mercoledì 25 agosto 2021

La storia di Kaisa. Capitolo 15. Il rito dionisiaco

Sul vagoncino ungherese rimanevo discosto dalla mia amante perché pensavo che non mi amasse abbastanza da rischiare di farsi vedere vicina a me in atteggiamento per lo meno amichevole, dai finnici capitati nei nostri paraggi e capaci di denunciarla al legittimo sposo.
Così restavo discosto da lei e non la guardavo con intensità, ma avrei gradito molto che Kaisa invece, siccome io ero libero, mi facesse almeno dei cenni di simpatia, di intesa, di complicità cui avrei risposto soltanto con gli occhi che significano amore soltanto agli amanti.
Invece Kaisa non mi degnava, e io, quando arrivammo al capolinea e scendemmo, ne avevo il cuore già straziato. C’era un grande prato: una bella radura verde, luminosa tra alberi grandi. I più giovani, spensierati e vitali tra i nostri compagni, appena fuori dal trenino si misero a correre. I consumati bevitori si mossero verso un chiosco guidati da Danilo inghirlandato di pampini. Era arrivato a Debrecen soltanto la sera prima, a causa di contrattempi, mezzo morto di sete. Le sue prime parole furono: “mi scappa da bere!”. 

L’amico, sceso dal trenino, cantava semplicemente: “e se son pallido, senza colori, non voglio dottori, non voglio dottori! E se son pallido come una strassa, vinassa, vinassa e fiaschi de vin!”. Quindi, in stile molto più alto: “spumeggiano ricolme le coppe del piacere!”. Assecondavano il signore della baldoria diversi cultori di Dioniso travestiti da fauni e da satiri. Uno di loro aveva sulle spalle la nebride, un altro impugnava il tirso delle baccanti. Chiudeva la processione una menade ambigua in groppa a un grosso cane coperto da una pelle di pantera. Si faceva largo gridando: “Chi è per strada? Chi è per strada chi? Poi, per darsi importanza aggiungeva: “e ognuno consacri la bocca che serba religioso silenzio. io infatti celebrerò Dioniso secondo il rito in uso, sempre”[1]. Il kwmasth;" [2] concludeva cantando l’aria di Papageno: “sono io gran bevitore sempre allegro, eccomi qua!”. 

La turba dei seguaci lanciava applausi e accompagnava il dionisiaco metro con appropriate grida bacchiche. Un pastore protestante, non lontano da quella schiera, si segnava cristianamente per esorcizzare gli dèi “falsi e bugiardi” evocati da quella festività orgiastica. Invano, poiché la frenesia aveva invaso il corteo e i volti accesi di quella confraternita invasata dal dio dell'evoè assumevano l'aspetto della Gorgone, mentre la voce di Danilo a tratti sembrava avere un timbro sovrumano e incuteva spavento. Nec taciturnus nec prudens, gridava: cum gravis vino sim, tamen sitio sanguinem!, benché sia pieno di vino, ho sete di sangue. Alludeva, credo al rosso “sangue di toro di Eger” ma non ne ero del tutto sicuro. Ebrietates continuae efferant animos [3]. 
I suoi seguaci, avvicinandosi al chiosco bramato con una sete inaudita, emettevano bava secca e roteavano pupille distorte. Finalmente riuscirono a trarre sorsi lunghi da coppe, bottiglie e boccali inneggiando, con voci rugose e cori privi di dorica lira, a Bacco il loro signore. Quando gli venne servito un bicchiere di media grandezza Danilo che, in qualità di ierofante, conosceva i misteri, lo considerò un segno di malaugurio e gridò: “ Che cosa è questa blasfhmiva? Devo morire oggi stesso? Portaci subito coppe grandi come crateri pieni di fuoco liquido, in modo che il cuore e la mente possano gioire più in fretta”. Quando gli fu portato l’orcio, il sacerdote sommo lo alzò con entrambe le mani e lo travasò nella gola assetata. Chi era invece posseduto da Eros, aveva lineamenti più amabili, voce più dolce, gesti più pacati. 



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1 Cfr. Euripide, Baccanti, parodo 68-72 
2 Cfr. Aristofane, Nuvole, 606, signore del kw'mo", baldoria, festa, Dioniso stesso.  
3 Seneca, Ep., 83, 26.

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