Ero salito fino a Someda il paesino posto sulla pendice del Pizmeda volta verso sud ovest. Qualche ora più tardi sarei andato alla stazione di Trento, a prendere ifigenia. A un tratto mi aggredì il pensiero malato della verginità. Dovevo respingerlo. Camminavo sulla strada stretta e sterrata che si affaccia sull’erto pendio che scende e termina sul Rio San Pellegrino. A un tratto mi fermai a osservare quel torrente che scorre circa chilometro sotto. Notai un piccolo ponte di legno che una volta non c'era. Vi giunsero alcuni bambini che cominciarono a giocare: gettavano palle di neve e pezzi di ghiaccio nell'acqua corrente che li trascinava verso l'Avisio Li dentivo strillare ma ma non riuscivo a capire le parole. Allora mi sorprese il ricordo del pomeriggio di un agosto remoto. Mi trovavo sullo stesso sentiero, e pure allora osservavo dall'alto lo scorrere eterno del rio San Pellegrino. Quand'ecco che sul greto vidi arrivare un gruppetto di bambini della mia età che subito dopo si misero a giocare con l'acqua e con i sassi. Mentre li guardavo, mi accorsi che uno di loro era Gianluca, un amico dell'anno prima. Insieme eravamo scesi giù per diversi prati con una slitta di legno, avevamo seguito le partite di bocce, e avevamo parlato dei nostri parenti in un giorno di pioggia, riparati sotto un castagno dalle foglie grandi, lucide, scure, simili a ombrelli. Mi piaceva passare il tempo con lui. Quell'estate però, sebbene fosse già la fine di agosto, non lo avevo ancora incontrato. Come lo vidi, provai gioia. Cominciai a chiamarlo, ma non mi sentiva. Mi diedi ad agitare le braccia, mentre gridavo il suo nome con tutta la mia esile e acuta voce di bimbo. Ero troppo lontano, troppo in alto, e Gianluca non guardava in su siccome tutto impegnato a giocare con gli altri e con i ciottoli del greto. Dopo alcuni tentativi, fui certo che di lì non potevo attirare la sua attenzione; allora mi precipitai giù per il pendìo. Correvo, saltavo, mi rotolavo: mi graffiai, mi sbucciai, mi ammaccai in più punti. Volevo arrivare presto, il prima possibile. Desideravo tanto parlare con quell'unico amico, e conoscere gli altri. Ma quando fui giunto, non c'era più nessuno. Mi trovai solo, a fissare il torrente che con la schiuma lamentosa tormentava le pietre. Girai per tutta la zona, poi per l'intero paese cercandoli: invano. Ne fui addolorato: dovetti passare in solitudine anche quel pomeriggio e gli altri che rimanevano. "Sono stato molto solo a Moena", pensavo il sei marzo del 1981 ricordando l'episodio antico. "In quelle estati lontane, tra questi monti, si prefigurava la mia vita di adulto". Volli riprovare a percorrere quel pendio per avvicinarmi ai bambini, per ascoltarli e raccogliere segni del volere divino attraverso le loro voci, forse profetiche. Mentre scendevo, continuavo a guardarli. Ebbene, quando fui a metà, i fanciulli andarono via di corsa. Allora mi dissi: "Che cosa significa questo?" "La mia tendenza a giungere tardi". Mi vennero in mente alcuni versi di un poeta magiaro , Juhàsz Gjula, morto suicida nel 1937: "Perché tardi son giunto. So già il peso della mia sorte, la segreta tristezza e perché non v'è speranza, perché è pallido l'arcobaleno sul cielo del mio destino e presto viene la notte. Perché tardi son giunto... Perciò nessun dizionario mi dà nuovi verbi perché tardi son giunto. Perciò non ebbi nella schiera delle fanciulle un cuore a me devoto...Perché tardi son giunto" Juhàsz si era ammazzato con il veronal, mi dissero a Debrecen, in quanto non era riuscito a rompere il cerchio della solitudine. "Devo farlo anche io?" Mi domandai. "No", mi risposi. "Dal mio arrivare tardi posso trarre un senso positivo. Significa, è vero, restare solo, dolorosamente, ma questo mi porta anche a riflettere sul mio esse strano, sulle mie sofferenze, fino a farne mezzi di crescita personale e di solidarietà umana. Se negli anni Cinquanta a Moena non fossi stato tanto solo, non mi sarei abituato fino da allora a indagarmi, ed ora non avrei coscienza di me: sarei un'altra persona, e non credo migliore. Più tardi, con le donne, il mio giungere tardi si è ripetuto. Helena era incinta di un altro, Ifigenia, se l'avessi incontrata con qualche mese di anticipo, forse avrebbe cambiato la mia vita solitaria. Aveva detto che quando mi vide la prima volta, le ero piaciuto assai, ma lei allora non ebbe il coraggio di farsi avanti, e come mi incontrò una seconda volta mi trovò conciato male. Allora iniziò con un altro, e anche per questo non mi sono sentito in dovere di fermarmi con lei. Mi vergogno ad ammetterlo ma è così. D'altra parte, se l'avessi sposata, non sarei andato avanti su questa mia strada che mi porta a educare i giovani con tutta la forza, parlando e scrivendo, siccome avrei dovuto affrontare problemi più pratici. Il ritardare dunque, lo stare in solitudine a studiare, riflettere, fantasticare, ricordare, sono parti essenziali del mio destino e del mio carattere: mi sono state indispensabili per comprendere e valorizzare il meglio di me. Perciò non suicidio, ma accettazione del fato, anzi amor fati dove è insita una giustizia profonda eppure perscrutabile. Ifigenia, una delle migliori della ghirlanda, con i problemi di cui mi onera, mi fa scoprire nuovi burroni di solitudine e di sofferenza, però mi apre anche sublimi varchi di luce sopra la testa. Sono ancora inquieto poiché non ho trovato la mia posizione naturale e mi sento una tartaruga rovesciata ". Pesaro 10 ottobre 2024 ore 23, 54 p. s Statistiche del blog Sempre1628358 Oggi315 Ieri282 Questo mese3586 Il mese scorso9470
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Già docente di latino e greco nei Licei Rambaldi di Imola, Minghetti e Galvani di Bologna, docente a contratto nelle università di Bologna, Bolzano-Bressanone e Urbino. Collaboratore di vari quotidiani tra cui "la Repubblica" e "il Fatto quotidiano", autore di traduzioni e commenti di classici (Edipo re, Antigone di Sofocle; Medea, Baccanti di Euripide; Omero, Storiografi greci, Satyricon) per diversi editori (Loffredo, Cappelli, Canova)
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Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica
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giovedì 10 ottobre 2024
Ifigenia LXXXII. Perché tardi son giunto.
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