlando e scrivendo, siccome avrei dovuto

affrontare problemi più pratici. Il  ritardare dunque, lo stare in

solitudine a  studiare, riflettere,  fantasticare,  ricordare, sono parti

essenziali del mio destino e del mio carattere: mi sono state

indispensabili per comprendere e valorizzare il meglio di me.

Perciò non suicidio, ma accettazione del fato, anzi amor fati dove è insita una

giustizia profonda eppure perscrutabile.

Ifigenia, una delle  migliori della ghirlanda, con i

problemi di cui mi onera, mi fa scoprire nuovi burroni di

solitudine e di sofferenza, però mi apre anche sublimi varchi di

luce sopra la testa. Sono ancora inquieto poiché non ho trovato la mia posizione naturale e mi sento una tartaruga rovesciata ".

Pesaro 10 ottobre 2024 ore 23, 54

p. s

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