Dipinto-ritratto di donna nuda a una finestra Mostra del pensionato dell'Accademia Americana |
Volevo vederla, ma non avevamo preso un accordo preciso.
Alle 11,30 dopo le lezioni, invece di andare a correre, sedetti sul prato in mezzo ai nostri collegi, sperando che Elena si affacciasse presto alla finestra di camera sua, come la sera del picnic da me disertato per correre da lei, oppure, apparisse dalla parte dell’Università, quella orientale da dove all’alba avevo visto arrivare la luce, e venisse vicino a me. Era un giorno di estate piena, ancora trionfante: la grande luce faceva brillare e rallegrava le pareti degli edifici, colorava le cose, la pelle e i capelli delle persone, la scorza e le foglie degli alberi, rendeva luminose perfino le ombre sul prato, dense e raccolte a quell’ora.
Il mondo era la rappresentazione della mia gioia nell’attesa della creatura che amavo e quasi sicuramente mi amava.
A mezzogiorno già passato però, la bella donna biancovestita non si era
fatta vedere ancora. Eppure da quell’osservatorio cruciale in quanto
posto all’incrocio dei nostri cammini, e dei nostri destini, avevo potuto
osservare tutte le uscite, le entrate, i movimenti delle persone.
Mi domandavo: “l’ho forse offesa riaccompagnandola anzi tempo in collegio?
Oppure la bella donna, invero non proprio assurdamente, ha pensato che il nostro amore è assurdo perché lei aspetta un figlio dal suo fidanzato e noi due, per giunta, abitiamo distanti duemila e cinquecento chilometri l’uno dall’altro?
Oppure il caldo di questa giornata, meraviglioso per me, ma forse eccessivo per tale creatura, cresciuta tra i boschi e i laghi iperborei, l’ha fatta fuggire e tornare nell’ultima Thule da dove era partita una settimana fa, improvvida dell’incontro fallace? E io che la voglio prendere, sono ingenuo come un fanciullo che insegue un uccello che vola, o cerca di afferrare con le mani un pesce che sguscia?” Questa ipotesi mi parve orrenda e mi fece rabbrividire.
Agli amici e conoscenti, che andavano e venivano, a ognuno della brigata mia e a certuni di altre combriccole, domandavo se Elena si fosse vista, ma Fulvio, scusandosi, disse di no, Stefania non ci aveva fatto caso, Claudio, Alfredo, Bruno, Tristano neanche. Danilo giurò, sulla bottiglia di palinka che teneva in mano, di non averla vista, quindi aggiunse: “il liquore che sto per bere non è di questo mondo: è Dio in persona che innalza l’anima mia al di sopra di ogni meschinità”. Gli roteavano gli occhi come al leone che divora la preda.
La garrula fama, la chiacchiera curiosa e linguacciuta non dava notizia di lei.
Claudio, il cynicus parmensis, anzi proferì parole di malaugurio: “Chi, la cancerogena? No, non l’ho vista”. Quindi aggiunse: “Tanto non guzza!”
“Con te no di certo!” replicai
“Piantala con questo tuo vizio assurdo da sordido anacoreta onanista!” aggiunse.
L’accento era emiliano, ma tutt’altro che bonacciona la voce di quel profetismo da iena, il gesto irridente e minaccioso. “Lo spirito diabolico che sempre nega, prima o poi verrà sbugiardato – pensai - se non oggi domani o domani l’altro (2). Al più tardi, nel giorno del Giudizio: “Iudex ergo cum sedebit - quidquid latet apparebit - nil inultum remanebit” (3).
Il tono malignamente ominoso di quel sinistro messaggero di un brutto destino
volta mi turbò. Aveva cercato di trascinare nel suo abisso, con un ghigno
beffardo, un miracolo, una corona della creazione, una creatura che ravvivava
la stessa mia vita.
“Di bocche senza freno, di follia senza misura, il termine è sventura” (4), gli ricordai mentre al dolore si aggiungeva dolore.
Avvicinandosi il tocco mi invase il terrore che la misteriosa creatura fosse morta, che i suoi occhi dalle vivaci pupille veggenti si stessero già disfacendo in polvere, oppure, nauseata dal caldo e da me, fosse tornata in Finlandia nel luogo da dove si era allontanata quando, benedetta, si incinse di un altro uomo, un finnico molto più grande, più grosso e più facoltoso di me. Temevo qualche metamorfosi negativa.
Di fatto l’angoscia cominciò a deformare tutte le cose che divennero le immagini della mia pena: visioni simili a larve di sogni opprimenti.
Nella mia testa malignamente incantata le immagini strane subivano un ribaltamento semantico: attribuivo loro significati stravolti, eccessivi, mostruosi.
Lo stesso caldo che ho sempre adorato mi stava arrostendo nella graticola tremenda di Venere e sollevava un fumo nauseante che sapeva di carne bruciata (5). Cupi vapori arroventavano l’aria.
Vedevo invecchiare rapidamente tutto, come se ogni istante, passando, facesse precipitare nella morte scoscesa i giorni di quell’estate già lieta, interi anni della brevissima vita dell’uomo e una serie grande di secoli: l’erba senza colore, infestata da serpi velenose, si disseccava e piegava sospinta e inaridita da un fiato maligno, i fiori si riempivano di ombre come quelli dell’Ade, le foglie ingiallivano e si accartocciavano, i mattoni dei nostri collegi si sbriciolavano, gli alberi si seccavano, si contorcevano, le loro viscere nodose partorivano ratti raccapriccianti, stagni mefitici esalavano miasmi immondi, gli amici contaminati diventavano orrendi e penosi: vedevo facce e teste svigorite, vane immagini del mondo dei morti, senza sguardo, senza capelli: alcuni erano già teschi mozzi strappati da streghe a denti di belve.
Vidi anche una figura offuscata che mi veniva avanti con le membra a pezzi (6). Forse era lei. O ero io stesso, tornato deforme durante la danza macabra verso la morte.
giovanni ghiselli
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1 Ammiano Marcellino, Rerum gestarum libri XXXI, 21, 5, 6, Impareremo dai buoni successi che cosa si debba fare.
2 Nel primo stasimo dell'Agamennone (vv. 387 e sgg.) leggiamo, e impariamo: "Non rimane celata la colpa, ma diviene evidente, abbagliata da luce terribile. Il colpevole è come moneta falsa che, sfregata, appare quale pezzo di ferro nero; è come un fanciullo che insegue un uccello che vola".
3 Quando il Giudice sarà seduto, tutto quanto è nascosto apparirà, niente rimarrà invendicato. Sono versi del Dies irae di Tommaso da Celano (XIII secolo)
4 Cfr. Euripide, Baccanti, 386-387: “ajcalivnwn stomavtwn - ajnovmou t j afrosuvna~ - to; tevlo~ dustuciva”.
5 Cfr. Properzio: Correptus saevo Veneris torrebar aeno, /vinctus eram versas in mea terga manus. / " (III, 24, 13-14), afferrato venivo arrostito nella caldaia tremenda di Venere, ero stato legato con le mani girate dietro la schiena.
6 Cfr. Apuleio, Asino d’oro II, 17 extorta dentibus ferarum trunca calvaria.
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