venerdì 27 agosto 2021

La storia di Päivi 4 . Il coro dei reduci da una guerra persa. L’apparizione

Dirigeva il coro di reduci vinti, da sopra una seggiola zoppa, una ragazza romana, intelligente e carina sebbene claudicante anche lei. Era venuta a Debrecen per la prima volta e, siccome tutte le cose e le persone ritornano, non solo eternamente nel cosmo, ma anche in una rapida, precipitosa vita mortale, la incontreremo di nuovo sei anni più tardi, nella primavera del 1980, a Roma, in casa sua, dove mi ospiterà con Ifigenia. 
Ma questo devo raccontarlo più avanti. 

Suonava il pianoforte, e in veste di ierofante guidava il nostro coro di confratelli e compagni comunisti delusi, un austriaco cieco, o non vedente come si dice adesso ipocritamente. Fatto sta che, mentre suonava, quell’uomo muoveva furiosamente gli inutili occhi, scuoteva la testa grossa e ricciuta, sbuffava da froge enormemente dilatate e ogni tanto apriva le fauci, facendo uscire dalla chiostra dei denti e dalle tumide labbra, una lingua piena di brame. Credo di non togliergli niente ricordandolo come era: un bravo suonatore di piano e una cara persona. Anzi, mi fece pure pensare a opere d’arte: a diversi quadri di Picasso e al prato della sventura di Empedocle, l’Agrigentino morto in odore di santità. In quel nostro cantare così accompagnato e diretto dai movimenti della testa del pianista, c’era qualcosa di stanco e penoso: un poco perché la fede politica cui inneggiavamo si era affievolita nelle coscienze, e ancora di più poiché sentivamo che una fase dell’esistenza, i venti anni, le brevi avventure amorose, le bevute con chiacchiere prolungate fino alle luci dell’alba, le ragazzate, stava finendo, e bisognava trovare qualche cosa di nuovo da fare, di cui emozionarci o appassionarci, se non volevamo morire. 

Avevamo appena finito di cantare "Bandiera rossa" e “Bella ciao” con euforia forzata, quando vidi entrare nell’ombroso cortile una giovane donna dai capelli rossi, tanto lunghi che le arrivavano al seno: sul volto serio, da persona abituata a pensare, aveva grandi occhiali da vista; sul corpo ben fatto portava una giacca e dei pantaloni di velluto rosso con negligenza elegante. Poi, indizio non senza significato per me in quel tempo e in quel luogo, aveva l’aria da finnica, ossia l’incarnato straordinariamente bianco che risaltava sotto il rosso delle chiome e degli indumenti, e per giunta aveva gli occhi meravigliosamente obliqui, pieni di forza espressiva. La finnica rossa aveva per giunta natiche e cosce floride che mi fecero pensare alle gioie del sesso, e pure un bel seno fiorente la cui fresca magnificenza mi costrinse a mormorare abbacinato da tanta opulenza: “Dio mio, come la voglio!”

Duravo fatica a trattenere la lingua che già guizzava pronta a parlare, a suggere, a proporre la mia persona quale amante intelligente e festoso. Il tempo dei lunghi corteggiamenti era passato. La caviglia snella e il ginocchio scalpitavano impazienti verso la meta agognata. Mi sembrava di sentire il profumo di quella carne di femmina umana dotata di tutto. Mi scrollavo di dosso gli acciacchi della tristezza e degli anni passati non senza spreco di tempo. Le finlandesi conservano molto della loro facies asiatica originaria: quelle non troppo germanizzate dalla contaminatio con gli svedesi, hanno più l’aria delle orientali che delle nordiche. Fatto sta che tale esotismo contribuisce al mistero e al fascino di quelle creature. Nell’aspetto, nel modo di camminare, nello stile di questa ragazza per giunta c’era qualcosa di intelligente e di nobile che mi attirava con forza. Aveva una forma piena di carattere. Non mi sbagliavo: se sono diventato uno studioso serio e utile a molti umani lo devo a lei, al mese passato ascoltandola, parlandole e facendo l’amore con lei. Mi sentivo attirato come può esserlo un giovane uomo dal proprio destino. Mi chiesi subito se, e come, avrei potuto farmi contraccambiare. 


Pesaro 27 agosto 2021 ore 17, 56 
giovanni ghiselli

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