martedì 17 agosto 2021

La storia di Elena XL. Ultimo capitolo. Lieto fine?

George Gershwin
Tutte le cose intorno a noi sembravano prossime a schiudersi per rivelarci chissà quali segreti. Invero che non c’era nessun segreto nella bellezza del cosmo così dispiegata. 

“La terra è in mezzo alle stelle che ora si spengono nel bianco rosa del cielo, mentre il tuo volto si illumina”, pensai. “Il ricordo di te durerà quanto i moti degli astri fulgenti nell’etere, e il nostro amore sarà l’eredità delle nostre vite”, le dissi. 

 Quel momento, verso le tre del mattino, è stato uno dei più chiari e luminosi di mia vita mortale. Mentre la donna, rischiarandosi alle rosee carezze di quell’aurora lontana, celebrava l’estate e la nostra felicità con limpido canto, la luce crescendo e propagandosi ovunque, mostrava la bellezza ordinata dell’esistenza terrena e io me la sentivo fluire dentro, nei polmoni e nel sangue pulsato dal cuore pieno di gioia. Avvertivo il richiamo dell’arte che è fusione di bellezza, bontà e verità. 

 

 Tutte le piante, i fiori e le erbe dell’orto botanico si vivacizzavano: i campanellini dell’Heuchera sanguinea trillavano di felicità, la Campanula carpatica brillava di luce azzurra, e la Tunica saxifraga dal carneo colore danzava nella brezza mattutina al canto della donna innamorata. Sentivo l’ordine del cosmo e sapevo che il nostro amore ne faceva parte, contribuiva a formarlo. Respiravo con il mondo: ero entrato in quella unità della mia persona con l’universo che costituisce il culmine della felicità. “L’amore è la vita, l’amore è Dio”, pensai. “Un dio tanto umano da rendere divine le sue creature più buone e più belle, più simili a lui.” Ancora oggi, dopo quasi mezzo secolo, se per caso sento una voce femminile cantare quell’aria di Gershwin, rivedo l’estate di Debrecen con il grande bosco di alberi sacri, le querce dodonee che accarezzano le stelle del cielo, rivedo i salici che, piegati sul lago, vellicano le schiene purpuree dei pesci, rivedo le farfalle variopinte che danzano liete come fanciulle innamorate, quindi riappare la vegetazione strana dell’orto botanico e infine completa il quadro le membra di un bianco luminoso, i neri capelli, il volto dolce e intelligente, lo sguardo bello e buono di Helena Sarjantola che quell’estate remota, con parole piene di significato, con lo sguardo espressivo e penetrante, con la figura ben modellata da quel sommo artista che è Dio, mi mostrò l’idea eterna della bellezza corporea armonizzata con la nobiltà dello spirito. Ora tutto quanto vidi durante quella passeggiata remota è scomparso dal mondo, ma rimane dentro di me ancora osservato dalla mente e dal cuore con gioia e gratitudine verso la vita che mi ha donato questo regalo eterno, questo bene per sempre. 

 

 Domenica 22 agosto 1971, quando partì dalla Keleti Pályaudvar, la stazione orientale di Budapest, lasciandomi l’immortale memoria di sé, prima di salire sul treno celeste chiaro, come i laghi e il cielo un poco sbiaditi della sua terra, Elena mi ringraziò di non essere stato cattivo, né volgare, né stupido con lei. Le promisi che non lo sarei stato mai più con nessuno, poiché durante quel mese passato con lei mi ero sentito bene, ero stato, finalmente, me stesso. Le ripetei le parole dette da Odisseo a Nausicaa al momento del congedo: tu di fatto mi hai salvato la vita, ragazza[2]. Non ho sofferto per la sua sparizione, forse perché il desiderio ardente di quella donna, più che brama carnale del suo corpo era un bisogno struggente di identità da definire e completare grazie a lei. Quel 22 agosto Elena aveva già compiuto la sua funzione “storica”. Dopo la partenza del treno non l’ho più vista mai più, nemmeno quando, nel settembre del 1974 andai a Yväskylä a trovare Päivi che aspettava una bambina da me. Eppure l’ho sempre pensata come la creatura preziosa che, contraccambiando il mio amore, mi ha insegnato più di ogni altra ad amare la vita, a credere nel Bello e nel Bene, ad avere fiducia in me stesso, a diventare quello che sono, qualunque piccola, poca e povera cosa io sia. Comunque corrispondo alle mie aspirazioni commisurate alle mie qualità. Nei momenti più tristi e desolati di questa mia vita terrena, quando altre persone mi hanno deluso o tradito, da Päivi che dopo l’ultimo incontro in un letto di infelicità non mi mandava notizie, a Ifigenia che la notte atroce del pozzo di Vernicino, volle gettarsi nel torbido abisso anche lei, sempre mi sono rifugiato nel ricordo della notte felice in cui Helena mi insegnò ad aborrire dall’ingiustizia; poi, mentre il sole spuntava sul giardino di quel paradiso e versava le prime luci della sua bellezza inesausta, lei con angelica voce cantava un peana colmo di gratitudine alla vita bella, serena, meritevole di riconoscenza al Creatore, degna di essere vissuta in pieno, con gioia. Mi insegnava a non averne paura[3]. Apollo accompagnava quel canto facendo vibrare di vita le corde della dorica lira con il plettro d’avorio. E se dopo questa mirabile vita terrena, potremo viverne un’altra in mezzo alle stelle del cielo, o se[4] avremo una seconda possibilità qui, su questa bella terra illuminata dal sole, io spero di incontrarti ancora, Elena, amore mio, e di amarti di nuovo. 

 

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2. Odissea, VIII, 468 Suv ga;r m j ejbiwvsao, kouvrh,

3. Come ha raccomandato di recente papa Francesco: "non abbiate paura della gioia!". Parole sante. Le aveva già scritte Strabone il quale nella sua Geografia - redatta nei primi anni del regno redatta nei primi anni del regno di Tiberio - afferma che gli uomini imitano benissimo gli dèi quando fanno del bene ma, si potrebbe dire anche meglio, quando sono felici, (a[meinon d j a[n levgoi ti", o{tan eujdaimonw'si, X, 3, 9) .

4. Non sono d’accordo con gli estremisti del laicismo i quali che escludono questo “se” cruciale. La penso come il buffone di corte Touchstone, “Pietra di paragone”, che nella commedia pastorale As you like it di Shakespeare sentenzia: "'If' is the only peace - maker: much virtue in 'If' " (V, 4) , "Se" è l'unico paciere: c'è molta virtù nel "Se".

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