La clinica non era lontana dal nostro collegio e si poteva raggiungere pure a piedi e senza necessità di correre, ma vi lavoravano medici strani: era insomma un ambiente dove la bella donna, forse già in quel momento, sottostava a una visita imbarazzante, per giunta senza potersi spiegare con il ginecologo asiatico o africano, che magari era bravo e gentile, ma, se non sapeva parlare inglese né finlandese, le avrebbe fatto domande incomprensibili, mentre le palpeggiava il bianchissimo ventre con mani nere oppure olivastre.
“Certo”, pensavo, “se i dottori neri, o gialli, o bianchi, parlano solo ungherese o altre lingue da lei sconosciute, Elena avrà bisogno di aiuto”.
Rimuginando, correvo lungo i binari del tram resi scivolosi da una pioggerella viscida.
Ne ero innamorato; del resto le avevo promesso che l’avrei accompagnata in ospedale per aiutarla, perciò l’avrei fatto anche se mi fosse stata indifferente o nemica.
Che cosa speravo realmente? Che fosse incinta davvero, che abortisse, che venisse in Italia con me?
Non lo so. Col tempo, tanto tempo, ho capito che la sua funzione “storica” nei miei confronti era nutrirmi lo spirito nel rapido tempo di un mese scarso, e accrescere la mia autostima con le qualità non comuni di cui l’avevano dotata benignamente gli dèi. Perché ne facesse dono a me.
Correvo e mi ponevo domande: “Elena deve donarmi il corpo e l’anima sua. E io come la contraccambio?” Mi davo anche delle risposte: “Intanto oggi l’aiuto a spiegarsi con il ginecologo senegalese o vietnamita o uzbeko, e le faccio sentire la mia solidarietà, poi magari la renderò immortale raccontando questa storia nobile e bella di aiuto reciproco. Ci metterò la verità e la bellezza necessarie l’arte”.
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