George Gershwin |
“La terra è in mezzo
alle stelle che ora si spengono nel bianco rosa del cielo, mentre il tuo volto
si illumina”, pensai. “Il ricordo di te durerà quanto i moti degli astri
fulgenti nell’etere, e il nostro amore sarà l’eredità delle nostre vite”, le
dissi.
Quel momento,
verso le tre del mattino, è stato uno dei più chiari e luminosi di mia vita
mortale. Mentre la donna, rischiarandosi alle rosee carezze di quell’aurora
lontana, celebrava l’estate e la nostra felicità con limpido canto, la luce
crescendo e propagandosi ovunque, mostrava la bellezza ordinata dell’esistenza
terrena e io me la sentivo fluire dentro, nei polmoni e nel sangue pulsato dal
cuore pieno di gioia. Avvertivo il richiamo dell’arte che è fusione di
bellezza, bontà e verità.
Tutte le piante, i
fiori e le erbe dell’orto botanico si vivacizzavano: i campanellini
dell’Heuchera sanguinea trillavano di felicità, la Campanula carpatica brillava
di luce azzurra, e la Tunica saxifraga dal carneo colore danzava nella brezza
mattutina al canto della donna innamorata. Sentivo l’ordine del cosmo e sapevo
che il nostro amore ne faceva parte, contribuiva a formarlo. Respiravo con il
mondo: ero entrato in quella unità della mia persona con l’universo che
costituisce il culmine della felicità. “L’amore è la vita, l’amore è Dio”,
pensai. “Un dio tanto umano da rendere divine le sue creature più buone e più
belle, più simili a lui.” Ancora oggi, dopo quasi mezzo secolo, se per caso
sento una voce femminile cantare quell’aria di Gershwin, rivedo l’estate di
Debrecen con il grande bosco di alberi sacri, le querce dodonee che accarezzano
le stelle del cielo, rivedo i salici che, piegati sul lago, vellicano le
schiene purpuree dei pesci, rivedo le farfalle variopinte che danzano liete
come fanciulle innamorate, quindi riappare la vegetazione strana dell’orto
botanico e infine completa il quadro le membra di un bianco luminoso, i neri
capelli, il volto dolce e intelligente, lo sguardo bello e buono di Helena
Sarjantola che quell’estate remota, con parole piene di significato, con lo
sguardo espressivo e penetrante, con la figura ben modellata da quel sommo
artista che è Dio, mi mostrò l’idea eterna della bellezza corporea armonizzata
con la nobiltà dello spirito. Ora tutto quanto vidi durante quella passeggiata
remota è scomparso dal mondo, ma rimane dentro di me ancora osservato dalla
mente e dal cuore con gioia e gratitudine verso la vita che mi ha donato questo
regalo eterno, questo bene per sempre.
Domenica 22 agosto
1971, quando partì dalla Keleti Pályaudvar, la stazione orientale di Budapest,
lasciandomi l’immortale memoria di sé, prima di salire sul treno celeste
chiaro, come i laghi e il cielo un poco sbiaditi della sua terra, Elena mi
ringraziò di non essere stato cattivo, né volgare, né stupido con lei. Le
promisi che non lo sarei stato mai più con nessuno, poiché durante quel mese
passato con lei mi ero sentito bene, ero stato, finalmente, me stesso. Le
ripetei le parole dette da Odisseo a Nausicaa al momento del congedo: tu di
fatto mi hai salvato la vita, ragazza[2]. Non ho sofferto per la sua
sparizione, forse perché il desiderio ardente di quella donna, più che brama
carnale del suo corpo era un bisogno struggente di identità da definire e
completare grazie a lei. Quel 22 agosto Elena aveva già compiuto la sua
funzione “storica”. Dopo la partenza del treno non l’ho più vista mai più,
nemmeno quando, nel settembre del 1974 andai a Yväskylä a trovare Päivi che
aspettava una bambina da me. Eppure l’ho sempre pensata come la creatura
preziosa che, contraccambiando il mio amore, mi ha insegnato più di ogni altra ad
amare la vita, a credere nel Bello e nel Bene, ad avere fiducia in me stesso, a
diventare quello che sono, qualunque piccola, poca e povera cosa io sia.
Comunque corrispondo alle mie aspirazioni commisurate alle mie qualità. Nei
momenti più tristi e desolati di questa mia vita terrena, quando altre persone
mi hanno deluso o tradito, da Päivi che dopo l’ultimo incontro in un letto di
infelicità non mi mandava notizie, a Ifigenia che la notte atroce del pozzo di
Vernicino, volle gettarsi nel torbido abisso anche lei, sempre mi sono
rifugiato nel ricordo della notte felice in cui Helena mi insegnò ad aborrire
dall’ingiustizia; poi, mentre il sole spuntava sul giardino di quel paradiso e
versava le prime luci della sua bellezza inesausta, lei con angelica voce
cantava un peana colmo di gratitudine alla vita bella, serena, meritevole di
riconoscenza al Creatore, degna di essere vissuta in pieno, con gioia. Mi
insegnava a non averne paura[3]. Apollo accompagnava quel canto facendo vibrare
di vita le corde della dorica lira con il plettro d’avorio. E se dopo questa
mirabile vita terrena, potremo viverne un’altra in mezzo alle stelle del cielo,
o se[4] avremo una seconda possibilità qui, su questa bella terra illuminata
dal sole, io spero di incontrarti ancora, Elena, amore mio, e di amarti di
nuovo.
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2. Odissea, VIII, 468 Suv
ga;r m j ejbiwvsao, kouvrh,
3. Come ha raccomandato
di recente papa Francesco: "non abbiate paura della gioia!". Parole
sante. Le aveva già scritte Strabone il quale nella sua Geografia - redatta nei
primi anni del regno redatta nei primi anni del regno di Tiberio - afferma che
gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene ma, si potrebbe dire
anche meglio, quando sono felici, (a[meinon d j a[n levgoi
ti", o{tan eujdaimonw'si, X, 3, 9) .
4. Non sono d’accordo con gli estremisti del laicismo i quali che escludono questo “se” cruciale. La penso come il buffone di corte Touchstone, “Pietra di paragone”, che nella commedia pastorale As you like it di Shakespeare sentenzia: "'If' is the only peace - maker: much virtue in 'If' " (V, 4) , "Se" è l'unico paciere: c'è molta virtù nel "Se".
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