Talvolta non prendevamo il tram numero uno, l’unico tram, di colore giallo, ma salivamo sulla nera Volkswagen scoperta e ci recavamo a Hortobágy attraverso la puszta polverosa, o fangosa, dove le oche protendevano il collo e giubilavano roche[4], e i porci edaci, grufolavano, con qualsiasi tempo, mentre tenevano il grugno ingordo sempre puntato a terra e i piccoli occhi cisposi rivolti a cercare in qualsiasi cibo una qualche gioia, o una parziale consolazione della loro voracità che mai sazia chiedeva sempre di riempire il vuoto interno. Come l’ingordigia di certi uomini. Tra loro c’era del resto un cucciolo carino: un porcellotto grasso che cercava la madre alzando il grifo ancora grazioso verso gli adulti. Ma sarebbe diventato come gli altri al pari di tanti bambini dai genitori entrambi obesi.
Nella csárda gli zigani dai volti gialli come limoni suonavano le danze ungheresi di Brahms con i violini striduli e con i cembali precipitosi, facendomi ricordare le tante estati passate in Ungheria, tutta la scala dei vent’anni prossima oramai a terminare, non senza avermi elevato di altrettanti gradini da quando la prima volta, occhialuto, malvestito, sporco, grasso e vorace come i maiali più immondi, ero arrivato nel corso ventoso e polveroso di Debrecen sul calar della notte[5].
Era il 15 luglio del 1966.
Quella sera, a ventuno anni e otto mesi, ebbe inizio la mia vita cosciente.
Il sole era tramontato da poco. Avevo paura dell’oscurità in un paese sconosciuto e remoto di cui non conoscevo l’idioma agglutinante privo di radici a noi note. Ma invece di cadere nel buio, come la vita di Oblomov[6], la mia, da quel tramonto, ricevette l’impulso per un rinascimento personale, una resurrezione che sarebbe cresciuta negli anni fino a perfezionarsi grazie all’incontro con questa donna pensosa e intelligente. Anche buona mi sembrò per tutto quel mese.
Giunto sul limitare della trentina inquietante[7], ero contento di avere onorato l’impegno preso quella sera lontana del luglio del ’66, quando avevo giurato a me stesso che, da osceno e ributtante quale ero, sarei arrivato a piacere alle donne, a molte donne. Stavo per scrivere "a tutte", ma ci ho ripensato, siccome sarebbe ybris, poi sarebbe falso, poiché a diverse invece, purtroppo, non sono piaciuto. Peggio per loro del resto. Caivrete gunai'keς, tanti saluti donne! Vi ho mancato. Pazienza. Pure voi avete mancato me.
Nel 1974 sentivo già che riuscire gradito a diverse femmine umane non bastava, non poteva essere il punto di arrivo: dovevo fare dell’altro: mettermi in condizione di dare qualcosa di buono e concreto ai miei studenti, al mio prossimo, e a quelli meno vicini. Lo sentivo e capivo ascoltando quella giovane donna che sapeva pensare e sapeva parlare come si deve. Si chiamava Päivi. Se non è morta, arrivata a 71 anni, si chiama ancora così.
Era bello e utile conversare con lei, era bello assai e parecchio piacevole fare l’amore in uno dei due collegi universitari: nella mia solita camera dell’edificio numero due, oppure in quella di Päivi che, secondo la tradizione dei finnici, abitava nel primo, e aveva la finestra bassa sul prato scaldato dai raggi del sole, o bagnato dalla rugiada notturna le cui gocce, illuminate dal chiarore lunare, sembravano perle.
Päivi compiva ventiquattro anni in quei giorni e si era da poco laureata in psicologia a Yväskylä. Päivi significa "luce", e, dato che i nomi sono davvero presagi, questa ultima finlandese amata, ha gettato un fascio del suo faro luminoso sul cammino che dovevo affrontare al ritorno in Italia, la strada impervia dello studio serio, impegnativo e proficuo. Dovevo attraversare il sapere per giungere alla sapienza che “esalta i suoi figli e si prende cura di quanti la cercano. Chi la ama, ama la vita. Il Signore ama coloro che la amano. Chi confida in lei la otterrà in eredità. Dapprima lo condurrà per luoghi tortuosi, gli incuterà timore e paura, lo tormenterà con la sua disciplina finché possa fidarsi, ma poi lo ricondurrà sulla retta via."[8].
La disciplina che ho dovuto impormi, non senza fatica grande, con il volgere delle stagioni è diventata una necessità voluta e piacevole.
Pesaro 27 agosto 2021 ore 11
giovanni ghiselli
p. s. Statistiche del blog Sempre1161636 Oggi58 Ieri181 Questo mese4623 Il mese scorso6174
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[4] Cfr. G. Gozzano, La differenza, v. 4.
[5] Cfr. L’arrivo a Debrecen presente in questo blog
[6] Riporto qui in nota alcune parole di Oblomov all’amico Stolz: "Sai, Andrej, nella mia vita nessun fuoco né divoratore né purificatore ha mai divampato. Essa non è stata, come quella degli altri, simile al mattino che a poco a poco si colora e s’accende, poi si muta nel giorno che ferve, arde e palpita nel meriggio luminoso e poi, sempre più pallido e quieto, naturalmente e gradatamente, si spegne nella sera. No, la mia vita è cominciata con il tramonto. E’ strano, ma è così! Dal primo momento che ho avuto coscienza di me, ho sentito che mi spegnevo. Ho cominciato a spegnermi scrivendo gli incartamenti dell’ufficio; ho continuato, poi, conoscendo nei libri quelle verità di cui non avrei saputo che fare nella vita; mi sono spento con gli amici, ascoltando i loro discorsi, i loro pettegolezzi, le loro malignità, il loro malvagio e freddo chiacchierare, la loro vuotaggine; contemplando quel loro tipo d’amicizia alimentato da incontri senza scopo, senza cordialità; mi sono spento e ho consumato le mie forze con Mina, per cui spendevo più di metà delle mie rendite, illudendomi di amarla; mi sono spento nel tetro e fiacco passeggiare lungo il viale Nevski, tra le pellicce d’orso e i baveri di castoro, nelle serate, nei giorni di ricevimento, in cui venivo lietamente accolto come fidanzato discreto; mi sono spento consumando in sciocchezze la vita e l’intelligenza" I. Gončarov, Oblomov, p. 240.
7) Ed ecco la trentina-inquietante, torbida d’istinti-moribondi (Guido Gozzano, I colloqui, vv. 9-11.
8) Antico Testamento, Siracide, La sapienza educatrice
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