NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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martedì 31 agosto 2021

Telemachia terza parte. La forza dell’esempio.

L' azione educativa della dea culmina nell'esempio: Oreste è riuscito a vendicare il padre, così Telemaco, che è altrettanto grande e bello deve essere valoroso ("a[lkimo"") per acquistare buona fama tra i posteri (v. 302). "Il poeta attribuisce evidentemente valore altissimo al motivo dell'esempio...Senza l'esempio concreto l'ammaestramento di Atena mancherebbe dell'elemento normativo convincente sul quale esso possa fondarsi. L'importanza essenziale che assume il motivo dell'esempio nell'educazione di Telemaco alla sua missione fatale, si riaffaccia anche nel sèguito dell'azione, come nel discorso di Nestore a Telemaco , dove il venerando vegliardo interrompe a mezzo il suo racconto delle vicende di Agamennone e della sua casa, per proporre Oreste quale modello a Telemaco, e questi gli risponde esclamando:" A ragione Oreste fece vendetta, e gli Achei diffonderanno la sua fama largamente, oggetto di canto per le generazioni avvenire. Così gli dèi dessero a me pure tal forza, ch'io potessi far vendetta sui Proci della loro obbrobriosa prepotenza". Platone nella Repubblica afferma che non sono diversi dai ciechi coloro che non hanno nell’anima nessun esemplare chiaro:"mhde;n ejnarge;" ejn th'/ yuch'/ e[conte" paravdeigma" (484c). Seneca sostiene che la via per la saggezza è breve ed efficace attraverso gli esempi, mentre è lungo il cammino che passa per i precetti:"longum iter est per praecepta, breve et efficax per exempla (Epist. , 6, 5). "Ma l'esempio deve essere dato con la vita visibile e non semplicemente con dei libri, a quel modo quindi che insegnavano i filosofi della Grecia: con l'aspetto, l'atteggiamento, il vestito, il cibo, i costumi, più ancora che con il parlare o addirittura con lo scrivere" . Nel primo canto Telemaco risponde affettuosamente all'ospite quasi accettandone una specie di paternità vicaria (v. 308), quindi lo invita a restare e ad accettare doni, ma Atena-Mente se ne va volando via come un uccello, e ispirando forza e coraggio ("mevno" kai; qavrso"", v. 321, come in Iliade V 2 a Diomede) al giovane che capisce la presenza divina e torna tra i pretendenti. Così noi comprendiamo" che nell'influenza liberatrice d'ogni vera azione educativa, la quale da un ottuso impaccio scioglie tutte le energie giovanili a lieta attività, è insito un impulso divino, un miracolo naturale. Come Omero, nel fallire del maestro di fronte all'ultimo e più arduo compito, quello di piegare l'animo d'Achille votato alla fatalità, riconosce l'opposta influenza del demone, così, nel felice mutarsi di Telemaco da giovinetto irresoluto in vero eroe venera piamente l'opera di una grazia divina" . Telemaco si emancipa dalla matriarca. Penelope rimpiange giustamente la straordinaria quintessenza (kefalhv) del suo sposo, ma Telemaco, oltre essere stato rafforzato dall'intervento di Atena, forse pensa, al pari del generale dei Volsci del Coriolano di Shakespeare, che le "lacrime di donna sono a buon mercato come le bugie" e reprime la madre, ricordandole che il comando è suo nella casa e invitandola a tornare nelle sue stanze. Da questa rivendicazione di autorevolezza e dichiarazione di indipendenza nei confronti della madre parte la riscossa del figlio di Penelope e Odisseo. Chi non compie questa ribellione che pure deve essere rispettosa, insomma chi non taglia il cordone ombelicale e non rielabora la matriarca non nasce mai del tutto, non diventa mai una persona. Da questo distacco dipendono non solo la capacità di pensare ma anche quella di amare:"La capacità d'amare dipende dalla propria capacità di emergere dal narcisismo e dall'attaccamento incestuoso per la propria madre e il proprio clan; dipende dalla propria capacità di crescere, di sviluppare un orientamento produttivo nei rapporti col mondo e se stessi" . Sentiamo ancora Fromm: " Rimanendo legato alla natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce quindi a sentirsi a suo agio nel mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe diventare un adulto" . Telemachia terza parte La forza dell’esempio L' azione educativa della dea culmina nell'esempio: Oreste è riuscito a vendicare il padre, così Telemaco, che è altrettanto grande e bello deve essere valoroso ("a[lkimo"") per acquistare buona fama tra i posteri (v. 302). "Il poeta attribuisce evidentemente valore altissimo al motivo dell'esempio...Senza l'esempio concreto l'ammaestramento di Atena mancherebbe dell'elemento normativo convincente sul quale esso possa fondarsi. L'importanza essenziale che assume il motivo dell'esempio nell'educazione di Telemaco alla sua missione fatale, si riaffaccia anche nel sèguito dell'azione, come nel discorso di Nestore a Telemaco , dove il venerando vegliardo interrompe a mezzo il suo racconto delle vicende di Agamennone e della sua casa, per proporre Oreste quale modello a Telemaco, e questi gli risponde esclamando:" A ragione Oreste fece vendetta, e gli Achei diffonderanno la sua fama largamente, oggetto di canto per le generazioni avvenire. Così gli dèi dessero a me pure tal forza, ch'io potessi far vendetta sui Proci della loro obbrobriosa prepotenza". Platone nella Repubblica afferma che non sono diversi dai ciechi coloro che non hanno nell’anima nessun esemplare chiaro:"mhde;n ejnarge;" ejn th'/ yuch'/ e[conte" paravdeigma" (484c). Seneca sostiene che la via per la saggezza è breve ed efficace attraverso gli esempi, mentre è lungo il cammino che passa per i precetti:"longum iter est per praecepta, breve et efficax per exempla (Epist. , 6, 5). "Ma l'esempio deve essere dato con la vita visibile e non semplicemente con dei libri, a quel modo quindi che insegnavano i filosofi della Grecia: con l'aspetto, l'atteggiamento, il vestito, il cibo, i costumi, più ancora che con il parlare o addirittura con lo scrivere"1. Nel primo canto Telemaco risponde affettuosamente all'ospite quasi accettandone una specie di paternità vicaria (v. 308), quindi lo invita a restare e ad accettare doni, ma Atena-Mente se ne va volando via come un uccello, e ispirando forza e coraggio ("mevno" kai; qavrso"", v. 321, come in Iliade V 2 a Diomede) al giovane che capisce la presenza divina e torna tra i pretendenti. Così noi comprendiamo" che nell'influenza liberatrice d'ogni vera azione educativa, la quale da un ottuso impaccio scioglie tutte le energie giovanili a lieta attività, è insito un impulso divino, un miracolo naturale. Come Omero, nel fallire del maestro di fronte all'ultimo e più arduo compito, quello di piegare l'animo d'Achille votato alla fatalità, riconosce l'opposta influenza del demone, così, nel felice mutarsi di Telemaco da giovinetto irresoluto in vero eroe venera piamente l'opera di una grazia divina"2 Telemaco si emancipa dalla matriarca. Penelope rimpiange giustamente la straordinaria quintessenza (kefalhv) del suo sposo, ma Telemaco, oltre essere stato rafforzato dall'intervento di Atena, forse pensa, al pari del generale dei Volsci del Coriolano di Shakespeare, che le "lacrime di donna sono a buon mercato come le bugie"3 e reprime la madre, ricordandole che il comando è suo nella casa e invitandola a tornare nelle sue stanze. Da questa rivendicazione di autorevolezza e dichiarazione di indipendenza nei confronti della madre parte la riscossa del figlio di Penelope e Odisseo. Chi non compie questa ribellione che pure deve essere rispettosa, insomma chi non taglia il cordone ombelicale e non rielabora la matriarca non nasce mai del tutto, non diventa mai una persona. Da questo distacco dipendono non solo la capacità di pensare ma anche quella di amare:"La capacità d'amare dipende dalla propria capacità di emergere dal narcisismo e dall'attaccamento incestuoso per la propria madre e il proprio clan; dipende dalla propria capacità di crescere, di sviluppare un orientamento produttivo nei rapporti col mondo e se stessi"4. Sentiamo ancora Fromm: " Rimanendo legato alla natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce quindi a sentirsi a suo agio nel mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe diventare un adulto" 5- Note F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, p. 177. 2Jaeger, op. cit., p. 77. 3Shakespeare, Coriolano , V, 6. 4E. Fromm, L'arte d'amare , p. 153. 5E. Fromm, La rivoluzione della speranza , p. 80. giovanni ghiselli giovanni ghiselli

A che cosa serve studiare il latino e il greco?

“L'uomo che non conosce il latino somiglia a colui che si trova in un bel posto, mentre il tempo è nebbioso: il suo orizzonte è assai limitato; egli vede con chiarezza solamente quello che gli sta vicino, alcuni passi più in là tutto diventa indistinto. Invece l'orizzonte del latinista si stende assai lontano, attraverso i secoli più recenti, il Medioevo e l'antichità.-Il greco o addirittura il sanscrito allargano certamente ancor più l'orizzonte.-Chi non conosce affatto il latino, appartiene al volgo, anche se fosse un grande virtuoso nel campo dell'elettricità e avesse nel crogiuolo il radicale dell'acido di spato di fluoro" . Premetto queste parole di Schopehauer al commento di a un articolo intitolato Ridiamo vita al povero latino e firmato da Corrado Augias (“la Repubblica di oggi 31 agosto 2021, p. 29). Il pezzo non è implausibile né spegevole. Tuttavia non va a fondo nella questione. Augias propone giustamente di non fermarsi ai tecnicismi della lingua. Non pochi dei miei insegnanti del liceo classico e dell’Università dove continuavo a studiare il greco e il latino non andavano oltre una presunta filologia senza dare una visione d’insieme non solo di una civiltà o di una cultura, ma nemmeno di un autore e neanche di un’opera. I testi degli ottimi autori greci e latini abituano a pensare e non possono essere ridotti a raccolte di formule o di ricette:“ ‘Qua leggiamo Omero’ riprese, in tono beffardo, ‘come se l’Odissea fosse un libro di cucina. Due versi all’ora, che vengono sminuzzati e rimasticati parola per parola, fino alla nausea. Ma alla fine di ogni lezione ci dicono: vedete come il poeta ha saputo esprimere questo? Avete potuto intuire il mistero della creazione poetica! Così ci inzuccherano prefissi e aoristi, tanto per farceli ingoiare senza restare strozzati. In questo modo mi rubano tutto Omero’ ” La domanda di fondo è: “a che cosa servono il greco e il latino?” Gli ignoranti rispondono che non servono a niente, i cretini che non sono servi di nessuno. Io che studio il latino dal 1955 e il greco dal 1958 rispondo che queste due lingue, letterature e culture sono belle e sono utili in tutti i campi di questo grande agone che è la nostra vita Se è vero che le culture classiche non si asserviscono alla volgarità delle mode, infatti non passano mai di moda, è pure certo che la loro forza è impiegabile in qualsiasi campo. La conoscenza del classico potenzia la natura peculiare dell'uomo che è animale linguistico. Il greco e il latino servono all'umanità: accrescono le capacità comunicative che sono la base di ogni studio e di ogni lavoro non esclusivamente meccanico. Chi conosce il greco e il latino sa parlare la lingua italiana più e meglio di chi non li conosce . Sa anche pensare più e meglio di chi non li conosce. Parlare male fa male all’anima. Tanto più è necessario ripristinare la potenza della parola oggi, in presenza di questa vera e propria entropia linguistica. Il parlare male, fa male all'anima. Lo fa dire Platone a Socrate nel Fedone :" euj ga;r i[sqi…a[riste Krivtwn, to; mh; kalw'" levgein ouj movnon eij" aujto; tou'to plhmmelev", ajlla; kai; kakovn ti ejmpoiei' tai'" yucai'"" (115 e), sappi bene…ottimo Critone che il non parlare bene non è solo una stonatura in sé, ma mette anche del male nelle anime. Don Milani insegnava che "bisogna sfiorare tutte le materie un po' alla meglio per arricchire la parola. Essere dilettanti in tutto e specialisti nell'arte della parola". Il sicuro possesso della parola è utile in tutti i campi, da quello liturgico a quello erotico : "Non formosus erat, sed erat facundus Ulixes/et tamen aequoreas torsit amore deas ", bello non era, ma era bravo a parlare Ulisse, e pure fece struggere d'amore le dee del mare, scrive Ovidio nell'Ars amatoria. Sono versi non per caso citati da Kierkegaard nel Diario del seduttore. Ebbene, non si può essere veramente bravi a usare la parola, utilizzabile sempre e per molti fini, tutti sperabilmente buoni, se non si conoscono le lingue e le civiltà classiche, ossia quelle dei primi della classe. Noi vorremmo che le conoscessero tutti attraverso una scuola che fosse nello stesso tempo popolare e di alta qualità. Il greco e il latino, come lingue e come culture, sono utili non solo a scuola e il loro impiego non è confinato nei licei e nella Accademie. Si può pensare a una sceneggiatura cinematografica, o alla redazione di un articolo di giornale, o a una recensione, a qualunque attività insomma che richieda un impiego non banale, non volgare della parola: la civiltà classica dota chi la conosce di una miniera di topoi, frasi, metafore, immagini, idèe preziose che valorizzano il tessuto verbale è la visione d’insieme Questo per quanto riguarda il campo dell’efficacia e della bellezza. Ma c’è pure, e anche prima, la categoria dell’etica. Non si può essere del tutto morali se non si conoscono a fondo i princìpi e i valori dell’etica classica. Questa intanto non penalizza la felicità, che anzi deve essere associata alla moralità. Concludo tornando all’articolo di Augias il quale cita i primi versi della prima Bucolica di Virgilio poi li traduce passabilmente. Quindi suggerisce delle domande come queste da porre al testo: “da dove vengono amarezza e rimpianto? Perché Melibeo deve fuggire, mentre Titiro se ne sta sdraiato all’ombra a zufolare?” Non vengono date risposte. Io ne voglio dare una per significare che il latino non solo insegna solo a parlare e a scrivere retoricamente ma anche a pensare e ad esprimersi politicamente. Dunque Melibeo deve fuggire perché non è stato raccomandato, mentre Titiro-Virgilio “se ne sta sdraiato a zufolare nell’ombra” siccome è raccomandato. Virgilio era poeta protetto e gratificato dal potere continuamente celebrato da lui nella persona di Ottaviano poi Augusto. Il rapporto clientelare era già codificato nelle XII tavole, la raccolta di leggi del 450 a. c. e prosegue nell’Italia di oggi. La mafia è parte di esso. Il greco e il latino ci danno anche un sapere politico e la coscienza della logica dei poteri. Non per caso Machiavelli ricorda continuamente personaggi e testi dell’antichità classica per svelare di che lacrime grondi il potere e di che sangue. giovanni ghiselli

Michela Murgia, la pseudofemminista.

Chi odia gli uomini, odia anche la maggior parte delle donne che grazie a Dio amano gli uomini belli e buoni. Michela Murgia su “L’Espresso” del 29 agosto, a p. 98, scrive a proposito delle “105 donne ammazzate da uomini che conoscevano quasi una ogni tre giorni tra il primo agosto 2020 e il 31 luglio 2021”. Secondo costei questi uomini agiscono “persecutoriamente all’interno di dinamiche patriarcali” Più avanti aggiunge: “La risposta è identica da anni: il femminicidio, cioè la morte per ragioni patriarcali, è il frutto di un clima culturale diffuso” et cetera. Non c’ è nessuna ragione né patriarcale né di altro genere per ammazzare. E non cìè niente di culturale in questi pazzi criminali. Tanto è vero che tali assassini del tutto carenti di ragione, poi, non poche volte, ammazzano se stessi. Le “ragioni patriarcali” di questi dementi sono simili a quelle del “portavoce militare il quale ha spiegato che l’attacco è stato necessario per autodifesa”. Si tratta dell’attacco che ha ucciso diversi bambini afghani. L’ho commentato ieri. giovanni ghiselli

La storia di Päivi 9. La preghiera urinando nella puszta

Andavamo dunque verso la puszta. Sulla destra c’era il sole già piuttosto vicino al tramonto. Eravamo tre coppie in due automobili: noi viaggiavamo soli e concordi nella nera Volkswagen; gli altri quattro ci seguivano nella Renault blu di Bruno, lo sfortunato ragazzo pesti devotus futurae [1]. 
Con il senno di adesso le due automobili scure potevano evocare, addirittura anticipare il corteo tetro verso l’ultimo viaggio. La bambina frutto del nostro amore sarebbe stata soppressa in autunno, Bruno sarebbe morto l’estate successiva in un incidente stradale in Africa e Silvano si trova tra i defunti, quelli che hanno compiuto la vita, da un paio di anni. A un tratto Päivi mi chiese di fermare la macchina e lasciar passare gli altri: doveva scendere per un bisogno; lo sentivo anche io dopo le due birre bevute nell’ombroso cortile. 

Ci separammo, ovviamente. Io camminai verso occidente finché giunsi a una siepe oltre la quale vedevo l’immergersi lento del sole nella pianura infinita. Mentre con gettito lungo, non frenato da una prostata grossa come quella di Marlon Brando nell’Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, urinavo le birre contro i raggi lucenti della sera estiva, piena di voli, rivolgevo tale preghiera al dio che scalda e nutre la vita: “Signore del mondo, ti prego, dammi la forza di amare questa ragazza dal volto che irradia ricchezza spirituale; fai che io possa trarre da lei, dalle sue fessure tartare, luce di comprensione; fai che Päivi a sua volta possa ricavare a sua volta da me la volontà di uscire dalla caverna dell’egoismo dove non giungono i tuoi raggi pieni d’amore. Se in vita mia qualche volta ho fatto del bene, se talora ho venerato debitamente il tuo nume, Mente dell’Universo [2], se ho meritato di te assai o poco, ti prego esaudisci questa preghiera devota”. 

Ero un poco ebbro. Il primo fra tutti gli dèi calava grande, non oscurato da caligine né ombreggiato dalle nuvole dei moscerini; l’aria era calda, ma viva e trasparente; al di là del cespuglio, su un campo di granoturco volavano a gara i passeri frullando rapidamente e tripudiavano a gara altri uccelli contenti; a destra, i cani paravano greggi di pecore intente a brucare l’erba dove andavano e venivano pure grosse oche bianche dai colli stirati, e neri maiali dalle zanne candide e aguzze. In quel tramonto tutto era santo, tutto era sacro. C’erano mito, c’era poesia e c’era amore. I solchi arati spiravano promesse di nascite nuove e i venti esalavano soffi pieni di vita. Mi sentivo in armonia con la terra, con gli animali pascenti e di guardia, con gli uccelli che li sorvolavano allegramente salutando la luce, con la mia donna che più in là urinava anche lei impastando la terra con il proprio liquido organico, nondimeno era molto dotata di anima, e, mentre sentivo il benessere delle radici nella grande madre di tutti, mi prefiguravo la spinta che io e Päivi ci saremmo dati a vicenda verso le altezze sublimi dello spirito e della cultura. Ci sarebbe stata una calda unione di corpi ma anche la fusione di due anime che, intimamente unite, sarebbero volate insieme nel regno della bellezza eterna. Questi sono i momenti epifanici della vita. Ne avrai avuti alcuni anche tu, lettore. Bisogna notarli e farne tesoro. 

 giovanni ghiselli

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1 Cfr. Eneide, I, 712. Si tratta di Didone infelix pesti devota futurae, infelice sacra alla rovina futura 
2 Cicerone nel Somnium Scipionis, chiama il sole"dux et princeps et moderator luminum reliquorum, mens mundi et temperatio ", guida e principe e governatore degli altri astri, mente del cosmo e forza regolatrice ( De Republica, VI, 17). 

La Telemachia. seconda parte.

L'ospite dunque viene trattato con tutti i riguardi da Telemaco e ignorato dai proci i quali, una volta sazi, ebbero a cuore musica e danza ("molphv t& ojrchstuv" te") che sono ornamenti del banchetto "ajnaqhvmata daitov"" (Odissea, I, v. 153). Intanto Telemaco parla all'ospite e gli esprime il suo scoraggiamento a proposito del ritorno del padre: considera perduto per Odisseo (I, v.168) quel dì del ritorno (v. 9) di cui noi sappiamo che è stato tolto solo ai compagni per la loro stolta scelleratezza (v. 7). Il figlio di Ulisse dunque è invaso dallo sconforto che gli impedisce di agire. Il compito di Atena è quello di scuoterlo. "Telemaco non è, dapprima, che un giovanetto in balìa dei maneggi insolenti dei pretendenti della madre. Egli vi assiste rassegnato, senza trovar la forza di prendere decisioni sue proprie, mite e incapace di rinnegare, nemmeno di fronte a quel flagello della sua casa, l'innata distinzione dell'indole sua, nonché difendere energicamente i propri diritti. Questo giovanetto passivo, di molle gentilezza, sterilmente lagnantesi, sarebbe un alleato nullo per Odisseo, che rimpatria per affrontare una grave battaglia decisiva e per compier vendetta, costretto ad affrontare i Proci quasi senz'alcun aiuto. Chi ne fa un combattente prode, risoluto, ardito, è Atena" . Infine il giovane domanda all'ospite chi sia e questo dice di essere Mente signore dei Tafi (vv. 180-181) che abitavano un'isola di fronte all'Acarnania. Aggiunge di essere un ospite tradizionale noto a Laerte del quale però ha sentito dire che al momento vive lontano, fra i campi, e soffre dolori (v. 190). Questa assenza di Laerte che si aggiunge a quella di Ulisse fa pensare al caos connesso alla mancanza della figura paterna. Tale carenza è motivo di confusione e squallore, per esempio, nella famiglia Lanucci del primo romanzo di Svevo:"l'umore in famiglia era triste...Quest'umore aveva aumentato la nostalgia in Alfonso, perché è la gente triste che fa tristi i luoghi". Il padre non permetteva al figlio di sedere accanto a lui "dopo che aveva perduto un impiego discreto procuratogli con somma fatica. Era l'unico castigo che sapeva infliggergli, non avendo per altri né energia né testa...Ogni parola nella famigliuola provocava facilmente delle dispute" . Quindi Atena dice a Telemaco altre parole che il ragazzo vuole sentirsi dire: che assomiglia straordinariamente al padre nel capo e negli occhi belli ("aijnw'" me;n kefalhvn te kai; o[mmata kala; e[oika~", v. 208) indicando del corpo umano, la parte più significative e portatrice di spiritualità. Il figlio di Odisseo è sempre più disposto ad ascoltare Mente:"Le parole di lui gli dicono invero le stesse cose che la voce del suo cuore gli suggerisce. Telemaco è il prototipo del giovane docile, cui il consiglio, volonterosamente accolto, d'un amico esperto conduce all'azione e alla fama" . Quindi Atena dà un altro stimolo al giovane, il quale dubita persino di essere prole di Ulisse, dicendo a Telemaco che la loro stirpe non può restare senza rinomanza ("nwvnumon", v. 222) se Penelope ha generato un tal figlio. Il dubbio sull'identità e sulla capacità di essere all'altezza del padre, se questi è un uomo valido, o comunque al livello dei migliori della propria stirpe è probabilmente quello che crea le massime difficoltà ai ragazzi i quali viceversa ricevono una grande spinta se si sentono assimilati ai più capaci della loro razza. Poi Atena cerca di suscitare sdegno nel giovane per la presenza dei proci i quali certo non sono lì per un " e[rano"". Egli allora ha bisogno di un'altra frustata da parte di Atena che prima gli ricorda la gagliardia di Odisseo, poi lo spinge a indire un assemblea per comandare ai proci di tornare a casa, e anche alla madre se vuole sposarsi di nuovo, quindi lo esorta a partire per cercare il padre da Nestore a Pilo, e a Sparta dal biondo Menelao (v. 285) che è tornato per ultimo. Se verrà a sapere che è morto davvero, dovrà alzargli un tumulo e rendergli onori funebri, e infine massacrare i pretendenti. Infatti Telemaco non può continuare le bambinate poiché non ha più l'età per farlo: “nhpiava~ ojcevein, ejpei; oujkevti thlivko~ ejssiv ” (v. 297). Cfr. nhvpioi del v. 8. Confermano questo rimprovero, che adesso si potrebbe estendere a tanti ultratrentenni e passa, con alcune parole di C. Pavese:"C'è qualcosa di più triste che invecchiare, ed è rimanere bambini" . Pesaro 31 agosto 2021 ore 11, 42 giovanni ghiselli

La storia di Päivi 8. La difformità dai luoghi comuni ordinari non è deformità, anzi

La incoraggiai a parlarmi ancora di sé, a fidarsi. Le dissi che sentivo tra noi un’empatia alta e profonda: era lei la donna che io, spezzone di essere umano, cercavo da sempre. Le tradussi in qualche modo in inglese il meglio di quanto avevo pensato sul conto suo da quando l’avevo vista entrare raggiante di spirito. Päivi volle mettermi in guardia dicendo di non essere una persona lieta; anzi precisò che era piuttosto infelice poiché si sentiva chiusa nel cerchio dell’io: al pari di un bambino o di un narcisista che vede il mondo e la gente soltanto in relazione ai propri bisogni e desideri. “Ecco perché non sono ottimista, come cerchi di essere tu”, disse, “temo che non potrò aprire mai la gabbia dell’io e farne uscire la mia libido introversa”. “Con me puoi renderla estroversa quando vuoi”, sussurrai con un sorriso. Poi aggiunsi: “insieme possiamo dare una spinta al destino. Io l’ho già fatto una volta aiutato da un amico[1]”. 
Non ci fece caso e aggiunse che le nostre strutture mentali da un lato si assomigliavano, siccome eravamo entrambi cercatori eterni di qualche cosa, però, d’altra parte, differivano, in quanto lei disperava di uscire dal pozzo cupo del suo egocentrismo, mentre io potevo ancora trovare la felicità che mi aspettavo, e, probabilmente, mi spettava: “tu non sei infelice né sfiduciato” fece guardandomi mentre la osservavo attentissimamente “sei nervoso perché non sai bene quello che vuoi: tu hai solo bisogno di tempo. Devi rafforzare l’Io, la tua parte cosciente, renderla autonoma rispetto all’autoritarismo del Super io e metterlo in grado di conquistare e annettersi nuove zone dell’Es. Sei sulla strada giusta, gianni”. “Fiam Ioannes, diventerò quel gianni che prevedi. Ancora in effetti non lo sono abbastanza”. 

Il ricordo di quanto mi ha detto questa donna mi ha motivato a fare quanto devo a me stesso anche a costo di sacrifici grandi. Non ho ancora compiuto questa impresa. Voglio completarla prima di morire. Non troppo presto, spero. 
Mentre continuava a parlare, Päivi mi dava sempre più la sensazione che avevo incontrato una creatura della mia specie spirituale, del mio stampo, della mia levatura qualunque essa fosse. Verso le sei le proposi la gita, per me rituale, a Hortobágy: avrei gradito la presenza di Fulvio, e di un’altra finnica, come nel ’71, quando tutto era filato liscio con Helena, ma l’amico purtroppo non c’era, e dovetti accontentarmi di Bruno e Silvano che stavano invitando due tedesche. Päivi li definì subito “persone qualunque”, autorizzando la mia radicale diversità dalla gente usuale. 
Quella ragazza con la forza della sua intelligenza e cultura, come già Fulvio con la sua saggezza nobile e antica, come poi Ifigenia con la potenza della sua bellezza, hanno incoraggiato la mia difformità dalle persone ordinarie, gli indistinti, gli amorfi che ripetono e praticano i luoghi comuni. 

Le righe seguenti possono non essere lette poiché non fanno parte di questa storia. Faccio qualche esempio di mia difformità, o, secondo i malevoli, deformità. Io comunque ne vado fiero. Una volta si “doveva” fumare, o ci si “doveva” sposare; ora si “deve” avere il telefonino e ci si “deve” far credere ricchi, importanti, di grande conto e peso. Io non ho mai fumato uno spinello né una sigaretta, non ho mai voluto e non voglio il telefonino, baso le mie spese sulla pensione di insegnante, pago tutte le tasse dovute e non mi lesino niente. Certo non i libri, i film e il teatro. Semplicemente non spreco. "Non esse emacem vectigal est"[2] Quando un ex boss dell’edilizia pesarese mi offrì molto denaro per della terra che, data in affitto a un coltivatore diretto, mi rende poco ma viene coltivata bene, lo rifiutai. 
Mi pregio di nominarmi “il poverello di Pesaro”, il mendicante della bellezza, l’accattone degli affetti e così via.
Mi ripugna la gente che sfoggia il denaro e ancora di più quelli che fingono, risibilmente, di averlo. Mi disgusta ogni forma di affettazione. Trovo disgustoso chi va in televisione o altrove mettendo in mostra i propri libri e dicendo o facendo dire “comprateli!”. Io in passato ne ho prodotti e pure venduti bene con Loffredo, ma ora, da persona matura e meglio cosciente, dico: non comprateli, ho tutto nel computer, li ho resi più belli da allora e ve li mando gratis attraverso la posta elettronica. Mi sembra più elegante, degno di me e del mio comunismo aristocratico. Anzi, cito un poeta addirittura fascista con il quale condivido l’amore per la cultura e l’odio per l’usura: For I am homesick after my own kind And ordinary people touch me not. And I am homesick After my own kind that know, and feel And have some breath for beauty and the arts (Ezra Pound, In Durance, 1907).


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[1] Si tratta, naturalmente, di Fulvio. 
[2] Cicerone Paradoxa Stoicorum (VI, 51), non essere consumisti è una rendita. gianni

Aristofane le Vespe 6.

Il Corifeo parla con il figlio che vuole tornare a casa per non sguazzare al buio nel fango come un francolino, una specie di fagiano. Il padre prevede pioggia e si stupisce del fatto che non ci sia Filocleone a guidare il coro cantando motivi di Frinico, come di solito. Segue il canto dei coreuti che si domandano quale acciacco impedisce al vecchio di esserci. Forse ha perduto le scarpe ei\t j ejflevgmhnen aujtou`-to; sfurovn 276-277, ha battuto un piede e gli si è gonfiata la caviglia, gevronto" o[nto"- dato che è vecchio. Dato che sono vecchio obietto che la caviglia si gonfia a chi prende una botta anche se è giovane. O forse ha un gonfiore all’inguine. Eppure era il più duro di gran lunga e non dava mai retta e se qualcuno lo pregava diceva-livqon e{yei"- 280- cuoci una pietra- Un vecchio dalle idèe chiare, giuste o sballate che siano. Tale persona è sempre da apprezzare. Ieri sera in televisione parlava, registrato in aprile, Gino Strada già sacro alla morte vicina ma non ha avuto un attimo di tentennamento: “l’unica verità delle guerre sono le vittime”. Coerenza di una vita. Forse continua il coro è a letto con la febbre i[sw" kei`tai purevttwn (283). Da sempre ci allettano le malattie, sempre le stesse, e ci allettano le donne ciascuna diversa da ognuna delle altre per fortuna. Spesso ci salvano dalle malattie. Siano benedette. A volte ce le fanno venire, Dio le perdoni. Segue un appello a Filocleone perché si levi: deve condannare a morte un traditore. Il figlio del al corifeo ri rivolge al babbino- w\ pappiva- e gli chiede ijscavda" 296 dei fichi secchi, ma il padre ha già fatto il conto di quanto gli rimane del piccolo salario-aJpo; tou` misqarivou: gli basta appena per la legna, la farina e la pietanza per sé il figlio e la moglie. E’ il poletariato che appoggia il regime tirannico e il suo capo che gli lascia solo le briciole. Anzi, se quel giorno non ci saranno processi, la famigliola dovrà saltare la cena. Il figlio cita alcune parole di Euripide (fr. 389 Teseo) mettendole in parodia: “tiv me dh`t j w\ meleva mh`ter, e[tikte";” perché mi partorivi allora, misera madre? I giovani spesso non condividono le speranze e le illusioni degli adulti, senza le quali non ha senso mettere al mondo dei figli. il ragazzino dice: “non ci resta che piangere” (316). Adesso per giunta si ubriacano o si drogano dopo avere fissato il cellulare per ore. Proagone (316-525) Si affaccia Filocleone da un pertugio. Lamenta di essere sorvegliato e impedito di andare alle urne con i colleghi a fare del male (kako;n ti poih`sai, 320-321). Chiede a Zeus che tuona forte-w\ zeu` mevga bronthvsa" di mutarlo in fumo- me poivhson kapnovn- per potere evadere da quella prigione. Torna poi a pregare il dio di liberarlo o di fulminarlo, o di mutarlo in una pietra. Una richiesta di perdita della sensibilità come si troverà in T. S. Eliot: “:" avrei potuto essere un paio di ruvidi artigli/che corrono sul fondo di mari silenziosi" (Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock, vv. 74-75). Il corifeo domanda al vecchio chi è che lo tiene prigioniero. Può farlo: “pro" eu[nou" ga;r fravsei" (335), ché pali a persone benevole. - ouJmo;" uiJov" (336) mio figlio risponde Filocleone ed è meglio abbassare la voce per non scoprirsi. Richiesto della ragione dell’imprigionamento, il vecchio risponde che il figlio non permette che suo padre giudichi oude; dra`n oujde;n kakovn (340) e faccia alcun male. E’ disposto a fargli fare bisboccia ma Filocleone non vuole. Meglio comandare che banchettare et cetera, dunque. Il corifeo trae la conseguenza che il figlio è un arruffapopolo contro Cleone e un xunwmovth" ti" 345, un cospiratore Pesaro 31 agosto 2021 ore 10, 50 giovanni ghiselli

lunedì 30 agosto 2021

Odissea I-IV La Telemachia. Prima parte.

Sabato 11 settembre alle 11 terrò una conferenza on line su Telemaco e Prometeo. Ne metto dei pezzi qui nel blog Telemaco nella reggia di Itaca invasa dai proci sente la mancanza del padre e, incoraggiato da Atena, si muove alla sua ricerca recandosi a Pilo da Nestore e a Sparta da Menelao che lo incoraggiano. Nell'Odissea le qualità mentali e gli aspetti del carattere, non solo del protagonista, assumono grande rilievo:"l'elemento intellettuale è messo in vivissimo risalto, Telemaco è detto spesso giudizioso o sagace; di Menelao la consorte vanta non fargli difetto alcun pregio, né della mente, né della persona. Di Nausicaa è detto ch'essa non manca di cogliere l'idea giusta. Penelope è chiamata saggia e sagace" . Oreste, i figlio di Agamennone viene proposto quale modello da Atena a Telemaco nel I canto dell'Odissea (vv. 298 e sgg.). Il ragazzo sedeva tra i proci ma era afflitto nel cuore . E' il disagio di chi ha cuore ("h\tor", v. 114) e si trova in mezzo a gente che non ce l'ha. Vi sarà capitato di finire in un ambiente, per esempio una festa o in una incontro di imbecilli spietati: si prova la sofferenza del pesce fuor d'acqua o, come mi diceva un'ex allieva , quella dell'animale finito in un branco che non è il suo. Così a disagio in mezzo a gente non autentica si trova l'Idiota di Dostoevskij nel salotto degli Epancin dove non potrà fare a meno di rompere il vaso cinese, secondo la profezia di Aglaja:"Dovete almeno rompere il vaso cinese nel salotto! E' stato pagato caro" . Arrivata nel portico davanti all'ingresso del cortile, Atena ha l'aspetto di un uomo straniero e ospite , di Mente capo dei Tafi. Le prime persone che il poeta ci mostra nel palazzo sono i pretendenti smodati ("mnhsth'ra" ajghvnora"", v. 106). Cosa facevano? Si divertivano giocando (con le pedine), mangiando e bevendo. Telemaco stava tra i pretendenti pensando al padre quando vide l'ospite e si sdegnò che rimanesse a lungo in piedi sulla porta (vv. 119-120). L'ottima educazione di Telemaco. Nell'Odissea "i maltrattamenti inflitti agli ospiti, se veramente ci sono stati, sono una colpa grave, soprattutto grave perché appunto essa contamina la casa del re in quanto istituto pubblico, e pertanto dovrebbe ricadere su tutta la comunità. Qui si esce dal terreno problematico del moralismo generico e si passa nella sfera di quei doveri sociali che per l'Odissea come per l'Iliade hanno valore assoluto: in una società in cui non ci si può appellare a leggi scritte e l'individuo può contare soltanto sulla protezione della sua comunità gentilizia, il rispetto per l'ospite indifeso è un dovere sacrosanto. Omero lo sa benissimo, tanto è vero che, a strage compiuta, accorgendosi che questo è l'unico motivo adeguato per tanto spargimento di sangue, fa dire a Odisseo che i pretendenti sono finiti così perché non rispettavano gli ospiti" . Telemaco dunque andò a ricevere Mente, gli prese la destra, gli disse: Salve ospite ( "Cai're, xei'ne", v. 123) sarai accolto amichevolmente da noi, poi, quando avrai gustato del cibo dirai di che cosa hai bisogno. Poi gli preparò il posto in disparte dagli altri, dai proci, perché l'ospite non prendesse a noia il desinare molestato dal rumore (" [anihqei;" ojrumagdw'/", v. 133). Ho riferito questi versi per indicare l'ottima educazione di Telemaco. Che si tratti di insegnare le buone maniere o la grandezza eroica, Omero, nonostante il biasimo di Platone, è stato uno dei principali educatori dell'uomo antico. I proci quali uomini privi di bisogni spirituali. I proci sono soltanto dei gozzovigliatori e scialacquatori, del resto di roba altrui. Fanno una vita che è in un certo modo l'antitesi di quella di Odisseo: priva di ogni tensione verso l'apprendere. Un'esistenza che anticipa quella del filisteo, "l'uomo privo di bisogni spirituali...di conseguenza le ostriche e lo champagne sono il punto culminante della sua esistenza, e lo scopo della sua vita consiste nel procurarsi tutto ciò che contribuisce al suo benessere materiale" . Egli rinuncia a quella intensità di vita e di sentimenti offerta da un'esistenza rivolta all'eterno e passa la vita dedito al ventre, al gioco e al sonno. Lo descrive bene Sallustio:" Quae homines arant, navigant, aedificant, virtuti omnia parent. Sed multi mortales, dediti ventri atque somno, indocti incultique vitam sicuti peregrinantes transiere; quibus profecto contra naturam corpus voluptati, anima oneri fuit. Eorum ego vitam mortemque iuxta aestumo, quoniam de utraque siletur " , quello che gli uomini fanno, arando, navigando, costruendo, dipende tutto dall' intelligenza. Ma molti mortali, dediti al ventre e al sonno, passano la vita, come viandanti, ignoranti e rozzi; a loro certamente, contro natura, il corpo serve per il piacere, l'anima è di peso. La vita di costoro giudico pari alla morte, poiché dell'una e dell'altra si tace. Così non sia della nostra. Altrettanto decisamente Cicerone nel De Officiis respinge come non umana ma bestiale la vita dedita solo al piacere:" pertinet ad omnem officii quaestionem semper in promptu habere quantum natura hominis pecudibus reliquisque beluis antecedat; illae nihil sentiunt nisi voluptatem ad eamque feruntur omni impetu, hominis autem mens discendo alitur et cogitando, semper aliquid aut anquirit aut agit videndique et audiendi delectatione ducitur "(I, 30, 105), riguarda tutta la ricerca sul dovere, tenere sempre presente quanto la natura dell'uomo sia superiore alle bestie e agli altri bruti; quelle non sentono niente se non il piacere e ad esso sono trascinati con tutto l'istinto, invece la mente dell'uomo si nutre imparando e pensando, cerca o fa sempre qualche cosa ed è spinta dal diletto di vedere e di udire. Il vero peccato dei proci è di essere più animali che uomini, mentre la virtù di Odisseo è quella di essere un uomo prima di tutto: l' [Andra del primo verso dell’Odissea con quello che segue. In questo ambiente, Telemaco che è un giovane di buona natura non si trova a suo agio, e non solo perché vengono consumati i suoi beni. Chi è abituato a riflettere non sopporta le compagnie dei crapuloni dalla vita simile a quella delle bestie. fine riquadro. Pesaro 30 agosto 2021 ore 21, 08 giovanni ghiselli

Aristofane le Vespe 5

Schifacleone si aspetta che nel cuore della notte arrivino oiI xundikastaiv gli eliasti colleghi del padre a chiamarlo modulando vecchi canti sidonii di Frinico dolci come il miele. Si tratta di un tagediografo un poco più anziano di Eschilo. Venne multato perché con la Presa di Mileto -Milhvtou a{lwsi" nel 492 fece piangere il pubblico drammatizzando la conquista della città da parte dei Persiani. ServoII due propone di prendere gli eliasti a sassate -toi`" livqoi"- 223 Bdelicleone però teme to; gevno" tw`n gerovntwn la razza dei vecchi: se uno li irrita diventano come un nido di vespe- o[moion sfhkia`/ 224 : di fatto hanno un pungiglione acutissimo-e[cousi ga;r kai; kevntron (…) ojxuvtaton (225-226) con il quale pungono w|/ kentou`si, e, urlando, saltano e si gettano addosso come scintille. Insomma sono invasati come le baccanti di Euripide o come i sacerdoti della Magna mater descritti da Lucrezio nel secondo libro del De rerum natura. Possono essere davvero fuori di sé, in estasi come le menadi di Euripide, oppure recitare per spaventare chi li vede e accrescere il loro potere come i cultori di Cibele descritti dal poeta latino. Servo II però ribadisce che basterà un poco di pietre per disperderli. Segue la Parodo 230- 315 Il Corifeo sollecita il coro di vecchi a procedere senza rallentamenti: ieri Cleone, che si prende cura di noi- Klevwn oJ khdemw`n hJmi`n (242) ci ha ordinato di venire per tempo ejn w[ra/ con una collera maligna di tre giorni- e[conta" hjmerw`n ojrgh;n triw`n ponhravn- contro il suo nemico Lachete per punirlo dei suo misfatti. Lachete aveva stipulato una tregua. L’ojrghv, l’ira, la collera caratterizza il tiranno nelle tragedie. Infatti Aristofane denunciava nell’Eliea un tentativo di tirannide o almeno una preoptenza esercitata dai poveri contro i ricchi. Una specie di dittatura del proletariato dunque molto prima di Marx e di Lenin Bisogna fare in fretta aiutandosi con la luce delle lampade per evitare i sassi (247) Pesaro 30 agosto 2021ore 18, 18 giovanni ghiselli p. s. Tasso di positività al 3, 9% Chi vuol esser lieto sia Di doman non v’è certezza.

Da una parte e dall’altra si compiono scempi.

-Chi è quello di cui la profetica rupe di Delfi disse: :"ha compiuto infamie su infamie con mani sporche di strage?" - (Sofocle, Edipo re, primo stasimo, vv, 463-465) Oggi, 30 agosto 2021 leggo su “la Repubblica”, a pagina 4, un articolo di Giuliano Foschini dal titolo: “Colpiti kamikaze in azione” Gli Usa sventano un attentato. Ne trascrivo alcune parole. “L’obiettivo è stato colpito”, hanno detto le forze statunitensi. Ma questo, per lo meno denunciano dall’Afghanistan, avrebbe provocato la morte di alcuni civili. C’è chi parla di almeno tre bambini colpiti da un’esplosione laterale”. Ogni parola del cronista serve a minimizzare questo crimine orrendo. Torno a citare Foschini: “Una possibilità che gli americani non escludono. Un portavoce militare ha spiegato infatti che l’attacco è stato necessario per autodifesa. Che sono fiduciosi di avere centrato con successo l’obiettivo”. Io dico che non c’è alcuna autodifesa che giustifichi l’uccisione dei bambini e nessun successo può ascriversi a tale scempio. Ogni giornalista che non se la senta di addossarsi alcuna complicità in tale infamia dovrebbe esecrare senza esitazione questo delitto. Del resto l’uccisione dei bambini non sembra sollevare lo sdegno e nemmeno la preoccupazione della donna che occupa il ministero della Giustizia. A pagina 7 del medesimo quotidiano leggo: “Cartabia: “Farò di tutto per salvare giuriste e magistrate afghane”. Purtroppo non c’è più Gino Strada che faceva di tutto per salvare tutti quanti venivano offesi dalla guerra a partire dai più indifesi e meno protetti. Spero che sua figlia faccia non meno bene Pesaro 30 agosto 2021 ore 17, 21 giovanni ghiselli

Aristofane le Vespe, 4.

Bdelicleone guarda sotto la pancia dell’asino e domanda al vecchio “chi sei?” Filocleone risponde Ou|ti" (185), Nessuno come aveva fatto Odisseo con il Ciclope, quindi aggiunge di essere di Itaca. E’ quasi impossibile che lo scrittore colto non si avvalga degli autori precedenti che l’hanno formato. Questi sono i nostri auctores, accrescitori. Il figlio ordina al servo di tirare fuori Filocleone. Questo minaccia una battaglia. Si tratta di fare a botte dice peri; o[nou skia`" per l’ombra di un asino (191) Cfr. il Processo per l'ombra di un asino di F. Dürrenmatt (1921-1990) Nella Grecia antica, un dentista affitta un asino per un intervento urgente fuori città. Durante una sosta, nasce una disputa tra lui e l'asinaio, perché il dentista si riposa all'ombra dell'asino, a quanto pare non compresa nell'affitto dell'animale. In tribunale, il giudice è sul punto di convincerli a desistere, quand'ecco che s'intrufolano due avvocati... ed è la fine: il processo va avanti e il caso giunge a coinvolgere sacerdoti, armaioli, i pirati e molti altri, assurgendo in breve tempo ad un affare di stato dalle dimensioni e conseguenze inimmaginabili. Elegante e ironico fino all'assurdo, Durrenmatt parla del passato per parlare al presente con una commedia esilarante. Si pensi all’assurdità di tanti processi che si prolungano per anni. I criminali della banda della Magliana assassini di decine di persone sono stati processati e condannati più volte poi lasciati uscire dalla Cassazione del “supremo” giudice Carnevale, l’ammazzasentenze. Il figlio dà della canaglia audace - ponhro;" paravbolo" (193) al padre, che si getta nel pericolo- parabavllw- Il vecchio replica dicendo di essere a[riston 194, per l’importanza che gli dà il ruolo di giudice. Quindi chiama in suo soccorso Cleone e i colleghi giudici –xundikastaiv- 197, anche loo partigiani di Cleone che li ha conquistati portando la paga giornaliera da due a tre oboli. Una trasmissione televisiva di Andrea Purgatori sulla banda della Magliana denunciava giudici, uomini politici, alti prelati, poliziotti e medici in quanto corrotti dal denaro ricevuto dagli assassini durante gli anni Ottanta. Filocleone ordina di rinchiudere il vecchio ma questo continua a cercare di svignarsela. Bdelicleone lo paragona a un passero strou`qo" (207) che cerca di volare via e chiede una rete divktuon per prenderlo. Quindi paragona il padre a Scione città ribelle della Calcidica che nel 422 si ribellò agli Ateniesi i quali la bloccarono e ne ebbero ragione solo dopo un lungo assedio. Quindi la punirono con estrema crudeltà (421) Senofonte nelle Elleniche ( II. 2. 39) racconta che ad Atene giunse la notizia della sconfitta definitiva di Egospotami (404 a. C. ) e "quella notte nessuno dormì, non solo perché piangevano i morti, ma ancora molto di più, se stessi, ritenendo che avrebbero subito i mali che avevano inflitto ai Meli che erano coloni di Sparta, dopo averli sopraffatti con un assedio, e anche agli abitanti di Istiea, di Scione, di Torone, di Egina, e a molti altri Greci La perdita del sonno in letteratura è spesso collegata a grandi delitti. La prima testimonianza, che io sappia, in questo senso è quella dell'Agamennone di Eschilo: "goccia invece del sonno davanti al cuore/il rimorso memore delle pene inflitte; e anche/sui recalcitranti arriva il momento del comprendere"(vv.179-181). Torna a verificarsi l'antica sentenza esiodea :" a se stesso apparecchia il male l'uomo che lo prepara per un altro " (oi| g j aujtw'/ kaka; teuvcei ajnh;r a[llw/ kaka; teuvcwn ,Opere, v.265), e il pensiero cattivo è pessimo per chi l'ha pensato (v. 266). La Storia di Tucidide racconta le prevaricazioni compiute dagli Ateniesi: quella dell'Estiea, del nord dell'Eubea (I, 114), di Scione (V, 32) e Torone (V, 3), e dell'isola di Egina nel golfo Saronico (II, 27). Il genocidio perpetrato contro gli abitanti dell’isola di Melo viene raccontato dopo un lungo dialogo nel V libro dove gli Ateniesi affermano il diritto del più forte. Qui nelle Nuvole il più forte sembra ancora essere Cleone per il momento, ma alla fine prevarrà l’istinto vitale del vecchio arzillo tornato a essere anche lucido sul conto di Cleone. Pesaro 30 agosto 2021 ore 12, 0 2 giovanni ghiselli

domenica 29 agosto 2021

Aristofane, le Vespe, 3. Padre e figlio.

Servo II seguita a parlare della mania del vecchio. Di notte dorme pochissimo e se chiude gli occhi sogna la clessidra e il voto th;n yh`fon 94. Se vede scritto su una porta viva Demo - ejn quvra/ Dh`mon kalovn (98) lui vi aggiunge kh`mo" kalov" (99) viva l’urna. Possiamo equipararlo, come si diceva sopra, ai tifosi magari quelli di una volta. Se il suo gallo cantava tardi diceva che si era persuaso di svegliarlo tardi- o[y j ejxegeivrein 101- prendendo del denaro dagli accusati. La descrizione della mania offre all’autore l’opportunità di trovare situazioni ed espressioni di nonsense che anticipano Edward Lear e Lewis Carrol. A volte dopo avere vegliato la notte Filocleone si addormenta sul far del giorno, poi viene fuori come un’ape o un calabrone- w[sper mevlitt j h] bombuliov" eijsevrcetai 107 e spinto dal suo umore cattivo- ujpo; duskoliva"- 106 vuole condannare tutti segnando un solco lungo-quello che tracciato sulla cera significava la condanna. Si pensi allo scatenarsi dei giudici della brigata di mani pulite contro i politici nei primi anni Novanta. Il figlio mal sopporta questa malattia del padre. Cercò di farlo rinsavire con vari tentativi fino a metterlo a dormire nel tempio di Asclepio di Egina. Invano. Poi l’ha rinchiuso in casa ma il vecchio se la svignava. Il servo conclude il suo racconto con il nome del padre Filoklevwn e quello del figlio Bdeluklevwn. Il figlio ha modi superbi e alteri. Non è del tutto equilibrato nemmeno lui. Con tale padre è difficile esserlo Bdelicleone che ha schifo di Cleone (bdeluvssw, provo disgusto) entra in scena. Dà ordine ai servi di sorvegliare il padre che cerca di svignarsela. Infatti si sente un rumore nel camino. E’ Filocleone che dice: kapno;" e[gwg j ejxevrcomai (144) sono fumo e vado fuori. Il figlio gli domanda di quale legno sukivnou (145) di fico risponde il vecchio. Collegabile a sicofante ma anche a fica-su`kon- dato la natura dell’uomo maniaco dei processi e libertino per giunta. Il figlio cerca di farlo tornare indietro. Il vecchio irriducibile spinge alla porta e grida che deve uscire per condannare Dracontide. Un Dracontide sarà uno dei trenta tiranni, un altro era stato tra gli accusatori di Pericle. Filocleone deve condannare per sopravvivere: dice al figlio che il dio di Delfi una volta gli vaticinò che quando un imputato fosse stato assolto lui ne sarebbe rimasto stecchito 160. Questa non è un’assurdità a parere mio: uscire dalla propria identità, diventare non confacente a se stesso, dissimile da se stesso, significa sconciarsi e morire. Dicono che il cancro è la cellula che perde la propria identità. Quando mi chiedo che cosa devo fare per continuare a vivere mi rispondo: studiare, scrivere, fare sport e non ingrassare per quanto dipende solo da me. Poi prendere il sole quando c’è, e tenere lezioni quando ci sono persone desiderose di imparare da me. Una volta mi sentivo anche in dovere di piacere alle donne. Ora posso fare a meno di avere tale risultato seppure assai a malincuore. Comunque devo provarci. Il padre dunque scongiura il figlio di lasciarlo uscire per non farlo crepare. Bdelicleone risponde “mai!” e il Filocleone minaccia di rodere la rete coi denti. Ma il figlio gli ricorda che non li ha. Allora il padre cerca di usare il trucco di Odisseo che sfuggire al Ciclope si era nasconsto sotto un montone: Filocleone dice che si deve vendere un asino, poi lo manda fuori dopo che si è attaccato alla pancia dell’animale rendendosi invisibile (180). L’episodio si trova nel IX canto dell’Odissea ed è indicativo del riuso che gli scrittori migliori fanno degli autori precedenti La coscienza di non dire nulla di completamente nuovo si trova già negli autori antichi: Eschilo diceva che le sue tragedie erano fette del grande banchetto omerico (Aijscuvlo" … o}" ta;" auJtou' tragw/diva" temavch ei\nai e[legen tw'n JOmhvrou megavlwn deivpnwn" ); Callimaco afferma: "ajmavrturon oujde;n ajeivdw" , non canto nulla che non sia testimoniato giovanni ghiselli

Dopo il grande filosofo la megera sanguinaria.

Dopo il grande filosofo, il maître à penser BHL che fa confusione mettendo nella stessa categoria la battaglia locale di Leuttra (371 a. C.), dalle conseguenze limitate nello spazio e nel tempo, con scontri di rilievo geopolitico epocale, ci si mette la megera che dichiara a Giovanna Casadio, giornalista del quotidiano “la Repubblica” : “L’emozione e la compassione sono sentimenti irrefrenabili in questi casi. Ma la natura catastrofica di questi attacchi non fa dimenticare che ci troviamo di fronte ad un colossale fallimento della intelligence (sic!), Usa e Nato in primis”. Non può nemmeno nominare la compassione una persona spietata come Emma Bonino che per mesi e mesi ha approvato i bombardamenti sui civili iracheni, bambini compresi e pure le donne con la motivazione che queste dovevano essere liberate dal velo islamico a ogni costo. In un paese oltretutto laicizzato. All’onorevole signora piacevano i bombardamenti programmati dall’intelligence in quegli anni e puntualmente, ripetutamente attuati. Ha detto bene Gino Strada che ha aiutato questa gente vessata impiegando tutte le proprie forze per anni e poco prima di morire sfinito ha detto: “non venitemi a parlare di burka. Alle donne bisogna dare istruzione e lavoro!”. giovanni ghiselli

Aristofane le Vespe, 2. Esistenze deformi.

Servo II precorre Freud nell’interpretare i sogni e spiega che il sogno del compagno significa che Teoro volato via come corvo finirà dai corvi, cioè andrà in malora Servo I dice che spenderà due oboli dandoli a chi interpreta tanto sapientemente i sogni- uJpokrinovmenon sofw`" ojneivrata- (53). Quindi Servo II si rivolge al pubblico e spiega l’argomento della commedia. Non sarà sul tipo della farsa megarese né altre buffonate, e non ci sarà il solito Euripide ejnaselgainovmeno" maltrattato (61). Il motteggio su Euripide era frequente nelle commedie poiché il tragediografo più giovane era meno gradito di Sofocle al pubblico. Nietzsche sostiene che questo grande drammaturgo non piaceva al pubblico ateniese siccome non spronava la massa con il superiore punto di vista dell'eroismo, ma portava sulla scena lo spettatore, l'uomo medio, i tratti non riusciti della natura, il grechetto scaltro e la mediocrità, facendo trionfare la scaltrezza, rendendo paradigmatico il calcolo e l'intrallazzo dello schiavo immerso nella materia . Cleone rifulge con il favore della fortuna ma noi non faremo a pezzi un’altra volta lo stesso uomo, continua il secondo servo: oujd (…) au\qi" to;n aujto;n a[ndra muttwteusomen ( 63). Dunque viene preannunciato un soggettino che ha del succo- logivdion gnwvmhn e[con 64, non troppo difficile per voi ma più ingegnoso di una commedia grossolana- kwmw/diva" de; fortikh`" sofwvteron (66). Quindi il servo indica la parte alta della casa dove dorme Bdelicleone che li ha incaricati di custodire il vecchio Filocleone dopo averlo rinchiuso perché non infili la porta. Suo padre infatti è malato di un male insolito-novson ga;r oJ path;r ajllovkoton aujtou` nosei` (71). Uno dice che ha la passione dei dadi filovkubon (75), ma parla della propria malattia, un altro che è filopovthn, amante del bere (79). Invero questa è la malattia delle persone perbene- au{th ge crhstw`n ejstin ajndrw`n oJ novso" (80) Un altro che è filoquvthn (82) appassionato dei sacrifici- h] filovxenon (83) o che ha la passione per gli ospiti, ma no, ma; to;n kuvna, per il cane (espressione usata anche da Socrate nell’Apologia-22a- e nel Gorgia 482b- di Platone) poiché Filosseno in realtà è un katapuvgwn (84) un rottinculo. Filocleone invero filhliasthvς ejstin ha la passione per l’Eliea quant’altri mai- wJ" oujdei;" ajnhvr (88). Questo ama: fare il giudice, e, se non siede nel posto dei magistrati, piange. Questo vecchio dunque impersona una delle tante esistenze deformi messe alla berlina da Aristofane. Adesso succede che persone non meno ridicole e assurde di queste canzonate da Aristofane vengono presentate come normali e rispettabili: per esempio gli appassionati del gioco del calcio e i tifosi scalmanati di una squadra o di un’altra. Pesaro 29 agosto 2021 ore 11, 39 giovanni ghiselli p. s. Statistiche del blog Sempre1162035 Oggi46 Ieri172 Questo mese5022 Il mese scorso6174

La tomba di Lévy e il circolo degli Scipioni

Vedo che la mia critica di ieri al grande maître à penser BHL ha già ricevuto una ventina di consensi. Quindi non è stata solo l’invidia della sua maggiore visibilità e del suo peso immensamente più grande del mio nell’educazione dei lettori a farmi scrivere contro di lui. Perciò, sine ira et studio, oggi au\qi" to;n aujto;n a[ndra muttwteusomen ( Aristofane Vespe 63, sul becero demagogo Cleone), io e i miei lettori faremo un’altra volta a pezzi il medesimo uomo. Alla battaglia di Pidna vinta da Emilio Paolo, il padre di Scipione Emiliano adottato dagli Scipioni, seguì il fiorire del circolo, degli Scipioni appunto, che diffuse la cultura greca tra la classe dirigente romana. Vi si oppose Catone il Censore, invano Ai ludi funebri (160) di Emilio Paolo furono rappresentati gli Adelphoe e l'Hecyra di Terenzio, uno dei poeti del circolo innovatore. Dunque la battaglia di Pidna non fu solo una “tomba” come ha scritto Lévy per ignoranza o malafede, anzi fu una culla di rinascita per la cultura romana e per la civiltà occidentale. Mi dispiace infierire però mi sento in dovere di denunciare le affermazioni generiche, prive di testimonianza e pure menzognere. Ogni affermazione a parer mio deve essere documentata. Il poeta e maestro Callimaco1 afferma: "ajmavrturon oujde;n ajeivdw" 2, non canto nulla che non sia testimoniato. Un abbraccio a chi mi legge e mi capisce, anche se non mi gradisce. Note 1 305 ca-240ca a. C. 2 Fr. 612 Pfeiffer. gianni

sabato 28 agosto 2021

Un caso di malafede o di ignoranza

Bernard –Henry Lévy ha scritto un articolo che è stato intitolato “I doveri di una potenza” (“la Repubblica” di oggi 28 agosto 2021, p. 29). Quelli della potenza americana consisterebbero nel seguitare a tutelare la civiltà occidentale. Per malafede o ignoranza, Lèvy ricorda battaglie che secondo lui avrebbero significato altrettante catastrofi e tombe della civiltà. Mette in fila la battaglia di Leuttra, quella di Cheronea, quella di Pidna e quella di Adrianopoli. Per quanto riguarda la battaglia di Pidna (168 a. C.) che significò la sottomissione della Grecia a Roma, ogni studente di liceo classico conosce questi versi di Orazio: 
"Graecia capta ferum victorem cepit et artis /intulit agresti Latio. sic horridus ille/defluxit numerus Saturnius, et grave virus/munditiae pepulere; sed in longum tamen aevum/manserunt hodieque manent vestigia ruris" (Epistulae , II, 1. vv. 156-160), la Grecia conquistata conquistò il feroce vincitore e inserì le arti nel Lazio agreste. Così è sparito quell'orrendo metro Saturnio, e l'eleganza cacciò il grave fetore; ma per lungo tempo comunque rimasero e rimangono oggi le tracce della rozzezza. Quindi la vittoria di Emilio Paolo che a Pidna sconfisse Perseo re di Macedonia, causò l’espansione della cultura greca a occidente e il raffinamento della civiltà dei Romani che poi attraverso il latino avrebbero trasmesso tale paideia a tutta l’Europa. 

Sentite invece la conclusione dell’articolo di Lévy: “Se ciò avvenisse e se la mappa delle potenze, delle influenze e delle alleanze dovesse stabilizzarsi in questo modo, allora Kabul sarebbe la nostra Pidna o la nostra Cheronea: oggi il nostro tormento, ben presto il nostro rimorso e fra non molto la nostra tomba”, Quanto a Cheronea questa fu la battaglia del 338 a. C. con la quale Filippo II di Macedonia sottomise la Grecia. Poco tempo dopo suo figlio Alessandro con la sua grande impresa portò a Oriente la cultura greca sulla quale era stato formato da Aristotele. 

 giovanni ghiselli

Le Vespe di Aristofane. 1. Introduzione

Nelle Vespe del 422, il commediografo mette in rilievo la parzialità dell’Eliea che in origine era una corte d’appello istituita da Solone Divenne poi il tribunale popolare cui erano affidati i processi che non venivano attribuiti all’Areopago che giudicava i delitti di sangue. L’Eliea arrivò ad avere fino a seimila giudici. Anche qui come nelle Nuvole troviamo il conflitto generazionale tra padre e figlio , I 6000 eliasti erano sorteggiati in numero di 600 per tribù. Unici requisiti erano avere compiuto 30 anni e il possesso dei diritti politici. Aristofane mette in ridicolo un vecchio eliasta (Filocleone) fanatico dei processi e di Cleone che del resto gli dà solo le briciole. Il figlio Bdelicleone cerca di fare rinsavire il vecchio infatuato- bdeluvssw provo disgusto Commento particolareggiato 28 agosto 2021 La scena si apre con la casa di Filocleone sullo sfondo. Dalla porta aperta si vedono due servi di Schifacleone, il figlio del vecchio che, al contrario del padre, detesta Cleone Il I servo sveglia il secondo che avrebbe dovuto fare la guardia , invece dormiva. Gli dice che custodiscono un mostro- knwvdalon- 4. I due servi sono assonnati. Il secondo servo racconta il sogno che stava facendo: vedeva un’aquila che sollevava uno scudo preso dalla piazza. Poi Cleonimo, l’eterno vigliacco lo gettava via (19). E’ il motivo archilocheo dello scudo lasciato perdere dal soldato svogliato o vile (cfr. Aristofane Pace 1295- 1298) Servo II dice che un uomo il quale getta lo scudo è qualcosa di terribile deinovn- 27- (Cfr. Tacito Germania 6: scutum reliquisse praecipuum flagitium, e anche lo squillo iniziale del I stasimo dell’Antigone) Servo I invece ha fatto un sogno peri; povlew", sulla città che è l’intera nave dello Stato (29) Il paragone che identifica la città con la nave sia come metafora sia quale allegoria è molto diffusa nella letteratura europea. Breve excursus Metafore nautiche e topoi . La metafora nautica risale ai frammenti di Archiloco (56D) e Alceo (326P) spiegati come allegorie politiche da Eraclito, non il presocratico, ma un autore della prima età imperiale che li interpreta nell'ambito dell'allegoresi stoica. L'immagine, utilizzata da Sofocle anche nell'Edipo re (vv.23-24:"povli" ga;r..a[gan--h{dh saleuvei, la città infatti fluttua già troppo), è passata pure attraverso Teognide (Silloge , vv.668-682), Eschilo (I sette a Tebe , 62 e sgg.), e le Rane di Aristofane (v.361). In effetti è tovpo" letterario tra i più celebri della letteratura greca, e non è rimasto privo di echi nelle successive europee. Viene subito in mente la quattordicesima ode del primo libro di Orazio:" O navis, referent in mare te novi/ fluctus. O quid agis? fortiter occupa/portum...non tibi sunt integra lintea...Tu, nisi ventis/debes ludibrium, cave , o nave ti riporteranno in mare nuovi flutti! O che fai? raggiungi il porto senza esitare...hai le vele strappate...Tu stai attenta, se non vuoi diventare zimbello dei venti. E' interessante la definizione che Quintiliano dà dell'allegoria e l'interpretazione di questa:"Allegoria, quam inversionem interpretantur, aut aliud verbis aliud sensu ostendit aut etiam interim contrarium. Prius fit genus plerumque continuatis translationibus, ut.... segue la citazione delle parole di Orazio citate sopra fino a portum , quindi l'interpretazione:"totusque ille Horatii locus, quo navem pro re publica, fluctus et tempestates pro bellis civilibus, portum pro pace atque concordia dicit " (Institutio oratoria , VIII, 6, 44), l'allegoria che interpretano come inversione o mostra una cosa con le parole un'altra con il significato generale o talora il contrario. Il primo genere avviene per lo più con metafore continuate...e tutto quel passo di Orazio nel quale egli intende come nave lo Stato, come flutti e tempeste le guerre civili, come porto la pace e la concordia. Non posso non ricordare l'invettiva all'Italia del Purgatorio di Dante:"Ahi serva Italia, di dolore ostello,/nave senza nocchiere in gran tempesta,/non donna di province, ma bordello! (VI, 76-78). E. R. Curtius in Letteratura europea e Medio Evo latino (pp.147-150), fornisce un ricco elenco di metafore nautiche in poeti che vanno da Virgilio a Edmund Spenser. Curtius ha dato pure, con la scorta di Quintiliano, una definizione dei topoi :"In greco si chiamano koinoi; tovpoi , in latino loci communes...originariamente mezzi ausiliari per l'elaborazione di discorsi; essi sono, come dice Quintiliano (V 10, 20), "miniere di argomenti per l'elaborazione del pensiero"( argumentorum sedes ) e sono quindi utilizzabili per un fine pratico" . Servo I nel sogno vedeva nella Pnice ejn pukniv 31 un’assemblea di pecore provbata (Vespe, 32) -il popolo bue- Quindi gli pareva che un mostro vorace-favllaina- che tutto inghiotte pandokeuvtria (35) arringasse il bestiame con voce di troia infuocata-e[cousa fwnh;n ejmpeprhmevnh" uJov" ( ejmpivmphmi- brucio36) Il secondo servo sente puzza di Cleone il demagogo cuoiaio- o[zei kavkiston toujnupnion buvrh" sapra`" – 38- puzza terribilmente di cuoio marcio il tuo sogno. Poi con una bilancia il mostro tremendo pesava grasso di bue boveion dhmovn- 39. Il popolo bue appunto. Il Servo II teme che il mostro voglia fare a pezzi il popolo to;n dh`mon, con gioco di parole- paronomasiva, adnominatio, bisticcio. Poi nel sogno il primo Servo si vedeva Teoro già menzionato nelle Nuvole tra gli spergiuri (eipivorkoi, 400). Qui nelle Vespe appare con testa di corvo-th;n kefalh;n kovrako" e[cwn (44). Ma Alcibiade traulivsa" (44) con la sua pronuncia affettata ( l invece di r) fa: “ oJla`"; Qevwlo" th;n kefalh; kovlako" e[cei ( 45) osselvi? Teolo con la testa di colvo. C’è qui un altro gioco di parole perché kovlako" è genitivo di kovlax che significa adulatore e probabilmente Teolo-Teoro era un adulatore di Cleone. Cfr Turgenev: “Pavel quando si arrabbiava diceva “qvesto” e “qvello” come faceva l’aristocrazia all’epoca di Alessandro per significare “siamo magnati e possiamo trascurare le regole scolastiche” (Padri e figli, p. 56) . Pavel era lo zio di Arkadij ed è l’antagonista del nichilista Bazarov: lo affronta con tutto il suo arcaico, superato idealismo. Credeva nei principi, nella poesia di Goethe, nelle Stanze di Raffaello. Sempre elegantissimo e imperturbabile. Pesaro 28 agosto 2021 ore 18, 22 giovanni ghiselli

Aristofane le Nuvole XXII.

Siamo giunti all'Esodo (1452-1510). Il contrappasso Le Nuvole rinfacciano a Strepsiade di essere causa del suo male in quanto si è volto ad azioni cattive Il vecchio domanda perché non glielo hanno detto prima quando invece “montavate la testa a un rozzo, vecchio contadino? 1457 Le Nuvole rispondono che hanno voluto metterlo alla prova: "noi ci comportiamo sempre così: quando capiamo che uno è amante delle cattive azioni- ponhrw'n o[nt j ejrasth;n pragmavtwn- 1459 agiamo fino a gettarlo nel male, perché impari a temere gli dèi"(1458-1461). Strepsiade riconosce che è giusto se pur doloroso: egli non doveva frodare- ajposterei'n- il denaro preso a prestito. Ora ha capito. Troviamo anche qui, nella Commedia antica, come pure, vedremo, nella nuova di Menandro, la comprensione che nella tragedia salva l'uomo dall'annientamento quando l’uomo vi arriva dopo la sofferenza (cfr. tw'/ pavqei mavqo" , Eschilo, Agamennone 177 e a[rti manqavnw "ora comprendo", Euripide Alcesti , v. 940). Però non è ancora finita: Strepsiade vuole punire Cherefonte e Socrate che hanno ingannato lui e il figlio. Fidippide prova a difendere a parole i maestri. Il padre gli ingiunge di rispettare Zeus paterno Il figlio replica che Zeus non esiste Il padre ribatte che esiste e[stin (1470) Il figlio, però, ancora sotto l’influenza dei pensatori della scuola di Socrate torna a negare la presenza del Cronide in quanto Di'no" basileuvei to;n Di j ejxelhlakwv", regna il Vortice che ha scacciato Zeus. Di'no" significa anche orcio in terracotta e Strepsiade indicandone uno fa: “povero me, credevo che tu fossi un dio e sei fatto di terracotta-se; cutreou'n o[nta qeo;n hJghsavmhn- 1474. Il figlio si congeda dal padre dicendogli parafrovnei vaneggia pure. Ed esce Strepsiade è pentito di essere andato a farsi corrompere da Socrate. Chiede perdono a Ermes e gli domanda se debba trascinare quel truffatore davanti ai giudici. Quindi tende l’orecchio e riferisce il suggerimento di non ricorrere ai giudici: ajll j wJ" tavcist j ejmpimpravnai th;n oijkivan-tw'n ajdolescw'n 1484-1485, ma al più presto bruciare la casa di quei ciarlatani. Poi chiama il servo Xantia che porti scala, klivmaka e una piccozza, quindi lo manda sul tetto del pensatoio per demolirlo in modo che cada addosso a coloro. Inoltre chiede una torcia accesa perché almeno qualcuno di quegli impostori paghi il fio dou'nai divkhn- (1491) Strepiade appicca il fuoco dicendo alla torcia: è compito tuo adesso mandare una bella fiamma- so;n e[rgon, w\ da/v", iJevnai pollh;n flovga (1494) . Dovrebbe essere la fiamma della giustizia e della purificazione Quindi esegue tosto, senza lasciarsi fermare dalle proteste dei discepoli dl pensatoio Il primo gli domanda tiv poiei'" ; che cosa fai? E Strepsiade: sottilizzo con le travi della casa. A un altro che domanda chi dà fuoco alla casa, il vecchio risponde “quello di cui avete preso il mantello”. Strepsiade si fa punitore della mala edcucazione e dei furti operati da quei ciarlatani. Il secondo discepolo prevede che rimarranno uccisi, e Strepiade che è salito anche lui sul tetto a picconare risponde che lo spera al punto che sta rischiando di rompersi l’osso del collo per ottenere questo effetto Si affaccia Socrate e domanda: ehi tu, che fai sul tetto? Strepsiade ripete in modo ironico e ritorsivo quanto aveva detto Socrate con il verso 225-ajerobatw' kai; perifronw' to;n h[lion (1503, cammino per l'aria e rifletto sul sole. Socrate dice che sta per soffocare- ajpopnighvsomai (1504) è il contrappasso dei soffocamenti da lui provocati con la chiacchiera cavillosa. Il secondo discepolo si sente già quasi carbonizzato Altra nemesi. Strepsiade fa notare il vuoto del loro manqavnein, che consiste nell’oltraggiare gli dèi e investigare th'" Selhvnh" th;n e[dran- 1507- la posizione della Luna (e[dra può significare anche sedere). Cfr. l’ ejcqra; sofiva di Pindaro. La sapienza non è di vedute basse e volgari: Pindaro nell’ Olimpica IX afferma che diffamare gli dei è odiosa sapienza (tov ge loidorh'sai qeouv"-ejcqra; sofiva, vv. 37-38). Pindaro fu uno dei campioni della reazione al pensiero illuministico, come Teognide prima e come Sofocle dopo di lui. Infatti il poeta tebano, al pari di Omero, ci fa vedere la dimensione eroica della vita, presentando quali modelli da imitare, anzitutto gli dèi, purificati però da quei vizi debolezze e difetti che l'epica, soprattutto l'Iliade, già attribuiva loro ("è naturale per l'uomo dire degli dèi cose belle, minore è la colpa" meivwn ga;r aijtiva, leggiamo nell'Olimpica I , vv. 35-36). Strepsiade dunque incita Xantia a colpire i farabutti che hanno offeso gli dèi. Mentre il Pensatoio crolla divorato dalle fiamme le Nuvole lasciano l’orchestra dicendo: fateci uscire: kecovreutai ga;r metrivw" tov ge thvmeron hJmi'n (1510), per oggi abbiamo danzato abbastanza Così noi lasciamo le Nuvole e passiamo a le Vespe. Pesaro 28 agosto 2021 ore 10, 36 giovanni ghiselli

La storia di Päivi 7. Il dialogo della conoscenza

Ero felice. Piacere a una donna di aspetto gradevole e di stile nobile significa fare centro nella natura, entrarci trionfalmente, non essere rinnegati e respinti dal mondo dove siamo finiti, ma diventare partecipi del suo ordine bello. Quando una creatura siffatta ti dice di sì, la vita stessa ti dà la sua approvazione e ti infonde il coraggio necessario a procedere per la salita erta che porta alla pianura della verità[1], il luogo nel cui prato dal verde brillante risplendono immagini integre, semplici, prive di crepe, beate, le idee che costituiscono il nutrimento per la parte migliore della persona, quel cibo spirituale che fa spuntare e potenzia le ali dell’anima. 
Ci sedemmo a un tavolino libero con i bicchieri di birra in mano e ci conoscemmo a vicenda con una conversazione di cui ricordo alcune frasi davvero dette, o, dove non le ricordo, integro le parole che due persone della nostra levatura avrebbero potuto[2] dire in tale circostanza. Päivi: “allora di che cosa vuoi parlare con me?” Gianni: “mi piacerebbe sentirti parlare di te. Da dove ti viene questo tuo stile bello, sicuro, essenziale, come quello di un’opera d’arte?” Päivi: “io non sono sicura. Lo stile comunque lo prendo dal mio temperamento e dalle esperienze che mi hanno formato il carattere negli anni della mia vita. Il 19 luglio ne ho compiuti 24”. “E’ del cancro” pensai. “Anche zodiacalmente mi si addice”. Ma non lo dissi: mi sembrava troppo razionale e logica quella donna per approvare un’affermazione del genere. Tuttavia, nel mio essere scorpione con ascendente scorpione, per il poco che sapevo di astrologia vidi nel suo essere del Cancro un altro segno del fatto che noi due eravamo predestinati a un amore grande, facente epoca e storico se non eterno. Ripresi a farle domande e ad ascoltarla con attenzione piena. 

Gianni: “Un filosofo greco, Eraclito, afferma che il carattere è il destino dell’uomo[3]. Il tuo a cosa tende?” 
Päivi: “A imparare. Io amo imparare, ne sono assetata. E il tuo? 
Gianni: “Anche a me piace imparare. Dalla vita e dai libri. Amo apprendere per insegnare. Insegno da cinque anni. Tu per quale motivo vuoi imparare, per chi, oltre che per te stessa?” 
Päivi: “ Per curare i nevrotici. Ho appena finito di studiare psicologia all’Università. Ho fatto molti test, ho letto parecchi libri, ho cominciato a scrivere articoli. So già qualcosa ma davvero poco: voglio sapere molto di più. Io ho imparato soprattutto dai libri finora. Tu hai detto dalla vita. Cioè? 
Gianni: “Dalle donne innanzi tutto. Quelle di casa mia, poi le amanti, le amiche, le allieve, le colleghe. Per me le donne sono la fonte primaria non solo della vita ma anche della conoscenza. Sono loro che gestiscono il fuso di Ananche[4], l’asse del mondo, il cardine sul quale tutto gira. Poi imparo dai libri. In questa strada sono ancora ai rudimenti. Però da qualche tempo ho capito che devo procedere metodicamente sulla via[5] dell’imparare leggendo, non per gli esami universitari, quelli li ho finiti da tempo, ma per me e per i miei studenti. In autunno comincerò a insegnare al liceo dopo cinque anni di scuola media dove ultimamente non avevo più stimoli. Ora che sono qui con te, ne ricevo osservandoti. Guardarti mi rende attento e anche contento. Mi aspetto cose buone dalla vita. Ne ho una visione piuttosto ottimistica. Tante volte sono addirittura felice. Quando faccio una bella lezione dalla quale imparo io stesso mentre insegno[6]; quando scalo una salita dura in bicicletta lasciando indietro gli altri agonisti; quando corro i cinquemila metri illuminato dalla luce sfarzosa del sole estivo, lo faccio ogni giorno anche qui a Debrecen, nella pista dello stadio; quando osservo i lunghi tramonti all’inizio dell’estate; quando parlo con i miei amici più cari. Ma soprattutto quando incontro persone del mio stampo, come credo sia tu. Io sono molto curioso della vita. La amo e qualche volta, anzi spesso, lei mi contraccambia. Tu sei felice?” 
Päivi: “Meno di te. Non ho fatto molte esperienze buone”. 
Gianni “Sei anche molto più giovane. Io il 14 novembre compirò trent’anni”. 
Päivi. “Li porti bene. Devi avere una grande vitalità. L’ambito dei miei interessi è più ristretto del tuo. Io imparo quasi esclusivamente dai libri e dai test sui nevrotici. Anche io del resto sono nevrotica, siccome sono molto egocentrica e chiusa in me stessa. Se ci conosceremo meglio, se entreremo in confidenza, ti dirò dell’altro a questo proposito, ora non me la sento. Comunque sì, condivido la tua voglia di parlare tra noi, di conoscerci meglio. Tu non mi sembri banale. Scusa, ripetimi il tuo nome: non ci ho fatto caso prima, quando ti sei presentato. Dimmi anche da quale parte dell’Italia vieni. Il tuo naso è tipicamente italiano. Mi piace. Mio fratello ha una compagna greca. Si vede che in famiglia siamo predisposti a incontrare i Mediterranei. Anche il tuo modo di guardare mi piace”. 
Gianni: “Mi chiamo Gianni, vengo da Pesaro ab antiquo, poi da Bologna e ora da Padova. Ma in autunno tornerò a Bologna. Piacerti mi rende felice per tanti e vari motivi, prima di tutti perché mi piaci molto. In te vedo il mio ideale di donna. Anche io, scusa, non ho notato il tuo nome. E dimmi da quale parte della Finlandia vieni”. 
Päivi: “Il mio nome non te l’ho ancora detto. Mi chiamo Päivi. Significa “luce”. I miei parenti vivono a Oulu nella Finlandia settentrionale, vicino al circolo polare artico, ma io ho studiato e ora vivo a Yväskylä, una città universitaria della Finlandia centrale. 
Gianni: “So dov’è. Ne ho sentito parlare da un’amica conosciuta qui a Debrecen, tre anni fa, Si chiama Helena[7]”. 
Päivi: “L’hai più vista da allora?” 
Gianni: “No, è tornata lassù, tra i boschi e i laghi. E non si è più fatta viva”[8]. 
Päivi: “ti dispiace? 
Gianni: “No. La funzione storica della nostra amicizia era finita”. 
Päivi (con un sorriso e un pizzico di ironia): “Oggi magari troverai una ‘funzione storica’ nel nostro incontro”. 
Gianni: “Certo, la troveremo insieme”. 


Pesaro 28 agosto 2021 ore 10. 
Si appressa l’umido equinozio che offusca l’oro delle sabbie salse (cfr. d’Annunzio La sabbia del tempo). Tornerò presto a Bologna dove lunghi, freddi e buoi sono gli inverni. Ma senza mio scontento siccome mi aspettano tante conferenze e molte altre cose buone che illuminano e riscaldano la vita invece del sole (solis vicem) 
giovanni ghiselli 

p. s. Statistiche del blog Sempre1161861 Oggi44 Ieri235 Questo mese4848 Il mese scorso6174


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1 Cfr. Platone, Fedro, 247b: to; ajlhqeiva~ pedivon

2 Cfr. Tucidide I, 22, 1 “ Quanto a ciò che ciascuno disse con un discorso (…) era difficile sia per me ricordare la precisione alla lettera delle parole dette che io stesso ascoltai, sia per quelli che me le riferivano da qualche altro luogo, ma come mi sembrava che ciascuno avrebbe potuto dire nella maniera più plausibile le parole dovute sulle circostanze via via presenti, attenendomi il più vicino possibile al senso generale delle parole veramente dette, così sono state riportate". 

3 h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn, fr. 119 Diels - Kranz. 

4 Cfr. Platone, Repubblica, 616d. j Anavgkh~ a[trakton

5 Procedere metodicamente sulla via è una tautologia poiché “metodicamente” significa già sulla via (greco oJdov~) . Ma allora ero appunto rudimentale e non lo sapevo. 

6 “homines, dum docent discunt "Seneca, Epist., 7, 8., gli uomini, mentre insegnano, imparano. 

7 Elena per cui cfr. un’altra storia contenuta in questo blog. 

8 Cfr. "Thou hast committed… "fornication but that was in another country, - and besides, the wench is dead " "tu hai…” "fornicato; ma fu in un altro paese e oltretutto la ragazza è morta. The jew of Malta , IV, 1. T. S. Eliot utilizza queste parole del frate e di Barabba come epigrafe a Portrait of a Lady, Ritratto di signora. Del resto io non avevo fornicato con Helena: ci eravamo amati. La storia è presente nel blog ed è bella. 

venerdì 27 agosto 2021

La storia di Päivi 6. L’approccio riuscito. Ne ringrazio ancora gli dèi

Clawdia Chauchat (Marie-France Pisier)
nel film Zauberberg
Dissi: “Senti, scusa, io non ti conosco, ma ti trovo interessante”. “Proprio me?” domandò con straordinaria, elegante modestia. 
L’abito letterario mi fece pensare alla Chauchat di Thomas Mann. “Sì, appunto, proprio te, e mi piacerebbe se tu volessi parlare con me. Mi chiamo Gianni”. Mi osservò senza sdegno né compiacimento. Era rimasta seria e sembrava incuriosita. Infatti mi chiese: “Per quale ragione vuoi parlare con me?”. “Perché in te c’è qualcosa di bello, di fine, di molto attraente. Penso che non conoscerti sarebbe un’occasione perduta. Per me di sicuro e forse anche per te. Considera che questo momento cruciale potrebbe non tornare mai più se mi mandi via. Per me sarebbe una perdita grande. Hai un bello stile. Come ti chiami e da dove vieni?” Il mio destino che, come il suo d’altra parte, conteneva il nostro vicendevole amore, mi fece dire tali parole comuni, banali, con l’aria della sicurezza e la forza della persuasione. Päivi mi osservò di nuovo per un momento, poi, da par sua, cioè senza posare né gesticolare, molto semplicemente e direttamente, rispose: “Tu credi davvero che in me ci sia qualche cosa di buono? Forse ti sbagli. Comunque mi chiamo Päivi. Sono finlandese. D’accordo, parliamo, se vuoi. Anche tu non sembri ordinario. Forse quello speciale tra noi due sei proprio tu”. 

Pensai che potesse parlare con un velo di ironia. Decisi di non tenerne conto. “Quello che ho di speciale me lo suggerisci tu. E’ per la volontà di parlare con te e di piacerti che cerco di tirare fuori il meglio di me.” “ In effetti hai un modo di proporti che non mi dispiace. Sei un uomo per lo meno educato. Di che cosa vuoi parlare con me?” “Di molte cose allegre e di alcune serie. Da questa festa della nostra conoscenza alla tragedia greca se vuoi. Ma prima di me e di te”. “Sei greco? L’aria mediterranea ce l’hai. La conosco e non mi dispiace. Mio fratello è fidanzato con una greca”. “No, non sono greco, sono italiano. Però ci hai quasi preso. A parte che amo la cultura greca e ne sono stato formato, i Greci quando vedono noi italiani ci dicono ‘ italiano una razza, una faccia’. Sono italiano di Pesaro sulla costa adriatica, ma ho studiato greco antico e latino all’Università di Bologna, e da quest’anno li insegnerò in un liceo di quella città. Può interessarti?” “ Come no? I Greci classici, entrano nei miei studi e nei miei interessi, soprattutto Sofocle in particolare. Freud gli è debitore. Anche a Empedocle deve non poco. Vedo che possiamo parlare. Non da eruditi pedanti, spero”. “No di certo. Non sono il tipo della talpa filologica stigmatizzata da Nietzsche [6]. Studio parecchio ma faccio anche dello sport e qualche volta scendo per strada a tamburellare ditirambi oppure indago me stesso per diventare quello che sono: apollineo e dionisiaco. Guardarti, starti vicino mi vivacizza, realizza e mi riempie di gioia”.
“Va bene - fece lei allora - Aspetta solo un momento: mi scuso con gli altri finnici, prendo un bicchiere di birra, poi ci sediamo insieme da qualche parte, dove vuoi tu”. 
“Ce l’ho fatta - pensai, quasi lacrimando di gioia - ce l’ho fatta Dio, grazie a te e alla mamma mia santa. Il sole fra tre ore tramonta, poi il cielo sereno si arrossa, torma azzurro, si annera. Poi si schiarisce al biancheggiar della luna. La terra è in mezzo alle stelle, e sulla terra ci siamo noi due, insieme. E’ questa la femmina umana, la Salvatrice, la Redentrice dovuta alla mia umanità. Con lei, nel suo prato fiorente, voglio celebrare un’orgia tanto santa che verrà benedetta anche dai preti". 


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[6] Per i filologi come talpe cfr. la lettera di Nietzsche a Erwin Rohde, del 20 novembre 1868: “Quella brulicante genia di filologi dei giorni nostri, quell’affaccendarsi da talpe, con le cavità mascellari rigonfie e lo sguardo cieco, contente di essersi accaparrate un verme, e indifferente verso i veri, urgenti problemi della vita”. giovanni ghiselli

La storia di Päivi 5. L’approccio meditato

Toulouse-Lautrec, La toilette
Presi un bicchiere, ci versai della birra chiara, poi mi appoggiai con la schiena al muro di sostegno della scalea per cui si scende nel megaron e di lì si risale, vincitori o sconfitti. Quindi diedi inizio alla prova guardandola intensamente e tentando di mostrarle, attraverso gli occhi, i miei contenuti interiori dai quali, immaginavo, non dovevano divergere troppo i suoi, se non mi ingannavo nel valutarne lo stile che, a vedersi, era abbastanza simile al mio, anche se, forse, più al mio di adesso, dopo il processo di identificazione con lei, che a quello di allora. 
Sebbene la ragazza rossa e pensosa non mi sembrasse il tipo che si guarda intorno per farsi guardare e per mostrarsi disponibile, non escludevo che mi notasse e si incuriosisse di me a prima vista, poiché quella finnica era pur sempre una femmina umana giovane e non accompagnata da un maschio ed era priva di anelli quali ceppi alle dita e all’amore; era dunque probabilmente libera e magari pure desiderosa di innamorarsi. Al pari di me. Io del resto mi sentivo, e forse anche ero, nella migliore tra le mie forme possibili: i trent’anni, del resto non ancora compiuti, non mi avevano incanutito nenmmeno un poco, né spelacchiato, né ingrassato, come altri della mia età, anzi, avevano dato al mio viso molto abbronzato e un poco segnato da rughe, leggeri solchi seminati di vita dal Sole, il dio che nutre appunto la vita, e un’espressione consapevole che potenziava la forza attrattiva dell’insieme. 

In quel pomeriggio di luglio dunque nutrivo una certa fiducia nella buona riuscita del mio intento, un poco ricordando i successi[1] del ’71[2] e del ’72[3] in circostanza analoghe, e ancora di più perché avevo qualcosa di preciso da dire, da chiedere e offrire, a una donna probabilmente dotata e ricca di anima, quale pareva quella creatura dai capelli lunghi, dall’aria intelligente, vestita di velluto purpureo. Allora non sapevo che la porpora può essere sinistramente ominosa e annunciare la morte vicina[4]. Non lo immaginavo neppure, e aspettavo agognando il momento opportuno, l’occasione che mi venisse offerta di avvicinarmi alla meta e gettarmi sul campo fiorente del suo seno, del suo ombelico che identificavo già con quello del mondo. 
Volevo andare a pregare pure su quello come avevo fatto a Delfi, dove più di una volta Dio mi aveva esaudito. “Dio, come mi piace! - pensai ancora una volta - Dio, fai che possa piacere a lei. Se mi dai quella donna, Dio, e se è come appare, ti prometto che d’ora in avanti farò di tutto per evitare qualsiasi commercio con femmine stolte. “Tu sei piena di spirito” pensavo poi, rivolgendo lo sguardo a quell’ideale mio incarnato in tale femmina umana. E cercavo di farle scoprire l’anima mia, mediterranea, ma ugualmente non ordinaria, lanciando occhiate piene di pathos intelligente. Lei però, con mio smacco, non mi contraccambiava, forse nemmeno mi aveva visto. Parlava con un’altra, finnica probabilmente, senza guardarsi intorno come fanno gli eterni cercatori di amore. “Stai a vedere che è incinta anche questa - pensai - non sarebbe comunque un ostacolo insormontabile. Io l’amo. Non cederò. La grande difficoltà scoraggia il fanciullo o l’uomo imbelle. Tu, gianni, non sei né l’uno né l’altro. Commisura le possibilità di successo alle tue forze e alla necessità dell’amore. E all’esperienza che ti ritrovi. Non contare i tuoi anni, ma le non poche donne che hai conosciuto, alcune anche meravigliosamente”. Vero è che le due conoscenze più belle erano state interrotte dopo un solo mese di gioia, e tale sarebbe stata anche questa con ogni probabilità, ma non era il momento di lasciarsi frenare da questo pensiero. 

Me ne sentivo già innamorato, ne andavo pazzo, poiché il suo stile serio e naturale la distingueva da tutte, e accresceva in ogni momento la prima impressione che quell’immagine potesse contenere un’interiorità ricca e rara, e fosse proprio l’antitesi dell’istriona nevrotica, sempre bramosa di spalancare il suo insopportabile vuoto, gesticolando, sbraitando, dando ordini con fiero cipiglio, o fingendo di struggersi in lacrime. Ogni minuto che passava, mentre nel pomeriggio dell’estate dalla luce già meno alta si allungavano rapidamente tutte le ombre, la necessità dalle mani d’acciaio mi spingeva, con forza sempre maggiore, a entrare in contatto con quella che mi appariva il mio stesso ideale di donna, anzi di essere umano. “Tu sei nobile e seria - recitavo e pregavo - tu sicuramente leggi, impari e capisci, creatura. Tu parli di rado con voce soave. Non c’è in te alcuna traccia di posa, di civetteria, di menzogna. Io ho bisogno di te. Cerca di capire anche questo. Noi due dobbiamo parlare: vedrai che, ispirato da te, riuscirò a dirti qualche cosa di interessante, di bello e degno della tua nobiltà”. 

Mentre pregavo l’idolo mio, osservavo la ragazza reale, volendo significarle la mia profondità interiore e il bisogno che avevo dell’amore, dell’amore di lei. Ma nonostante i grandi sforzi espressivi, non progredivo: dopo cinque minuti di quella scena, fin troppi, mi accorsi che non potevo colpire il bersaglio soltanto guardandola, seppure intensamente e con occhi pieni di intelligenza e luminosi di pathos, poiché lei non mi prestava attenzione; forse nemmeno si era accorta di me. 
Capii che dovevo andare a parlarle. Dovevo andarci, anche se non mi aveva notato, né guardato, dovevo proprio, dato che la splendidissima rossa vestita del colore di fiamma viva, con gli occhiali da vista e l’aria pensosa, poteva essere proprio colei che mi avrebbe spinto alle cose egregie che dovevo a me stesso, ai miei studenti, e a voi lettori cari[5]. Le arrivai vicino, la guardai a più riprese, aspettai che mi desse un’occhiata, e quando, come Dio volle, lo fece, le rivolsi la parola, in inglese ovviamente, con calma, a bassa voce, affinché comprendesse subito che ero diverso dal coro della gente fangosa, gracidante nella palude dei più, e che non mi presentavo per scherzo, cercando solo un’avventura amorosa con una straniera nordica e pure orientale, presumibilmente più libera in cose erotiche di un’italiana ancora inceppata da divieti e superstizioni, ma volevo una relazione profonda proprio con lei, lei sola, identificata con la felicità, ossia con il destino buono che doveva essere il mio. 


Pesaro 27 agosto 2021 ore 18, 22 

p. s Statistiche del blog Sempre1161737 Oggi155 Ieri181 Questo mese4724 Il mese scorso6174

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[1] Cfr. quanto dice Giuliano Augusto quando si prepara ad attaccare Costanzo e parla ai soldati: quid agi oporteat bonis successibus instruendi (Ammiano Marcellino, Storie, 21, 5, 6). 
[2] Cfr. la storia di Helena . 
[3] Questa è la storia di Kaisa . 
[4] Nel V dell’Iliade purpurea è la morte che prese il troiano Ipsenore colpito da Euripilo: “e[llabe porfuvreo~ qavnato~ kai; moi'ra krataihv” (v. 839, lo prese la morte purpurea e la moira possente. Questo verso viene ripetuto da Giuliano quando, il 6 novembre del 354 viene nominato Cesare dal cugino Costanzo. In quella circontanza risplendeva nel fulgore della porpora imperiale ( imperatorii muricis fulgore), i soldati lo avevano acclamato battendo gli scudi sul ginocchio, e, salito sul cocchio imperiale, procedeva verso la reggia. 
[5] Oggi il “caro” si lesina, anche nel saluto epistolare, per diffidenza, grettezza, avarizia. Io l’ho sempre usato, come segno di cortesia almeno, spesso pure di affetto, e se chi lo riceve si spaventa o addirittura si offende, peggio per lui. 

La storia di Päivi 4 . Il coro dei reduci da una guerra persa. L’apparizione

Dirigeva il coro di reduci vinti, da sopra una seggiola zoppa, una ragazza romana, intelligente e carina sebbene claudicante anche lei. Era venuta a Debrecen per la prima volta e, siccome tutte le cose e le persone ritornano, non solo eternamente nel cosmo, ma anche in una rapida, precipitosa vita mortale, la incontreremo di nuovo sei anni più tardi, nella primavera del 1980, a Roma, in casa sua, dove mi ospiterà con Ifigenia. 
Ma questo devo raccontarlo più avanti. 

Suonava il pianoforte, e in veste di ierofante guidava il nostro coro di confratelli e compagni comunisti delusi, un austriaco cieco, o non vedente come si dice adesso ipocritamente. Fatto sta che, mentre suonava, quell’uomo muoveva furiosamente gli inutili occhi, scuoteva la testa grossa e ricciuta, sbuffava da froge enormemente dilatate e ogni tanto apriva le fauci, facendo uscire dalla chiostra dei denti e dalle tumide labbra, una lingua piena di brame. Credo di non togliergli niente ricordandolo come era: un bravo suonatore di piano e una cara persona. Anzi, mi fece pure pensare a opere d’arte: a diversi quadri di Picasso e al prato della sventura di Empedocle, l’Agrigentino morto in odore di santità. In quel nostro cantare così accompagnato e diretto dai movimenti della testa del pianista, c’era qualcosa di stanco e penoso: un poco perché la fede politica cui inneggiavamo si era affievolita nelle coscienze, e ancora di più poiché sentivamo che una fase dell’esistenza, i venti anni, le brevi avventure amorose, le bevute con chiacchiere prolungate fino alle luci dell’alba, le ragazzate, stava finendo, e bisognava trovare qualche cosa di nuovo da fare, di cui emozionarci o appassionarci, se non volevamo morire. 

Avevamo appena finito di cantare "Bandiera rossa" e “Bella ciao” con euforia forzata, quando vidi entrare nell’ombroso cortile una giovane donna dai capelli rossi, tanto lunghi che le arrivavano al seno: sul volto serio, da persona abituata a pensare, aveva grandi occhiali da vista; sul corpo ben fatto portava una giacca e dei pantaloni di velluto rosso con negligenza elegante. Poi, indizio non senza significato per me in quel tempo e in quel luogo, aveva l’aria da finnica, ossia l’incarnato straordinariamente bianco che risaltava sotto il rosso delle chiome e degli indumenti, e per giunta aveva gli occhi meravigliosamente obliqui, pieni di forza espressiva. La finnica rossa aveva per giunta natiche e cosce floride che mi fecero pensare alle gioie del sesso, e pure un bel seno fiorente la cui fresca magnificenza mi costrinse a mormorare abbacinato da tanta opulenza: “Dio mio, come la voglio!”

Duravo fatica a trattenere la lingua che già guizzava pronta a parlare, a suggere, a proporre la mia persona quale amante intelligente e festoso. Il tempo dei lunghi corteggiamenti era passato. La caviglia snella e il ginocchio scalpitavano impazienti verso la meta agognata. Mi sembrava di sentire il profumo di quella carne di femmina umana dotata di tutto. Mi scrollavo di dosso gli acciacchi della tristezza e degli anni passati non senza spreco di tempo. Le finlandesi conservano molto della loro facies asiatica originaria: quelle non troppo germanizzate dalla contaminatio con gli svedesi, hanno più l’aria delle orientali che delle nordiche. Fatto sta che tale esotismo contribuisce al mistero e al fascino di quelle creature. Nell’aspetto, nel modo di camminare, nello stile di questa ragazza per giunta c’era qualcosa di intelligente e di nobile che mi attirava con forza. Aveva una forma piena di carattere. Non mi sbagliavo: se sono diventato uno studioso serio e utile a molti umani lo devo a lei, al mese passato ascoltandola, parlandole e facendo l’amore con lei. Mi sentivo attirato come può esserlo un giovane uomo dal proprio destino. Mi chiesi subito se, e come, avrei potuto farmi contraccambiare. 


Pesaro 27 agosto 2021 ore 17, 56 
giovanni ghiselli