La festa serale al casinetto del tennis. L’antifemminismo deprecabile dei maschi frustrati. I fescennini obbrobriosi
Questo episodio e il prossimo furono eventa, accidenti esterni, che mi hanno educato e, con il volgere delle stagioni, sono diventati coniuncta, qualità congiunte e intrinseche al mio essere umano dotato di umanità.
La sera in cui Elena mi insegnò a essere onesto e buono con lei, con le mie donne future, con tutte le creature viventi, e con me stesso, era il quattro di agosto.
C’era una festa nel casinetto del tennis; eravamo in molti sulla terrazza del primo piano: il povero Fulvio corteggiava la sua futura moglie con serietà, non senza successo; gli altri maschi italiani, Danilo, il povero Alfredo, Ezio, Claudio, il povero Bruno, e il povero Silvano, bevevano non poco e cialtroneggiavano molto, motteggiando non finemente le femmine non italiane, in italiano. Si ballava, ma ogni tanto ci si riuniva in un angolo, l’angolo impoetico dei maschi frustrati, per schernire la gente, soprattutto le ragazze straniere. Non era santa la danza, non si cantavano inni agli dei, peani per Febo Apollo né ditirambi per Dioniso. Nemmeno epinici si cantavano bensì lugubri epicedi intonati male per seppellire il buon gusto e la moralità.
Parlando tra noi, designavamo le ragazze con epiteti impietosi e oltraggiosi: “il grugno da scrofa, la sfregiata, la vecchia, il cercopiteco dalla fronte inverecondamente bassa, la Megera dall’occhio che strega,
la fattucchiera maestra di malìe con erbe e con icone, la più sdentata e orba tra le Forcidi, la più feroce delle tre Erinni; poi l’anziana spelacchiata, la canuta, l’epilettica, la lebbrosa, la più consumata delle volpi, la più svergognata pantera dell’Università estiva di Debrecen”, secondo la consuetudine infame del maschio italiano sessualmente affamato e frustrato.
Un giovane mongolo di Ulan Bator applaudiva continuamente, con frenesia estatica. Ogni tanto lanciava un incomprensibile grido tribale. Concluse la serata con le mani arrossate e del tutto sfiatato. Un Samoiedo assisteva senza fiatare, con un sorriso da mummia. Sembrava tuttavia ferocemente attaccato alla vita ancora più di noi altri.
Noi italiani eravamo anche imbevuti dell’antifemminismo illogico e immorale della tradizione cristiana[1] e pure greca purtroppo, raccolta e riproposta da diversi scrittori moderni malevoli verso la vita, per esempio il suicida Weininger, e il suicida Pavese che qualche anno prima era stato di moda. “Chi si prende in casa una donna, si prende un ladro”[2]. “Sono un popolo nemico le donne”[3] e così via.
Infamare le donne, come dire male degli dèi, è odiosa sapienza. Se diciamo bene delle femmine umane e dei numi, minore è la colpa, molto minore.
Nelle scuole si dovrebbe insegnare qualche cosa sul rapporto tra i generi.
Si irridevano dunque le ragazze e si rideva sguaiatamente, con allegrezza pazza e deforme. Lo “scellerato sesso”[4]veniva oltraggiato in vari modi.
Uno gridava con voce squillante e suoni collaterali da trombettista: “cerco piteco, cerco piteco” alludendo a un paio di ragazze piuttosto camuse che facevano sesso con una certa disinvoltura. E il coro degli altri bruti: “Trovo piteco, trovo piteco”. E subito dopo: “scopo piteco, scopo piteco”. Quindi il solista: “schifo piteco, schifo piteco”.
C’era un colpo e un contraccolpo, e il vociare stupido si posava su altro stupido, cattivo successivo gridare.
Poi tutto quel gruppo di gaglioffi imbestiati urlava in coo un “peròòò” di ripensamento, che riapriva l’orrendo canto nuziale, un imeneo zoofilo: “cerco piteco, cerco piteco. Rendiamo felici questi primati!”.
E così via in un girotondo assolutamente bestiale.
Claudio, arrivato in ritardo, reduce da un incontro con il suo inesausto “porcone” diceva di volere rifarsi la bocca con una quaglia vergine e appena un po’ cicciosetta o con una porcellotta illibata. Le avrebbe insegnato la modestia.
Il fetore del coro raggiungeva la luna che i più profani arrivavano a sfottere, irridendo la sua castità violata dagli astronauti. “Che fai tu luna in ciel, vecchia troia, dissoluta e butterata? Altro che casta diva!” gridavano a squarciagola, poi giù quattro risate dal fragore maligno.
Beceri e sacrileghi assai. Io fingevo di vergognarmi e davo a a vedere un gesuitico sdegno. Provavo anche a dire: “ma no, quali scimmie? Sono gatte mammone!”.
Oppure cercavo di istruire un secondo coro cantando l’aria di Figaro: "Guardate queste femmine, /guardate cosa son. /Queste chiamate dee/dagli ingannati sensi/a cui tributa incensi/la debole ragion. /Son streghe che incantano/per farci penar, /sirene che cantano/per farci affogar; /civette che allettano/per trarci le piume, /comete che brillano/per toglierci il lume. /Son rose spinose, /son volpi vezzose, /son orse benigne, /colombe maligne, /maestre d'inganni, /amiche d'affanni/che fingono, mentono, /che amore non sentono, / non senton pietà. /Il resto nol dico. /Già ognuno lo sa"[5].
Mi divertivo assai. Ogni tanto, di nascosto e sottovoce, suggerivo battute infernali ai gaglioffi più osceni, se rinculavano per andare a bere altre palinke alla prugna, o “brugna” come si usava dire ammaestrati dai linguisti di Parma.
Bevevano, brindavano e continuavano a canzonare tra stridule risa
Ero uno sconcio demonio anche io, forse il più assatanato di tutti. Ma cercavo di coprire la mia nuda scelleratezza con scampoli di letteratura, e volevo sembrare tanto più raffinato quanto più, sotto sotto ero un vero demonio[6].
giovanni ghiselli
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[1] “Il cristianesimo diede a Eros del veleno da bere: egli non ne morì, ma degenerò in vizio” Nietzsche, Di là dal bene e dal male, Aforismi e interludi, 168.
[2] Questo è Esiodo, il caposcuola.
[3] Questo è Pavese che, non per caso, si è ammazzato, come Weininger.
[4] Cfr. Ariosto, Orlando furioso, 27, 119.
[5]Mozart - Da Ponte, Le nozze di Figaro, IV, 8.
[6] Cfr. Shakespeare, Riccardo III, I, 3. - And seem a saint, when most I play the devil
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