giovedì 10 ottobre 2024

"Il chiodo" di Pirandello e "Davanti alla legge" di Kafka. Grida di dolore o invocazioni di speranza? (Di Giuseppe Moscatt)

Il chiodo di Pirandello e Davanti alla legge di Kafka
Grida di dolore o invocazioni di speranza?

 

1. Le ore più buie di Pirandello

Ci sono anni in cui la nostra vita subisce una svolta decisiva rispetto al passato, che condiziona il presente e che segna irrevocabilmente il futuro. Ciò avviene sempre nella nostra vita quotidiana; avviene per gli eroi e per i perdenti; per gli scrittori e per i politici ed a chiunque ha delle responsabilità per gli altri oltre che per se stessi. A volte è l'ora più buia; a volte è l'ora più illuminata di una vita spesso disseminata di difficoltà, ma che finalmente si apre ad orizzonti di certezza, di quiete interiore o di pura rassegnazione al destino. Ebbene, l'ora più buia di Luigi Pirandello è senza dubbio il biennio 1921-1922. Nel marzo esce la commedia Tutto per bene, l'atto unico Cecè (10 luglio), La signora Morli una e due e Come prima meglio di prima (12 novembre). Esse rappresentano un momento vertiginoso per l'autore, ormai fautore della morte di Dio, cioè la decadenza borghese, della famiglia, della vocazione professionale alla politica e della corruzione, dove al Verismo del narratore (per esempio, I vecchi ed i giovani del 1909) è succeduto l'Espressionismo solipsista, radicalmente distruttivo delle convenzioni sociali e dei suoi simboli (Dio, la famiglia e lo Stato); ma non vi corrisponde però un parallelo buon risultato di pubblico. 
Neppure il Pirandello critico fu accolto benevolmente: il 2 settembre 1921 tiene un discorso commemorativo su Giovanni Verga a Catania al teatro Massimo Bellini, tempio della cultura siciliana. La critica tradizionalista sobbalzò, con Croce in testa che lo bollò di cerebralismo solo perché aveva intravisto un elemento spirituale dietro la costante rappresentazione realista nell'ultima opera creativa del catanese, il dramma Dal tuo al mio (1903), che aveva echeggiato un afflato di crisi interiore nella vicenda tragica di una famiglia borghese decadente molto simile a quella tedesca di Buddenbrook di Mann. Neppure le nuove novelle che pubblica - Il pipistrello e Pena di vivere così - cioè la realtà della vita dell'attore, le loro questioni e le loro peripezie, divenute tragiche, pur mediate da un grottesco gioco dei contrari e da un umorismo nero, analogo a quello della Patente del 1917, tutte tematiche che non interessavano il pubblico se non dal lato puramente comico. 

Di fatto, la critica al classico adulterio del Gioco delle parti (1918) aveva scioccato il buon borghese giolittiano, quando al consueto duello fra marito e terzo molestatore della moglie, Pirandello aveva alternato la scelta sostanziale di una normale disfida fra quel terzo e l'amante. Rappresentare tale rivoluzione dei costumi gli sembrò un passo avanti malgrado le scuole critiche teatrali idealiste non suonassero più le timide critiche positive di un poco noto Tilgher, ma piuttosto prevaleva la lettura neoidealista di Gramsci e di Renato Serra, i quali da spettatori convinti seguaci del naturalismo dominante, rimpicciolivano da posizioni opposte la sua opera, creduta in apparenza una mera ripetizione della scuola verista di Verga e Capuana. E di ciò, il Nostro ebbe a soffrire perfino nel momento in cui risente di una folgorazione intellettuale che comporterà una inversione di tendenza a 180 gradi della sua poetica. In altra sede, lo abbiamo visto attento lettore di Thomas Mann, da cui già enucleò la forma dell'umorismo amaro, proprio della Patente, presente in molti aspetti in un un racconto che il maestro di Lubecca scrisse per il giornale di Monaco Simplicissimus nel 1901, cioè Sulla strada per il cimitero (vd. il testo da Noi tradotto e commentato in Ironia e Nostalgia ed. Morrone, Siracusa, 2022, pagg. 131 e ss.). 
Ora, alla fine del 1921 un cambio di poetica era necessario per non restare un buon epigono di quella corrente verista che lo aveva attratto a fine secolo, ma che ora non lo interessava più e che tanto meno riusciva a meravigliare ancora il pubblico. Kafka, Joyce, il suo rivale del Nord, cioè Svevo, perfino lo stesso Mann, per non dire Musil e Proust, stavano percorrendo vie che ben si legavano alle sue nuove propensioni spirituali che ormai erano dietro la porta, benché già esposte in un una quasi dimenticata novella dal 1912 - La tragedia di un personaggio - dove la scissione estetica fra Personaggi ed Autore assumeva un tono elegiaco, addirittura mitico fra le due parti dell'azione. Pirandello, cioè si propone ora di scindere il tempo reale dal tempo ideale e si mette alla ricerca di un Dio nuovo, benché oscuro e lontano, da ritrovare. E dunque, da un lato i personaggi reali, gli attori del Gioco delle parti, dall'altro gli attori mitici, vale a dire la famiglia che appare - si getta direbbe Heidegger - all'improvviso sul palcoscenico. L'idea sorge in Pirandello dopo quel viaggio in Sicilia in occasione delle celebrazioni del Verga e delle critiche in merito, senza contare i contatti con teatrali locali di Agrigento che il film La stranezza di Roberto Andò del 2022 ha sapientemente narrato. 
Ora la novità di Pirandello ci appare in linea con le nuove idee di un Kafka o di un Camus, giacché il conflitto fra il tempo storico e quello mitico, fra attori vari ed attori di fantasia, propaga nell'oggi quello che avvenne ieri. E' la conseguenza che Pirandello cercava dopo l'umorismo amaro e terribile che aveva già sperimentato. Ma allora il ritorno eterno dell'uguale che si interseca alla storia concreta del quotidiano dell'uomo, lo esalta e lo consola. Una esaltazione che lo rasserena perché gli consente di maturare l'inconscio, vale a dire a quel Dio nascosto già intravisto nel Treno ha fischiato (1914) ed in Tu ridi (1912), novelle che il narratore di Agrigento ha inquadrato sotto il segno necessario, ma non ancora per lui sufficiente, di quel sentimento del contrario che gli ha consentito quella rassegnazione alla vita quotidiana alternativa al suicidio. Il suo pessimismo decresce ora in funzione del ricordo attuale delle idee base che lo guarisce col loro ritorno dai dolori della storia. 
Ma non gli basta ancora. E' lo stato d'animo di quei protagonisti - il signor Anselmo ed il Belluca - che in modo temporaneo trovano pace nella fantasia e nella metastoria. Come pure avviene nella novella Caffè notturno (1918) e poi nell'atto unico L'Uomo dal fiore in bocca, dove ognuno dei personaggi fugge dall'alienazione dei costumi borghesi, dell'uomo che magari vive, ma non respira, parla, ma non pensa, si agita per un fine da raggiungere, ma che non riesce ad ottenere. Un mondo in gabbia che lo assilla fino alla morte. E pure nel Chiodo, Pirandello rimane ancora prigioniero di sé stesso. Malgrado l'ora si sia fatto più chiara - 1921, 27 settembre, finalmente ha il successo nei Sei personaggi in cerca d'autore, al teatro Manzoni di Milano, in barba alle critiche sempre più aspre di critici miopi che lo vedevano troppo vicino al Fascismo e non capivano il suo passaggio epocale verso un espressionismo italiano analogo alle correnti europee. Anche la ristampa del Fu Mattia Pascal (1922) sembrava un'adeguata risposta alle considerazioni di gazzettieri che rilevavano in quella commedia più aspetti pruriginosi e pornografici, piuttosto che il tentativo di rivoltare come un calzino la statica offerta teatrale italiana legata all'operetta scaccia pensieri che offuscava il teatro d'autore. 
Un certo ottimismo lo invade prima nella trasferta in Germania ed il sodalizio con Max Reinhardt (1922-1928), massimo regista avanguardista a Weimar; poi il Premio Nobel nel 1934 per la letteratura, addirittura preferito a Valery ed a Chesterton. Sono finalmente episodi che sembrano concludere il suo periodo più buio e gli consentono gli ultimi anni di vita più felici. Sia la ripubblicazione delle sue tante novelle, sia delle commedie, ora spesso modificate e rilette finalmente in un'ottica ulteriormente più onirica lo spingono a continuare il suo cammino umano di artista. Tutti i suoi protagonisti vengono ripresentati da lettori più attenti - per esempio Federico V. Nardelli, in una sua biografia autorizzata del 1932, L'uomo segreto. Vita e croci di Luigi Pirandello. Questi ora gli fa scrivere un suo nuovo pensiero complessivo: come possiamo comprendere la vita, se in qualche modo non ci spieghiamo la morte? Il criterio direttivo delle nostre azioni, il filo per uscire da questo labirinto, il lume, insomma, deve venirci da lì, proprio dalla morte (pensiero già espresso nella nuova stesura del Il fu Mattia Pascal). Se questa è la sua filosofia teoretica; quest'altra è la sua morale: stringile le mani per prendere; prendi poco, sempre. Se le apri per dare ed accogliere tutti in te, prendi tutto e la vita di tutti diventa la tua (La nuova colonia, 1928). Alla fine però, quando andiamo a leggere quello che Pirandello scrive sul letto di morte negli ultimi mesi del 1936, proprio nella novella Il chiodo, le considerazioni spirituali appaiono attenuarsi e quasi un ritornare alle ombre paganeggianti che lo avevano coinvolto in gioventù: per esempio, quando nel 1896 traduceva Le Elegie Romane di Goethe, intrise di naturalismo erotico e che nelle commedie più mature rilevavano un ateismo ed anticlericalismo accentuato (si veda, per esempio la figura del parroco di paese Don Landolina in Pensami Giacomino; oppure della pia moglie di Ciampa nel Berretto a sonagli). 
Il fatto è che la scelta del ricorso all'archetipo - e dunque, al sogno - non elimina del tutto la presenza della storia. Il momento mitico copre per poco la pesantezza del vivere e non consente un riposo dell'Io, ma riaffiora sempre, anzi rivela un inconscio non sempre salvifico. Qui siamo proprio nella genesi della predetta novella. Vediamo l'esile trama, tratto da un fatto di cronaca avvenuto a Harlem, il quartiere di New York, denso di emigranti, a maggioranza di colore. Un ragazzo italiano, appena sedicenne, uccide, apparentemente senza movente, una bambina con un chiodo, in una piazza degradata della zona, proprio mentre questa litiga con una compagna. Perché? In modo significativo, nelle prime righe della novella, l'autore specifica: il ragazzo ha confessato che quel chiodo, lui l'aveva trovato traversando una strada del quartiere negro di Harlem. Era un grosso chiodo arrugginito, caduto forse da un carro passato poco prima per la strada. Ed il ragazzo quasi senza ritegno, aggiunge, caduto apposta. Il poliziotto che lo interroga balza dalla sedia: come apposta? Il ragazzo - di cui non si dice mai il nome, se di colore o italiano - spiega solo di avere avuto un impulso irresistibile a prenderlo in mano, come se fosse stato guidato e forzato da qualcosa in sé. Il chiodo era ormai quieto nella sua mano. 
Il secondo quadro dell'azione passa poi in una squallida piazza vicina. C'è una rissa fra due bambine più o meno della stessa età, non ben identificate né ben si indicano le ragioni della lotta fra le due. Solo che nel ricordo offuscato del ragazzo la vittima aveva capelli rossi e le lentiggini. In un lampo, un impulso irresistibile, eccita il ragazzo che le si avvicina e le pianta il chiodo in testa, uccidendola sul colpo. Pirandello poi si dedica - nel terzo quadro - a spiegazioni psichiatriche, psicofamiliari, e dunque al contesto storico del ragazzo. Invenzioni di supposizioni che fanno solo leva ai suoi ricordi nel paese di origine ed ai rapporti coi genitori dalla Sicilia al Connecticut e poi a New York. Susseguono ricordi fra Io ed inconscio, perfino visioni di sogni con Betty, la bambina e con altre ragazzine, mai veramente conosciute. Un sogno lirico e benevolo, dove il gesto folle è inspiegabile, ma neanche risulta vero. Perfino il simulacro della bambina gli ritorna in mente e questo fa impazzire gli inquirenti. Addirittura, il ragazzo appare estraniato dal contesto tragico in cui si trova e la pietà del poliziotto prevale. Dopo di che lo libera e lo rimanda nel mondo, come se fosse comandato da un destino atroce consumato non da solo ma apposta. Un fatalistico teatro di burattini dove viviamo e dal quale non si sfugge. Anzi alla stregua dei Sei personaggi, il ragazzo periodicamente, fino alla morte rivivrà quelle scene oniriche e quella tremenda dell'omicidio senza movente. Una tempesta fra lo e gli altri che lo assalgono, quasi che ci fosse un Dio-Demone che ci perseguita e ci dirige senza speranza nella valle della morte che è la vita quotidiana. 
Una concezione pessimista che ricompare nelle ultime carte di fine vita di Pirandello, un suo ultimo grido, ripreso da Paolo Taviani nel 2022 nel film Leonora addio, dove la predetta novella ne costituisce l'ultima parte. Un teologo di tutto rispetto - Massimo Naro, nella sua interessante ricerca, La Messa di quest’anno e altre novelle di Natale, edizioni Dehoniane, Bologna, 1917 - ha prospettato un pensiero religioso di Pirandello, che già nel dramma Lazzaro, mito in 3 atti (1929), ritorna ad una fede quasi cristiana, sintetizzata già nella Favola del figlio cambiato (1934), nella ode Niente è vero e vero può essere tutto/Basta crederlo in un momento, e poi non più, e poi di nuovo e poi per sempre, o per per sempre mai più/La verità lo sa Dio solo. Quella degli uomini è a patto che tale la credano, quale la sentano/Oggi così, domani altrimenti. Una fede che tu devi credere, non sapere. Un scelta dunque, cioè di vivere veramente o di continuare ad illudersi di vivere, accettando la responsabilità di stare all'orlo del guado della vita. Davanti alla Porta, ovvero lo stare dubbioso davanti alla Legge, cioè scegliere di non scegliere e rimanere fino alla morte nella trappola sociale, rischiando però di essere comandato dai fantasmi dell'Io come quel ragazzo del Chiodo. E la stessa domanda di Dio che Franz Kafka si era posto qualche tempo prima, senza alcuna soluzione, a meno di aderire ad un'ideale religioso cui ambedue fino alla morte dubiteranno.


2. Davanti alla Legge Il castello: un Dio che riemerge, ma che non lo consola

Franz Kafka (Praga, 1883 - Klosterneuburg, 1924), ha in comune coll'agrigentino il biennio decisivo di cui si è detto, il 1921/1922. Sicuramente Il Castello, rappresenta un'analoga opera di svolta che ebbe per l'altro I sei personaggi in cerca d'autore. Kafka era pure di famiglia agiata, ateo, simpatizzante socialista, studente laureato in legge, ma interessato di letteratura e psicologia, una scienza nuova che un medico viennese definiva la peste del 20° secolo. Fra il 1902 ed il 1924 forma un sodalizio d'amicizia intensa con il critico Max Brod, che non solo gli farà fino alla morte da collega letterario e personale in modo quasi devozionale; ma anche da esecutore testamentario col vincolo - per fortuna disatteso - di bruciare alla sua morte ogni suo scritto. Come Pirandello, che per molti anni insegnerà nelle scuole del Regno senza particolari passioni; così anche il sign. K. - pseudonimo letterario assunto dal Praghese che anche Noi qui adotteremo - passerà buona parte della sua vita in un angusto ufficio di assicurazioni, prigioniero della legge di giorno, esule del pensiero di notte, fra pochi amici e senza quasi mai donne, un limite che che inciderà sempre nella sua breve vita per le difficili relazioni istaurate, nondimeno dell'Agrigentino che aveva una moglie pazza ed una figlia unica e che addirittura si vide accusato falsamente di averla violentata. Viaggiatore però impenitente, già a Merano nel 1920 cominciò a scrivere lettera d'amore a Milena e li chiuderà il capolavoro Il Processo, riscrive Davanti alla Legge ed altri racconti (Lo stemma cittadino, La trottola, ecc.). Ma Max Brod, il fedelissimo accompagnatore, insisteva su un punto centrale dei suoi scritti, cioè le bozze di romanzi e racconti che ruotavano sulla ricerca del Dio nascosto, forse la causa efficiente di tutta la poetica del praghese. Nell'anno di cui si disse, mentre scriveva l'abbozzo del primo capitolo del Castello, nei lunghi giorni di fine anno mentre è ricoverato nel sanatorio di Matliary, sotto le cure del dott. Klopstock, uno degli altri pochi amici che lo curerà fino alla morte nel 1924; il Praghese osservava che gli era arduo arrivare a quel Castello, cioè a terminarlo. Brod ci dice che non era idea di Kafka descrivere soltanto la vita di un uomo lontano da Dio per sempre e senza speranza di salvezza - tema che già aveva affrontato in Davanti alla legge, un racconto significativo del 1914 - ma e soprattutto qui voleva approfondire la sofferenza in sé del cammino e della quasi impossibilità della Salvezza. 

Proprio uno sprazzo di speranza, che Kafka riuscirà a manifestare all'ultimo respiro. Il
Castello non è perciò per Kafka - a leggere le lettere a Brod - né un’opera basata su formule nicciane, oppure su superficiali rigetti di Dio e della Grazia; ma soltanto un grido di sofferenza che l'uomo esprime fra dolori immensi e fuggevoli piaceri. Del resto, anche Il processo è presentato all'amico Max come la passione di un pover'uomo, qual'é Franz che per colpe non sue, fatica ad ottenere la Salvezza. Come la storia lo perseguita nel reale, così il Mito fa del suo Io scempio e disfatta. In altri termini, come Leopardi, Kafka è solo nel mondo, gettato nella triste landa della terra, punito per colpa e vittima del Mito che governa la sua condizione e che quasi di essa si compiace. Del pari, la condotta di Kafka verso la comunità ebraica di cui è parte, è quella di chi le sfugge inorridito perché teme di essere respinto. Infatti, la narrazione di personaggi strani - per esempio, Pietro il Rosso, protagonista del racconto Una relazione per un'accademia (1917), una figura di animale quasi uomo; del digiunatore e delle indagini di un cane (1926); ma anche delle Metamorfosi, stavolta di un uomo che va trasformandosi in animale (1917) - è un mascheramento di tipi ebraici ed a volte perfino cristiani. La triade sacra proveniente - ora, secondo l'interpretazione del Mittner - dall'Oriente, all'Ebraismo, fino alla religione Cristiana, è un vestito che copre l'uomo dalla collera di Dio che vuole punirci proprio per colpa di essere uomini. Insomma, la stessa strada di Pirandello, che alla fine spera nel Mito per impedire che il Dio nascosto ci punisca come i personaggi e come quel ragazzo del Chiodo. Questo Dio nascosto, che da puparo ci segue e ci persegue, lo possiamo incontrare, o meglio lo possiamo contenere, nella sua collera verso di Noi uomini, nella misura in cui aderiamo al sogno e non ci contrapponiamo col nostro stare reali padroni del mondo. Prendiamo dunque Il Castello
Qui, il signor K., agrimensore, nel prologo - il momento storico della narrazione - inizia con scarso successo la ricerca del luogo e poi la nomina che pretende dietro una vaga chiamata. L'essere confinato nel villaggio e l'infinita serie di appuntamenti dei padroni della tenuta alla cui cima sta il castello, è indice dei molteplici tentativi di avere un rapporto con Dio alla luce del sole, ma che Questi gli rifiuta. Salvo poi a chiamarlo, quando K. È ormai rassegnato e difficilmente pronto a riceverlo. Ma è in Davanti alla legge, un brevissimo racconto del 1914 - che si dispiega il dolore di chi prova a parlare con Dio, inteso ebraicamente come la Legge. Si narra di un povero contadino che rispettoso della Legge, spera di ottenere la giusta ricompensa passando per un portone, metafora della sofferenza dell'uomo giusto, del Giobbe biblico. Ed infatti il Guardiano del portone - la chiesa in senso storico? - glielo vieta per il momento, senza dire altro. Alle proteste del contadino per quello strano divieto – pensiamo alla parabola evangelica del figliol prodigo ed alle invidie del fratello buono quando il padre perdona il cattivo - il Guardiano si riserva di lasciarlo passare al momento più opportuno. Allora, il buon uomo si sistema all'entrata della Porta e sta per anni ad aspettare, facendo di tutto e di più per corrompere la Guardia, pur di stare là pronto ad attraversarla. Peraltro non è violento, non imbroglia, ma offre, prega, implora, tenta di dialogare. Invano, perché il Guardiano, pur lasciandolo fare, è irremovibile. Si arriva alla fine vita del contadino, quando ormai la speranza di attraversare è molto lieve. Un dubbio però assale il contadino, quasi esanime. Come mai nessun altro è venuto a chiedere con me di passare la porta? Lo chiede con un filo di voce al Guardiano di turno, ultimo di una fila di portieri che si sono avvicendati per tanti anni. E il Guardiano, con uno sguardo serafico, gli risponde che nessun altro poteva entrare qui, giacché questa porta era destinata soltanto a te: Ora vado a chiuderla e la tua entrata è diventata veramente impossibile. 
In chiusura questa tremenda parabola - peraltro inserita nel Processo, nel dialogo fra Kafka ed il prete impiegato nel tribunale che ha spiccato il suo mandato di cattura e che lo attende in udienza - mostra il tremendo pessimismo cosmico di Kafka. Un milione di domande sono state poste di fronte a tale enigmatica fine, specialmente dopo la sua riproposizione all'inizio della trasposizione cinematografica dall'opera del Praghese da parte di Orson Welles nel 1962. Un'anticipazione del teatro dell'assurdo? Una critica feroce al Dio ebraico? Un manifesto dell'Esistenzialismo, proprio perché il contadino può varcare la Porta solo attraverso un percorso personale? Oppure ancora è una critica serrata al sistema processuale nello Stato totalitario, come lascia intendere Welles in senso antisovietico, stante il periodo stalinista che un altro grande scrittore - Arthur Koestler - sferzava nelle sue coeve terribili notazioni contro quel Regime autoritario? La parallela vicenda del Chiodo di Pirandello ci permette forse una delle tante e legittime interpretazioni che possono accomunare le due storie. 
La domanda di Dio e la conseguente ricerca di Assoluto di ambedue, testimoniata per Kafka dalla parola destino e apposta per Pirandello, lasciano aperto un grave quesito e qualificano un comune senso di estraneità e di profetismo inascoltato. Al di là delle metafore e del lirismo che va al di là della società e delle leggi, o della giustizia; i due racconti mostrano una angosciosa speranza che la Grande Guerra veramente aveva perforato la cappa scientista che avviluppava il mondo e che ora questo poteva rinascere, rinnovato da un nuovo Umanesimo Spirituale. Il grido dei rivoltosi della Colonia penale di Kafka, Abbiate fede ed attendete!, come pure la disperata pietà di Pirandello per il povero ragazzo manipolato dalla società storica, ma conscio del suo delitto senza movente, che lo porta fino alla morte, a fare memoria della bimba assassinata; costituiscono l'indistruttibile baluardo contro ogni forma di Salvezza negata dal secolarismo moderno, ma distintamente rivelata all'uomo incredulo per la superbia della Ragione, che storicamente ci illude e poi ci lascia prostrati senza speranza reale.

Giuseppe Moscatt
 

Note bibliografiche
  • Oltre agli autori citati nel testo, per l'ultimo Pirandello e sulla novella Il chiodo, vd. GIUSEPE PETRONIO, Pirandello novelliere e la crisi dal realismo, Lucca, 1950, pagg. 28 e ss., nonché GIUSEPPE MOLINARI, Luigi Pirandello. Analisi teologica, ed. Tau, 2011.
  • Per una rilettura di Franz Kafka in chiave religiosa, vd. GIULIANO BAIONE, Kafka. Letteratura ed ebraismo, Roma 2008 e MICAELA LATINI, Scrivere la colpa a proposito di in der Strafkolonie di Kafka, in www.associazioneitalianagermanistica.it

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