mercoledì 18 agosto 2021

La storia di Kaisa. Capitolo 1. La conoscenza e il corteggiamento

università di Debrecen
Nell’anno successivo al mese di amore con Helena vissi in Italia una relazione insulsa con una donna stupida e venale: l’ingorda, oziosa, pacchiana Esmeralda . Non poteva piacermi abbastanza né a lungo colei. Era mulier non mei generis. Né io potevo andarle a genio. Quindi ci fu un’altra per niente stupida che mi piaceva e avrei voluto conoscerla meravigliosamente, ma lei non volle, forse perché era già mezza pazza. Lo divenne del tutto qualche anno più tardi, quando, devastata dai morsi della sventura, mi cercò, ma l’abisso della sua follia mi fece scappare a gambe levate. Se tu guardi a lungo nell’abisso, questo entra in te. 

 Nel luglio del 1972 dunque tornai a Debrecen affamato di esperienze umane, e sessuali, ricche di significati forti e belli. Avevo il braccio destro ingessato dal polso al confine con la spalla dopo una brutta frattura esposta, buscata in seguito a una precipitosa caduta dalla bicicletta in una discesa della “Panoramica” di Pesaro. Tuttavia già un mese dopo la lunga operazione necessaria a rimettermi in sesto portavo l’impiccio duro e ingombrante con disinvoltura; cercavo anzi di farne un mezzo di seduzione collegandolo a una presunta virtus del vir che non si tira indietro davanti a nessun pericolo. Si spezza magari ma non si piega, come suol dirsi. Arrivato nell’Università estiva, volevo confermare il successo avuto con Elena: l’ambiente di Debrecen con le studentesse provenienti da tutto il mondo, massime dalla Finlandia per quanto mi riguardava, era il più significativo ai miei occhi e il più adatto a soddisfare questo mio desiderio e bisogno. Probabilmente per lo stesso motivo, appena ho potuto, nell’autunno del 1974, dopo Päivi, sono tornato a vivere da Padova a Bologna: questa infatti è una polis vivacizzata non da turisti più o meno beceri, come altre pur belle città, ma da centomila studenti universitari, e non tutti maschi ovviamente. Lo storico dell’arte Riccomini, donnaiolo non meno di me, sebbene più attempato, ha detto, con parole veraci, che Bologna è un luogo godereccio siccome la vicinanza di tanti docenti e discenti è un terreno fertile per una grande, rigogliosa, fioritura erotica. 
Non posso negare che sia così. E così sia. Lo stesso preside veneto della mia prima scuola in provincia di Padova mi suggeriva di tornare presto a Bologna: la città davvero adatta alla mia natura di comunista e donnaiolo. Lo rassicuravo che l’avrei fatto appena possibile. L’ambiente veneto invero mi era simpatico ma Bologna mi offriva di più. 

 Nel mese del corso estivo dell’Università di Debrecen dell’anno di mia salvazione 1972, dunque amai riamato un’altra finnica: Kaisa bellina assai, colta e fine. Sapeva di greco e di latino oltre conoscere un paio di lingue europèe ancora parlate. Come la vidi, pensai: “la finnica Elena, e ora questa finnica qui. Nella mia vita ogni cosa è una ripresa e una continuazione. Nell’ evoluzione di questa via non ci sono elementi disorganici”. Kaisa era una ragazza piccola, ben fatta, piena di significato, con occhi dal taglio orientale, blu e profondi, zigomi iperborei. I capelli li aveva neri, lisci, lunghi. Come persona era una seria studiosa di glottologia, specializzata nella linguistica generativa. Con il volgere delle stagioni avrebbe fatto carriera nel mondo universitario fino a diventare preside di facoltà. Aveva solo ventuno anni e qualche mese, ma era già sposata da due e con un bambino: un maschio dagli occhi azzurri mi disse, mostrandomene la fotografia e alzando un muro davanti al mio eros con questo atto non certo incoraggiante. 
“Ecco un problema - pensai - Devo scavalcare l’ostacolo[2] che frapposto al mio scopo - pensai - fare un salto da atleta dell’amore per portarmi al di là”. Di Kaisa mi piaceva l’aspetto e stimavo la sua serietà di studiosa, anche per reazione alle continue sbandate dell’Esmeralda che passava il tempo a passare il tempo, riempiendolo di chiacchiere vuote, di mangiate deformanti, di bevute da stordimento, né io ero migliore quando sprecavo il mio tempo con una persona tanto malsana. Mi aiutò del resto a ottenere il trasferimento a Bologna. Era nel contempo utile e deleteria. Nel frequentarla vivevo la mia contraddizione, come si diceva all’epoca. La studiosa ragazza finnica, paragonata a tali sperperatori del bene per me più prezioso, il tempo, mi sembrava una dea o la creatura mandata da un dio per redimermi dall’essere stato, sia pure per poco e non senza calcoli e mire dirette in avanti, un profligator temporis mei. Peccato tra i più gravi, crimine contro me stesso, meritevole di pene tartarèe se prolungato. Dovevo ripetere la tattica e la strategia adoperate con Elena, magari rinnovandole e adattandole a questa nuova, necessarissima amante. Dai successi passati devi imparare la strada per i prossimi. Dovevo indurla ad accogliere le mie ragioni seminali, gli spermatikoi; lovgoi che avrebbero consolidato la mia crescita umana e dato a lei un dono prezioso di liete e memorabili gioie. 

Mi innamorai di questa donna sposata e la feci venire a letto con me, in spregio del suo vincolo matrimoniale, adulandola sfacciatamente. La conobbi e cominciammo a parlare da compagni di scuola durante gli intervalli tra le prime lezioni universitarie. Ebbi la sensazione di non dispiacerle fin dall’inizio. Mi riempìi di speranza, un cibo non dannoso se smaltito con un agire adeguato, anzi produttivo. Dopo un paio di giorni, una sera, mentre il primo fra tutti gli dèi con le sue fiamme ormai tiepide calava sull’orizzonte, mi avvicinai guardingo, in punta di piedi, e le proposi di fare due passi verso il sole al tramonto per metterlo a letto con le nostre parole belle. Considerato quanto benevolmente accolse questo mio approccio, subito dopo il tramonto la invitai sulla terrazza dell’Aranybika dove si poteva cenare e pure ballare. Percorremmo il tragitto dicendo solo alcune frasi di brevità e di forza, in sintonia con il silenzio del bosco, pieno di significati e di mute promesse nel principiare della breve notte. 
Quando fummo seduti nel ristorante continuavamo a parlare poco ascoltando le Danze ungheresi di Brahms suonate dai violini zigani. Kaisa esibiva il colore eccezionale degli occhi muovendo le palpebre a tempo; io nelle pause di quelle sonate, le dicevo parole gradevoli e forse gradite con un tono pieno di pathos per significare che durante l’eloquio precedente, tutt’altro che fitto, avevo riflettuto sui significati seri e profondi del nostro incontro cui non potevano confacersi chiacchiere ordinarie, luoghi comuni, banalità. Per lei poesia ci voleva, parole sentite e frasi pensate. Le dicevo dunque che le sue meravigliose luci mi facevano venire in mente il blu dei mari di Grecia, i petali delle viole nei prati di marzo appena spruzzati dalla pioggia della primavera nascente, il cielo turchino sulle montagne ancora innevate e scintillanti al sole di aprile. 
Conclusi l’encomio con una citazione[3], siccome mi ero ricordato che avevo acceso l’attenzione di Elena citando Pavese. “Da quando la notte nera ha tolto il colore alle cose, tu li restituisci tutti e li rendi più vivi” le dissi. Continuai a parlare limitando il polisindeto[4], l’uso di molte congiunzioni la cui frequenza ottunde l’acutezza e lo slancio del pathos. Tendevo piuttosto all’asindeto che fa vedere dritta la forza del sentimento e della voglia amorosa. Non potevo fallire e calcolavo ogni sillaba, il tono della voce, ogni movimento delle mani e del collo, e l’espressione degli occhi, in amore duces. Una donna del genere avrebbe rifiutato il perfetto imbecille che si muove e parla a caso, senza arte né coscienza di quanto era dovuto a una femmina umana di quella levatura non comune. Chiacchiere ordinarie per non dire triviali potevo farle parlando con donnicciole e con omuncoli senza spessore alcuno, non certo con quella ragazza bella, fine, studiosa. Meritava un eloquio elegante, originale, geniale: frasi plastiche e raffinate nello stesso tempo. Come già Elena nel 71, Kaisa nel 1972 era un simbolo della mia mente, l’altra metà, il il segno di riconoscimento dell’intero che eravamo, e amandola mi addentravo in me stesso. 

 Pesaro 18 agosto 2021 ore 17, 38 
giovanni ghiselli

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[1] Cfr. T. Mann, Doctor Faustus: “Fu infatti soltanto una farfalla un’Haetera Esmeralda, una strega che seguii nell’ombra crepuscolare delle fronde” (p. 679).
[2] Cfr. provblhma da probavllw. Significa ciò che è gettato davanti, dunque un ostacolo. 
[3] “… et rebus nox abstulit atra colorem” (Virgilio, Eneide VI, 272. 
[4] L’uso di molte congiunzioni. 

1 commento:

Ifigenia CLVIII. Preghiera al dio Sole. Saluti alla signora e alla signorinella magiare.

  Pregai il sole già molto vicino al margine occidentale della grande pianura. “Aiutami Sole, a trovare dentro questo lungo travagli...